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George Saunders e Ben Marcus: una conversazione / 1

George Saunders BIGSUR, Interviste, Scrittura

Due scrittori a confronto sull’arte della short story (prima parte). L’intervista è apparsa originariamente su Granta, che ringraziamo.

di George Saunders
traduzione di Assunta Martinese

Dalla pubblicazione del suo primo libro, nel 1995, Ben Marcus è stato una presenza essenziale, radicale e incendiaria nel panorama della letteratura americana. A caratterizzare le sue opere è il modo in cui Marcus utilizza una sacra meraviglia nei confronti del linguaggio per far riverberare sentimenti nuovi. Sul lettore (o almeno su di me) ciò produce l’effetto di rinnovare il rapporto con il linguaggio – vale a dire, il rapporto con la propria vita. Oltre ad aver scritto raccolte di racconti (The Age of Wire and String [L’età del fil di ferro e dello spago] e Leaving the Sea), un romanzo breve (The Father Costume) e due romanzi (Notable American Women e The Flame Alphabet), Marcus è un importante editor e antologista. All’antologia di racconti da lui curata nel 2004, The Anchor Book of New American Short Stories, quest’anno ha fatto seguito New American Stories, pubblicata da Vintage negli Stati Uniti e da Granta Books in Gran Bretagna. Sono due antologie fondamentali, importanti e per molti aspetti controverse – come antologista Marcus è originale, accorto e appassionato quanto lo è come scrittore; un selezionatore radicale, potremmo dire. Ho avuto la possibilità di chiacchierare con Ben, chiedendogli di parlarmi dell’antologia e di come il lavoro svolto per metterla insieme abbia influenzato la sua percezione dei racconti e della cultura americana. (George Saunders)

George Saunders:
Ho trovato bellissima la tua introduzione all’antologia, dovrebbe essere una lettura obbligatoria in tutti i laboratori in cui si insegna ai giovani scrittori l’arte del racconto. Tra le cose che più ho ammirato c’è la concisione con cui esprimi un concetto essenziale e, a mio parere, sottovalutato: che lo scopo primario del racconto è la magia, che viene ottenuta per vie misteriose; il fatto che alla fine quello che facciamo non è un processo analitico o lineare. E che lo scopo è… il piacere. Tu racconti un gioco che fai con tuo figlio piccolo, lo avvolgi in una coperta e poi corri come un matto per tutta la casa tenendolo in braccio e lui si diverte un mondo: «Creiamo insieme una situazione in cui lui chiede di essere stupefatto e spaventato». Mi sembra descriva alla perfezione il motivo per cui leggiamo delle storie, e questa descrizione torna parecchio utile agli scrittori: vedersi assegnare un compito del genere dà un senso di libertà («Vai e falli divertire!»). Quindi, quello che volevo chiederti è: l’hai sempre pensata così, sulla letteratura? Che è una sorta di macchina esperienziale, progettata per suscitarci delle reazioni? Oppure, al contrario, qual era prima la tua idea della letteratura, e come si è evoluta fino a oggi?

Ben Marcus:
Non sono sicuro di cosa pensassi prima, quando ancora non avevo mai scritto una prefazione, o risposto a domande sulla scrittura, o provato a insegnare a scrivere agli studenti, un lavoro che nella mia mente presupponeva un certo grado di certezza. In un certo senso erano bei tempi. Quando si trattava di scrivere, nutrivo una certa sfiducia nei meccanismi e nell’analisi, o forse nella spiegazione in generale – perché facciamo questo, a cosa serve – che mi faceva anche comodo, visto che la mia ignoranza in materia era abissale. Non era difficile mantenere un silenzio monacale su cose che non capivo. Ma a un certo punto viene naturale assumere il ruolo di chi fornisce le spiegazioni. Per quanto mi sforzi, da insegnante, di fare mio il concetto di incertezza e di mistero, e sottolinearne l’importanza, quel ruolo spesso ti porta ad affermare cose che diventano perle di saggezza, anche se già a dirlo mi sento disonesto. Alla fine, sapevo che la mia introduzione non poteva porsi come una dichiarazione critica definitiva sull’arte del racconto in America, per quanto mi sarebbe piaciuto moltissimo leggerne una, quindi non mi restava che provare a scrivere qualcosa di personale, che risalisse a come e perché io leggo racconti, intesi come una sostanza da consumare: che sensazione danno, che effetto può avere la letteratura su di noi. In un certo senso, sono dovuto tornare con la mente all’inizio, quando tutto era ancora inesprimibile. Anche se non me lo sono detto apertamente, io leggo perché voglio provare delle sensazioni, e arrivo a dipendere dai fuochi appiccati dai racconti. Quindi, forse, in un modo o nell’altro sono cose che ho sempre pensato: che scrivere racconti è un processo sfuggente e misterioso.

Saunders:
Una splendida risposta. Quindi permettimi di proseguire con una domanda odiosa. Visto che leggi per provare delle sensazioni, come funziona (come funziona nel tuo caso) il processo nell’altro verso? In altre parole, come fa lo scrittore, o la scrittrice, a spingere la sua storia in una determinata direzione, per farla diventare qualcosa che produrrà delle sensazioni nel lettore?

Marcus:
È quello che vorremmo sapere tutti, no? Come diavolo si fa. Ad attrarmi, almeno in parte, è proprio il fatto che questa domanda sia senza risposta. Qualsiasi conoscenza specifica che conquisto su come si scrivono i racconti, qualsiasi informazione sfruttabile, si rivela tristemente instabile. Da buttare. Come un set di idee usa e getta che, a conti fatti, possono andar bene per uno specifico racconto a cui sto lavorando, ma poi basta. Completare un racconto con la convinzione di aver capito qualcosa per poi scoprire che quel modo di lavorare e pensare applicati a un’altra storia sono completamente inutili, è una bella lezione di umiltà. Devi trovare la x da capo, ogni singola volta. Ma io credo che quando vado a tentoni per scrivere un racconto in qualche modo cerco l’eccitazione – hai presente, è come stringere il laccio emostatico e piantare l’ago nel braccio, vedere se c’è una porzione di cervello o di cuore che non ho ancora raschiato. Direi che quello che faccio è mescolare insieme le frasi e assaggiarle, per vedere come mi fanno sentire. Cerco di capire se posso bloccare o liberare un determinato tipo di gravità o leggerezza, nel linguaggio – quello che mi sembra produrre l’effetto giusto. Purtroppo, il presupposto è che ciò che mi colpisce o mi commuove, ciò che mi fa ridere o inorridire, debba sortire un effetto simile anche sugli altri – il che non è affatto scontato. Capire questa cosa è sempre terribile, il fatto che tutta l’operazione abbia alla base dell’autoindulgenza, che richieda la spericolatezza di affermare cose profondamente soggettive, e insieme la speranza che qualcun altro sia programmato in modo simile. So bene che tentare di intrattenere gli altri basandosi su una congettura, provando a indovinare come sono fatti – quando in realtà siamo tutti inconoscibili, alla fine – non funziona mai e anzi è controproducente. Quindi tutto diventa uno spettacolo che metto in piedi per me stesso, facendo anche la parte del pubblico che schiamazza e brontola, che smaschera i trucchetti, pretende correzioni.

Saunders:
Nella prefazione fai una distinzione che mi affascina molto, e mi suona vera, tra «i racconti che ci aiutano a ignorare i nostri problemi [e] i racconti che ce li sbattono in faccia». Dopodiché ammetti di preferire il secondo tipo: «un racconto che non cerca di eludere un dato elementare e inesorabile – che siamo destinati ad andarcene». Questo mi ha fatto tornare in mente una cosa successa un po’ di anni fa, quando tenevo un corso sui racconti brevi all’università. Nel corso utilizzavo la tua prima antologia (The Anchor Book of New American Short Stories) e insieme ai ragazzi ripercorrevo i racconti cronologicamente. Quando siamo arrivati a quel meraviglioso racconto di Jhumpa Lahiri («Quando veniva a cena il signor Pirzada») ne è nata una discussione pazzesca, molto appassionata – i ragazzi hanno percepito (o notato) che i racconti precedenti li avevano in un certo senso portati, a livello viscerale, ad aspettarsi che sarebbe successo qualcosa di orribile. Che il signor Pirzada avrebbe molestato uno dei bambini o ucciso tutta la famiglia durante la cena o qualcosa del genere. E anche io ho dovuto ammettere di essermi aspettato qualcosa di simile – che lo scopo del racconto fosse, vagamente, quello di mostrare «il lato oscuro» – e di aver sentito poi una sorta di sollievo scoprendo che andava a parare da un’altra parte. E a quel punto le cose si sono fatte interessanti – ne è nata un’accesa discussione sull’oscurità nell’arte americana, una discussione in cui mi sono ritrovato spesso anche in relazione al mio lavoro. Ci sto girando un po’ intorno, ma la domanda che voglio farti riguarda l’oscurità, o l’inquietudine o (come l’ha definita qualcuno in riferimento alle mie opere) la «negatività». Mi sembra di capire che per te i racconti che suscitano una specie di paura o ansia – quelli che ci ricordano quanto sia spaventosa la nostra condizione sulla terra e/o evidenziano quanto spesso falliamo nel tener fede ai nostri istinti più nobili – sono semplicemente più piacevoli, producono più sentimenti, o sentimenti più intensi. (L’ho detto in modo corretto?) Senti il bisogno di giustificare l’«oscurità» (chiamiamola così) presente nelle tue opere o nei racconti che hai scelto? Ma poi serve davvero a qualcosa la distinzione tra «oscuro» e «non oscuro»? E quanto cazzo è lunga la mia domanda?

Marcus:
Me ne hanno fatte ben due più lunghe di questa. E sono tentato di rispondere sinteticamente: sì. Sì a tutto. Ma resta molto altro da dire, lo so, e sono cose su cui rimugino e mi arrovello tutto il tempo. Quindi, cominciamo dal racconto di Jhumpa Lahiri. Innanzitutto mi piace l’idea che un racconto dell’antologia possa capovolgere le aspettative create nel lettore dai racconti che lo precedono. Penso che la prefazione prometta al lettore una certa varietà estetica, nella speranza che il ventaglio di opere presentate dimostri che si possono scrivere racconti validi utilizzando principi artistici perfino antitetici, istruzioni di partenza completamente diverse. Una reazione simile, dunque, per me è auspicabile: è bello che davanti a un buon racconto non si possa arrivare preparati, conoscerlo in anticipo, che non ci si possa aspettare che funzioni in base a una serie di principi generalmente accettati. Ma se fossi stato presente in quell’aula, il tipo coi baffi seduto in fondo che cerca di mimetizzarsi, forse avrei osservato che, pur non finendo in modo brutale come altri racconti presenti nell’antologia, in quello di Jhumpa Lahiri l’inizio e la parte centrale sono intrisi di un dolore terribile, e sono abbastanza pesanti dal punto di vista emotivo. Il signor Pirzada è stato separato dalla sua famiglia e teme il peggio, ma si comporta in modo pacato, tenendosi la sofferenza ben chiusa dentro. Insieme alla famiglia da cui va a cena in America segue gli eventi nel loro paese d’origine: sono al contempo molto coinvolti e completamente impotenti. È tragico. E la bambina del racconto – nella sua famiglia integra, sicura, piena d’amore – deve confrontarsi col signor Pirzada, che è troppo educato perfino per manifestare il dolore. Alla fine capisce che c’è qualcosa di arbitrario e casuale nella propria felicità. Ha un incontro mediato con la tragedia – è distante, ma intimo. Succede in casa sua. Come mai lei è felice? Come mai quella tragedia non è successa a lei? La sua immaginazione viene messa alla prova. Anche solo a ripensarci, giuro, quel racconto ancora mi turba. È desolato e struggente, per quanto in superficie sia tutto controllato, per quanto il sentimento sia taciuto. Quindi direi che nella scala dell’oscurità il racconto si piazza molto in alto. Solo che ci arriva per altre vie.

La questione più ampia, «oscuro» contro «non oscuro», mi sa che richiede un paragrafo a parte. Joy Williams, in un’intervista, ha detto che «le buone storie parlano dell’orrore e dell’incomprensibilità del tempo». Che divertimento, eh! Ma è così, io alla fine io trovo piacere, valore, stimolo e provocazione nei racconti che meglio mi restituiscono la sensazione che si prova a essere vivi. In quelli che meglio mi restituiscono la meraviglia e la confusione naturali che vedo come una specie di reazione primaria alla vita. Non credo che questo significhi essere drogati di infelicità, o sguazzare voyeuristicamente nel dolore altrui. Al contrario, paradossalmente, è confortante leggere pagine in cui ci sembra di trovare dell’onestà, anche se, lo so, non è questa la parola precisa. I racconti di Joy Williams, così difficili e spinosi, in cui c’è sempre della vulnerabilità che viene a galla, mi placano un malessere perché non glissano su come stanno le cose, sull’effetto che fanno. Leggendoli si sperimenta una sorta di profonda fratellanza. Lei va a scavare in cose vere, rivelando una condizione naturale di meraviglia, paura, confusione, piacere, disperazione. Leggerli dà sollievo, come una medicina. Possiamo chiamare questo tipo di opere realismo emotivo? È così che descriverei il tuo racconto «Quercia del Mar». Nonostante un insieme di circostanze fantasiose e assurde, con uno sviluppo narrativo abbastanza impossibile, il ritratto emotivo che costruisci con sistematicità è del tutto convincente, pieno di desiderio. Non saprei spiegare in che modo quel racconto diventi «oscuro di riflesso». Quando lo leggo rido e e inorridisco e resto sbalordito, ma soprattutto provo una sorta di profondo conforto – hai mostrato come ci si sente a essere vivi.

Invece trovo meno interessanti, di solito, quei racconti che sembrerebbero fuggire da tutto questo, storie che nascondono una qualche profondità o paura o complessità cruciale, che non affondano le mani in una vasta vita interiore, in una reazione primaria alla morte incombente, o cose del genere. Chiamala pure artificialità emotiva. È sempre un po’ deprimente quando ci mentono, in particolare con delle banalità… Va tutto bene. Non preoccuparti. Cose così. Sul serio? Non devo preoccuparmi? Proprio di niente? Ok. Detto questo, anche di quel tipo di scrittura in teoria più coraggiosa esistono versioni mal realizzate, e tutte le distinzioni crollano, perché senza la vera abilità artistica il risultato risulta debole, poco convincente, imbarazzante, pretenzioso. Non è che puoi solo introdurre un po’ di personaggi e poi farli morire tutti, uno per uno. Quindi, bisogna andarci cauti. Aggiungerei che in altri mezzi di espressione, distinti dalla scrittura, da un po’ di tempo ho iniziato a preferire approcci più elusivi, artificiali dal punto di vista emotivo, anestetici. Invece la scrittura secondo me è un mezzo particolarmente adatto a indagare la condizione della mortalità, mettendola in scena o descrivendola. Può anche renderla dannatamente ridicola, in realtà. Ridicola come in Beckett. Come in Jane Bowles. Come in Flannery O’Connor. La scrittura ci riesce. Naturalmente tutti noi vorremmo una medicina contro la consapevolezza della mortalità. Apprezzare quel genere di racconti non vuol dire che non amiamo la vita. Significa che la amiamo così tanto da voler tenere presenti tutte le difficoltà e complessità che la vita porta con sé. Proviamo piacere quando sentiamo che qualcuno ha toccato un punto essenziale. E comunque ci piacciono anche le nuotate nell’oceano, le grigliate in cortile, giocare con i nostri bambini e sistemare la casa. Ci piace andare in bici, il sesso proibito e, se ci gira, fare quattro salti sul tappeto elastico. Non so come sono arrivato a parlare per gli altri, però. È che mi sembra importantissimo affermare che nella letteratura che possiamo definire più oscura c’è anche una vagonata di gioia, e cercare lì il divertimento non fa di te un musone idiota.

Poi è chiaro che ognuno legge per ragioni diverse. Stavo giusto guardando su Amazon le recensioni di un libro che vorrei comprare, perché trovo certi commenti estremamente perspicaci – sul serio, chi l’avrebbe detto che l’intelletto americano scorre in modo così libero e fruttuoso nelle recensioni degli acquirenti – e c’era una discussione piuttosto lunga che contestava quella che veniva chiamata la «descrizione della crudeltà» nel libro in questione. Qualcuno diceva, e un coro gli faceva eco, che il libro era inutilmente triste e cupo, che preferivano non pensare a cose simili. Ricevuto. Non credo che basti un’argomentazione razionale per far cambiare idea a quei lettori, e nemmeno lo vorrei. Sono cose profonde, private. Che ognuno legga per le ragioni che crede.

Saunders:
Quindi, mi sembra di capire che tu abbia letto centinaia di racconti prima di selezionarne trentadue da inserire nell’antologia. E volevo chiederti se questa esperienza ti ha insegnato qualcosa sulla forma racconto in sé, e in particolare la forma che il racconto assume nella nostra epoca. Per esempio: cos’è che riesce bene ai racconti americani? Dov’è che non arrivano o peccano? Ne sei uscito con una qualche idea su cosa sia il racconto americano oggi?

Marcus:
Oddio. Temevo che qualcuno mi facesse questa domanda. Spero di non sembrare evasivo se dico che ho incontrato una varietà di forme quasi inconcepibile mentre leggevo per questa antologia e sono molto felice di non essere un antropologo incaricato di documentare i modelli e le correnti del racconto americano. Naturalmente, nelle opere che ho letto, ho visto le stesse microtendenze che di recente sono esplose nel romanzo: una vocazione documentarista, che sposa l’effetto non-fiction. È tutto vero! Ho notato un amore per l’autorevolezza, insieme alla diffidenza verso ciò che è platealmente artificiale – tecniche narrative che sembrano affettate o apertamente finzionali. Poi, è onnipresente il tema della guerra. Guerre che possiamo identificare, guerre irriconoscibili, un sacco di guerre ambientate in un futuro imprecisato. Ultimamente i racconti non sembrano legati a uno scenario particolarmente americano. Ci sono raccolte di esordienti ambientate in altri continenti, e c’è un amore per le ambientazioni indistinte, che siano post-apocalittiche o collocate fuori da un’epoca riconoscibile. Fra gli strumenti più usati ci sono
anche gli effetti fantastici, a patto che siano presentati in modo asciutto (sembra in declino quella stravaganza esuberante, autoriferita, oppure io me la sono persa). Le invenzioni magiche e perturbatrici che prima erano predominanti in certi racconti adesso sono state incorporate in un realismo domestico più ordinario. Hai presente, un racconto di Cheever ma con un robot nello sgabuzzino, o che ne so. Pessimo esempio, ma voglio solo dire che il realismo domestico, almeno secondo me, aveva eretto delle barriere contro all’elemento fantastico (vedi l’annosa guerra tra gli scrittori del realismo sporco, o minimalismo, e quelli cosiddetti postmoderni), mentre adesso lo vedo sempre più presente, come un piccolo elemento luccicante. Com’è possibile andare oltre quello che ha fatto Alice Munro? Modifichi l’ambientazione, la sposti nel futuro, o apri un varco spazio-temporale, o che so io. E, anche qui come nel romanzo, c’è una piccola storia d’amore col futuro in generale, a patto che il futuro sia cupo, di solito a causa dell’avidità e della stoltezza umana. L’imperialismo americano, insieme all’avidità e alla stupidità americane e via dicendo, sono presentati come dati di fatto. L’America, proprio come concetto, è una specie di forza del male. Detto questo, quando ero immerso nel lavoro dei singoli scrittori, mi colpiva quanto fossero indipendenti ed eccentriche e complesse e quasi ermetiche le loro visioni, quanto sembrasse difficile collegarle a una moltitudine di altre persone. E ciò che mi ha dato la motivazione per mettere insieme questa antologia è stato in parte anche il desiderio di mostrare quanto fosse in realtà sfuggente e instabile e in eterna espansione la categoria del racconto, il fatto che abbatte le generalizzazioni che gli si vorrebbero affibbiare. Quando leggo Deborah Eisenberg, poi Rachel B. Glaser, poi Yiyun Li, poi Lydia Davis, mi sembra che queste scrittrici abbiano studiato su pianeti lontanissimi, ognuna con la sua strumentazione unica, inseguendo missioni profondamente individuali e private. E, in tutta onestà, è questo che amo dei racconti, la loro estrema flessibilità artistica, e il fatto che resti ancora così tanto spazio per fare cose diverse e – si può ancora usare questa parola? – originali.

Saunders:
Questo mi ricorda come mi sento ogni anno dopo aver esaminato le prove di ammissione per l’università di Syracuse, quando in un periodo di tempo limitato leggiamo seicento o settecento racconti. Ne esco sempre con una sensazione abbastanza viscerale sulle tendenze della narrativa negli Stati Uniti (almeno limitatamente al campione che ho a disposizione), per quanto mi risulti poi difficile spiegarle e articolarle con precisione. Sento anche il mio senso estetico che si ridefinisce – una specie di restringimento del campo, un serrare le file – come se si risvegliassero le mie convinzioni autentiche riguardo alla narrativa. Dopo aver completato le tue letture – e se non trovi che la domanda sia troppo indiscreta – ne sei emerso con qualche proposito o impulso riguardo al tuo lavoro di scrittore? Cose che vorresti accogliere o evitare? Dinamiche che ti sembravano fasulle? Nuove idee su cosa possa essere un racconto che ti hanno entusiasmato particolarmente?

Marcus:
Be’, mi sono sentito un pochino disfatto dopo aver finito di leggere i racconti per questa antologia. DeLillo, Eisenberg, tu, Lipsyte, Zadie Smith, Anthony Doerr, Christine Schutt, Mary Gaitskill, Rebecca Curtis. Praticamente tutti. Ero certo di non poter sopportare il livello di profondità e intensità presente in alcune delle opere che ho letto. Era spaventoso. Prima di cominciare, ricordo che ero felice alla prospettiva di dover leggere parecchie centinaia di racconti: cosa poteva esserci di più istruttivo, di più formativo? Nel mio progetto c’era sempre un aspetto egoistico. Avrei imparato moltissimo, mi sarei sentito concentrato e motivato. Avrei rubato tutti i loro trucchi. E invece alla fine sono rimasto con le pive nel sacco. Non è che sono amareggiato. Solo che, ehm, poi mi sono rimesso all’opera, e ho scritto un po’ di racconti. Per quello che potevo vedere, i miei demoni e le difficoltà erano ancora più o meno le stesse. Resto sempre un po’ grasso e lento sul campo. Ho sempre le stesse ferite croniche. Mi devo sforzare di dare un peso sufficiente alle storie che racconto, innanzitutto ai miei stessi occhi. E faccio sempre fatica a trovare la forza di propulsione, un congegno formale che guidi la storia. Mi piace scoprire come lo fanno gli altri, ma non mi ha aiutato più di tanto. Mi dico spesso che devo mettermi e studiare seriamente un racconto che mi piace, capire davvero come funziona, ma per qualche motivo non ci riesco mai. È il racconto stesso, quando è sublime, a tenermi lontano dai suoi meccanismi interni. Allo stesso modo, osservare i campioni di baseball non mi ha portato a giocare meglio.

[continua]

© George Saunders, 2015. Tutti i diritti riservati.

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