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Maestre del racconto: la genealogia letteraria di Lucia Berlin

Bridget Read BIGSUR, Ritratti

Pubblichiamo un articolo su Lucia Berlin e le grandi maestre americane del racconto, apparso nell’agosto 2015 su Lit Hub. Ringraziamo la testata.
A Manual for Cleaning Women di Lucia Berlin uscirà in Italia nel 2016 per Bollati Boringhieri.

di Bridget Read
traduzione di Davide Trovò

Il doppio senso nel titolo della nuova raccolta di Lucia Berlin ricorda molto quello di «To Serve Man», racconto fantascientifico di Damon Knight reso celebre da un episodio di Ai confini della realtà. Come in quel classico esempio, è possibile interpretare sul piano sintattico A Manual for Cleaning Women [letteralmente: Manuale per donne delle pulizie] con cleaning come verbo e women come oggetto [ossia: Manuale per pulire le donne], e a sostegno di questa lettura ci sarebbero prove in abbondanza: A Manual for Cleaning Women è pieno di donne che si ripuliscono, donne che vengono ripulite e donne che lasciano tracce da ripulire.

Ma il racconto eponimo non è sull’atto di ripulire le donne, bensì sul soggetto: una donna che pulisce case. Mentre l’umano del racconto di Knight, fino a quando non si rende conto che sta per essere mangiato, interpreta il titolo del ricettario dell’alieno come «essere al servizio dell’uomo», invece che servirlo come pasto, la rivelazione nel titolo di Lucia Berlin consiste, significativamente, nel capire che le «donne delle pulizie» sono il soggetto e il manuale il loro oggetto. L’opera dell’autrice fa proprio questo: prende alcolizzati, drogati, vedove e lavoratori notturni – i poveri, disprezzati e disgraziati – e dai margini li porta al centro, a fianco dei ricchi, giovani, belli e puliti.

Influenzati ma non vincolati dalla sua vita personale – nei periodi trascorsi a Santa Fe, Santiago, New York e in Alaska, Colorado, Texas e California, l’autrice ha vissuto sulla sua pelle molte di queste condizioni, se non tutte – i racconti di Lucia Berlin sono magistrali. Nell’esplorare la monotona routine di una donna delle pulizie o nel descrivere una scena di sesso subacqueo in una baia messicana, la sua prosa scivola senza sforzo, ma con esiti elettrizzanti, tra ferocia e tenerezza, con eroine buffe e disperate, moribonde e capaci di riscatto. Lydia Davis, nell’introduzione, afferma che «questi racconti ti fanno dimenticare cosa stavi facendo, dove sei e perfino chi sei»: sì, hanno questo potere. E ad avermi colpito più di tutto, leggendoli, è quanto lo sguardo da estranea della Berlin sia perfetto per affrontare una forma di racconto prettamente americana. L’uso stupefacente di colloquialismi e tic linguistici per creare subito personaggi che rimangono impressi, e l’abilità nel trasformare luoghi qualunque come una lavanderia a gettoni e scene ordinarie di turismo balneare, con pochissima azione, in interi ecosistemi di personalità e di umanità, rafforzano l’idea che la prospettiva di una scrittrice donna sia la più adatta ad analizzare un paese di contraddizioni, un posto in cui capire chi viene ripulito e chi si occupa della ripulitura è vitale. E non è certo una novità che le donne, le donne americane, siano ottime scrittrici di racconti, e che lo siano da tempo.

Perché allora Lucia Berlin e altre come lei vengono paragonate con tanta frequenza e insistenza a scrittori di sesso maschile? Non mi piace doverlo ammettere, ma uno dei miei primi pensieri è stato che la Berlin presenta una parsimonia di linguaggio degna di Hemingway, con Juarez ed El Paso dell’una che riecheggiano Cuba e Key West dell’altro. In un racconto ambientato nella California suburbana su una donna che, fra scappate mattutine al negozio di alcolici, deve far preparare i figli per la scuola, ho trovato l’oscurità e la solitudine di John Cheever. E, naturalmente, c’è l’ingombrante presenza di Čechov, che, sebbene non americano, è il non plus ultra della prosa breve. Varie descrizioni di A Manual for Cleaning Women attribuiscono a Lucia Berlin somiglianze con Čechov, Cheever e Raymond Carver. Non c’è da stupirsi se il titolo gioca con il presupposto che le donne siano l’oggetto anziché il soggetto. Perché nella prosa breve, quando si parla di maestri, tipicamente ci si ostina a parlare di uomini, e questo vale in particolar modo nel caso dei racconti americani.

In un’antologia del 1995 su questo tema, Julie Brown espone molti dei motivi per cui il fenomeno persiste e, vent’anni dopo, la sua analisi resta valida. In primo luogo, le tanto discusse difficoltà commerciali nel pubblicare racconti implicano che gli autori noti siano soltanto i pochi che sono riusciti a emergere dall’anonimato, da cui il continuo richiamo ai «maestri» del genere. E mentre altri paesi anglofoni, nello specifico Gran Bretagna e Canada, sembrano avere una tradizione un po’ più bilanciata – si pensi a Doris Lessing, Angela Carter e Alice Munro – il canone autoriale prediletto negli Stati Uniti è all’incirca questo (citando la Brown): da Irving/Melville/Hawthorne/Poe a Harte/Twain/Fitzgerald/Hemingway a Barth/Coover/Barthelme/Carver. Forse l’opinione prevalente è che i migliori racconti americani siano muscolari, snelli (secondo me, parsimoniosi): fallici.

Lucia Berlin, oltre che agli scrittori maschi citati sulla sovraccoperta del suo libro, è stata paragonata a Lorrie Moore e Grace Paley, le quali ci ricordano che sì, negli Stati Uniti esiste una lunga tradizione di racconti scritti da donne, e che le dovremmo chiamare maestre con lo stesso slancio di ammirazione dimostrato per i colleghi di sesso maschile. E non solo, ci sono anche donne americane di colore che meritano un posto fra i «migliori». Non pretendo che gli uomini vengano eliminati; la Berlin di certo si opporrebbe alla perdita di Čechov, che grande ascendente ha avuto sulla sua scrittura. Ma, come afferma Clare Hanson nell’antologia di Julie Brown, «il racconto è stato sin dal principio un veicolo quanto mai adatto a esprimere la visione eccentrica e alienata delle donne».

Perciò cominciamo col prendere in esame un elenco di scrittrici magistrali già parte di una tradizione a cui ora è possibile ascrivere anche Lucia Berlin, nella speranza che in futuro possano – lei compresa – figurare più spesso sulle copertine dei libri e nelle descrizioni dei cataloghi. Questo elenco non è affatto esauriente, si tratta piuttosto di alcune donne la cui opera acquista una particolare rilevanza in rapporto a quella della Berlin. Di fatto, l’inclusione di un numero maggiore di donne nella cerchia dei maestri dovrebbe smorzare la nostra fiducia in una categoria basata, al contrario, sull’esclusione. A Manual for Cleaning Women è, in fin dei conti, un manuale, fatto per essere condiviso.

 

grace_paleyGrace Paley

In Piccoli contrattempi del vivere (1959), sua raccolta d’esordio, ritroviamo le donne, le madri e la classe operaia di New York; ad accomunare Grace Paley e Lucia Berlin, però, sono l’autenticità dei personaggi e un’analisi delle consuetudini sociali sincera e pregna di humour. Con l’avanzare della carriera, l’opera della Paley si fa più sperimentale e aperta alle interpretazioni. In un racconto della sua seconda raccolta, un padre chiede alla figlia di tornare a scrivere «una storia semplice», come Čechov, al che lei risponde di non riuscirci: la trama «porta via ogni speranza».

dorothy_parkerDorothy Parker

Se Grace Paley è contemporanea di Lucia Berlin, lei le precede entrambe. Dorothy Parker ha incarnato alla perfezione quel personaggio di ragazza «maschiaccio», insolente e incline ad alzare il gomito, e, sebbene in una certa misura la si ricordi per la poesia, viene spesso citata come amica di Fitzgerald ed Hemingway, anziché come scrittrice di qualche merito. Secondo Ken Johnson, invece, molte delle innovazioni formali presenti nei suoi racconti – narrazioni di solo dialogo o con lunghi monologhi – potrebbero in realtà aver influenzato i due scrittori. Il disordine della sua vita privata e la volontà di trasferirlo nella propria opera trovano senz’altro eco in Lucia Berlin.

Zora Neale Hurston, Class of 1928, Chicago, Ill., November 9, 1934Zora Neale Hurston

È bene tener presente che Zora Neale Hurston e Dorothy Parker scrivono a New York all’incirca nello stesso periodo e che, laddove a scrittori come Fitzgerald viene riconosciuto di definire il canone dell’epoca, gli autori dell’Harlem Renaissance vengono invece raggruppati in una corrente storica. Prima di scrivere romanzi, la Hurston contribuisce a diverse fra le numerose antologie fondate da scrittori neri per scrittori neri. Leggete «Sweat» (1926), storia di una lavandaia e del marito violento ambientata nella Florida meridionale, insieme a «A Manual for Cleaning Women»: l’influenza della Hurston su Lucia Berlin sarà innegabile, con il suo sguardo antropologico e l’attenzione al dettaglio domestico.

flannery_oconnorFlannery O’Connor

Una generazione dopo, il Sud di Flannery O’Connor è pieno di bianchi benintenzionati incapaci di incidere su un mondo crudele e ingiusto; la stessa violenza si ritrova nei racconti della Berlin ambientati a Santiago ed El Paso. Le due autrici sono inoltre accomunate dall’educazione cattolica, anche se l’opera di Flannery O’Connor affronta di più i temi del peccato e della Provvidenza, mentre Lucia Berlin si avvicina a un totale rifiuto. Tutte e due hanno il gusto del macabro (il gotico di Flannery O’Connor) e dimostrano interesse per gli anziani in quanto personaggi imperfetti, troppo nostalgici, come nel celebre «Un brav’uomo è difficile da trovare»: viene in mente, come possibile confronto, il racconto di Lucia Berlin sul nonno che si cava i denti da solo.

jamaica_kincaidJamaica Kincaid

Lo stile dei suoi racconti, simili a prose poetiche, potrà differire da quello di Lucia Berlin, più convenzionale, ma il racconto più conosciuto di Jamaica Kincaid, «Bambina», presentato come una serie di istruzioni da madre a figlia, non funziona in modo poi così diverso dal «Manual» della Berlin. Tutte e due prediligono i rapporti tra donne e mettono in scena gli aspetti umilianti della condizione di inclusa/esclusa, in un’esposizione seriosa che lascia trapelare il loro dolore. Jamaica Kincaid gioca con il genere, aprendo una riflessione postcoloniale sulla forma che forse un romanzo o la narrativa più lunga non consentirebbero.

lydia_davisLydia Davis

«Racconto come prosa poetica» è una definizione adatta anche a Lydia Davis, che ironicamente potrebbe essere l’esempio estremo dell’ipotetica parsimonia comune alla migliore narrativa breve; lei, però, sovverte questo principio radicando con enfasi la sua opera nell’esperienza delle donne. La prosa della Davis fluttua sulla pagina in paragrafi brevi e sottili come fili, ma i racconti sono scritti con la precisione e l’affilatezza di una freccia: taglienti nel descrivere le inquietudini di una relazione, inflessibili nel confronto con la morte, il sesso e la perdita. Lydia Davis sa come trarre dalla propria esperienza di vita un’arte rigorosa, il che spiega la sua stima per la Berlin.

ann_beattieAnn Beattie

Considerata a un certo punto il volto di un’intera generazione di narratori minimalisti di fine anni Settanta, Ann Beattie ha plasmato una voce smorzata, distaccata, che secondo i critici nessuno era mai riuscito a cogliere davvero, scrivendo di personaggi che escono da un’epoca esaltante di controcultura emotivamente freddi e ancor più disadattati. Ampiamente imitato, lo sguardo acuto della Beattie su persone e situazioni, che nessuno prima sembrava aver distillato con la stessa maestria, riecheggia quello di Lucia Berlin, la cui opera, analogamente, tocca un preciso periodo dell’America postbellica.

lorrie_mooreLorrie Moore

L’aspetto confessionale della scrittura di Lorrie Moore è stato motivo d’interesse per i critici, e il realismo dei suoi racconti, alleggerito da uno humour disinvolto, scaturisce secondo molti dall’esperienza personale. Anche lei, come Lucia Berlin a suo tempo, è refrattaria a questi collegamenti, attenta invece alle soddisfazioni e alle inadeguatezze della lingua a un livello quasi semiotico; in un racconto della sua raccolta più recente, Bark, la narratrice paragona l’autolesionismo del figlio alle incisioni su un albero o su un tavolo da picnic: «la mutilazione era un linguaggio». Come per la donna delle pulizie della Berlin – che viaggiando si orienta con i nomi delle linee degli autobus e con le pubblicità familiari sulle panchine – depressione, illuminazione, arguzia sardonica e sentimento sincero sono tutti raccolti nell’atto della navigazione.

amy_hempelAmy Hempel

Amy Hempel viene definita una minimalista al pari di Lydia Davis e Ann Beattie, ma è una maestra del racconto forse nel senso più puro, poiché ha fondato la sua carriera di scrittrice quasi esclusivamente su questa forma. Le narratrici di Amy Hempel sono perlopiù emarginate, e l’oscurità nella sua opera raggiunge la massima forza grazie alla scarsità di parole impiegate. Nel suo racconto più noto, «Nel cimitero dov’è sepolto Al Jolson», la narratrice fa visita a un’amica in punto di morte; la stessa vicinanza tra humour e tragedia risuona nelle sorelle di «Grief» di Lucia Berlin, l’una non più in remissione dal cancro, l’altra che, in silenzio, sta morendo di alcolismo: la loro risata maschera una disparità impressionante tra ciò che provano e ciò che dicono.

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