Il binomio Uomo-Natura in Horacio Quiroga

redazione Racconti, SUR

Pubblichiamo oggi un racconto di Horacio Quiroga, considerato uno dei più importanti autori di racconti latinoamericani. A presentarcelo sono Jadel Andreetto e Mariana E. Califano. Salutiamo tutti i lettori del blog e vi diamo appuntamento a settembre. Buone vacanze!

di Jadel Andreetto e Mariana E. Califano

Visionario, avanguardista, dandy, provocatore, bohémien: così viene ricordato Horacio Quiroga (Uruguay, 1878 – Argentina, 1937), in realtà si tratta di uno dei più grandi narratori latinoamericani, riconosciuto in tutto il mondo per la sua prosa vivida, naturalista e modernista. I suoi racconti brevi dipingono spesso la natura, nemica dell’essere umano, con tratti orrorifici e terribili. Una caratteristica che lo avvicina, per certi versi, ad alcuni autori americani come Poe. E infatti Quiroga riconosceva in Poe, Maupassant, Kipling e Chejov i suoi numi tutelari e nutriva per la letteratura una fede incrollabile in contrasto con le tragiche vicende che fin dall’infanzia segnarono la sua vita: il padre morì per un colpo accidentale partito durante una sortita di caccia, il patrigno si fece saltare le cervella e, per uno sfortunato incidente, Quiroga uccise un amico con un colpo di pistola.

Ventenne, dopo aver trascorso un certo periodo a Parigi, Quiroga tornò in Sudamerica e fece un viaggio nella foresta di Misiones, nel nord dell’Argentina, in compagnia del poeta Leopoldo Lugones, un evento decisivo per la sua vita e la sua opera: ben presto si trasferì infatti a Misiones dove mise su famiglia in una baracca nella natura selvaggia.

La sua prima moglie, incapace di sopportare quelle dure condizioni di vita, si suicidò avvelenandosi e patendo una lunga agonia. Nonostante tutto fu proprio la foresta a fornire a Quiroga materia d’ispirazione per le sue opere e soprattutto per i suoi racconti.

Quiroga trascorse una vita inquieta, tra viaggi, droga, alcol, figli, matrimoni, una breve e intensa fascinazione per Buenos Aires e un anelito perenne nei confronti della foresta.

Morì suicida, in una clinica di Buenos Aires, dopo una breve malattia.

Nella narrativa quioroghiana tutto riconduce al confronto tra uomo e natura in un parallelo che richiama la dualità Uomo-Destino della cultura classica. Le descrizioni naturalistiche, minuziose e precise, evidenziano una forte conflittualità nella relazione e la natura ostile, cieca, ma giusta è quasi sempre vincitrice sull’uomo. La morte del contadino o del pescatore a causa di un qualche animale selvaggio, che sia un serpente velenoso, un coccodrillo o un parassita del sangue, sono sempre parte di un gioco letale in cui l’uomo cerca di sopraffare la natura e di batterla per sopravvivere, proprio come fece Quiroga quando visse nella giungla di Misiones. Ma la lotta è impari e finisce sempre con il fallimento, la demenza, la morte o semplicemente la disillusione.

L’ossessione morbosa di Quiroga per la morte e il dolore viene accettata molto più facilmente dai personaggi che dal lettore: i protagonisti dei racconti sono abituati al pericolo e alle avversità e agiscono secondo regole chiare e specifiche: sanno di non potersi concedere degli errori perché la natura, la foresta, non perdona e quando cadono lo fanno con “sportività” lasciando nel lettore un senso si spaesamento.

Ipersensibile e vulcanico, coinvolto in amori impossibili, frustrato dai fallimenti economici ma sempre emotivo e dotato di una creatività dirompente, Quiroga pescò a piene mani dalla sua vita tragica, dalla sua terribile esperienza di confronto con la natura che studiò e patì a fondo, per costruire la sua opera narrativa che molti critici considerano autobiografica. Il realismo interno e organico, che alle volte sfocia nel fantastico e nel perturbante, della poetica di Qurioga incanta i lettori che riscoprono, ancora oggi, in lui quella capacità così rara, di sussurrare le proprie parole all’orecchio anche se a volte il mormorio si trasforma in un urlo disperato.

Pubblicato per la prima volta il 27 giugno del 1920 dal quotidiano argentino La Nación, “El hombre muerto” è tra i racconti che esprimono al meglio le qualità della sua poetica.

L’uomo morto

di Horacio Quiroga

Traduzione di Jadel Andreetto e Mariana E. Califano

L’uomo e il suo machete avevano finito di ripulire il quinto filare del bananeto. Mancavano ancora due filari, ma siccome in essi c’era abbondanza di euforbie e di malva silvestre, il lavoro che avevano davanti era ben poca cosa. Perciò l’uomo lanciò uno sguardo soddisfatto agli arbusti tagliati e scavalcò il recinto per andare a stendersi un po’ sull’erba.

Ma, nell’abbassare il filo spinato e scavalcare, il piede sinistro inciampò su un pezzo di corteccia staccatosi dal palo, al contempo il machete gli sfuggì di mano. Mentre cadeva, ebbe l’impressione molto vaga di non vedere il machete di piatto a terra.

Era già steso sull’erba, sdraiato sul lato destro, proprio come gli piaceva. La bocca che si era aperta in tutta la sua grandezza, si era anche già richiusa. Stava come avrebbe desiderato di stare, le ginocchia piegate e la mano sinistra sul petto. Solo che da dietro l’avambraccio e subito sotto la cinta, spuntavano dalla sua camicia il pugno e metà lama del machete; il resto non si vedeva.

L’uomo tentò di muovere la testa, invano. Guardò con la coda dell’occhio l’impugnatura del machete, ancora umida del sudore della sua mano. Stimò mentalmente la lunghezza e la traiettoria della lama dentro il suo ventre e arrivò alla fredda, matematica e inesorabile certezza del fatto che era arrivato al termine della sua esistenza.

La morte. Nel corso della vita si pensa molte volte che prima o poi, tra anni, mesi, settimane e giorni di preparazione, arriveremo a nostra volta alla soglia della morte. È la legge fatale, condivisa e prevista; tanto che siamo soliti farci trasportare gradevolmente dall’immaginazione verso quell’attimo, supremo tra tutti, in cui esaliamo l’ultimo respiro. Ma tra il momento presente e quel respiro finale, che sogni, trambusti, speranze e drammi supponiamo per la nostra vita! Cosa ci riserva ancora quest’esistenza piena di vigore, prima della sua cancellazione dallo scenario umano! È questa la consolazione, il piacere e la ragione delle nostre divagazioni sulla morte: com’è lontana la morte e com’è imprevedibile quanto ci resta ancora da vivere!

Ancora?… Non sono passati che due secondi: il sole è esattamente alla stessa altezza; le ombre non sono avanzate di un millimetro. Bruscamente, per l’uomo steso a terra si sono concluse le divagazioni a lungo termine: sta morendo.

Morto. Può considerarsi morto nella sua comoda posizione. Eppure l’uomo apre gli occhi e guarda. Quanto tempo è passato? Quale cataclisma si è abbattuto sul mondo? Quale mutamento di natura trasuda l’orribile evento?

Morirà. Freddo, fatale e inevitabile: morirà.

L’uomo resiste -quell’orrore è così imprevisto!- e pensa: È un incubo; ecco cos’è! Cos’è cambiato? Nulla. E guarda: Non è forse questo bananeto il suo bananeto? Non viene tutte le mattine a pulirlo? Chi lo conosce quanto lui? Vede chiaramente il bananeto, molto diradato, e le foglie ampie nude al sole. Sono lì, molto vicine, sfilacciate dal vento. Ma adesso non si muovono… È la quiete del mezzogiorno; tra poco saranno le dodici.

Tra i banani, lassù in cima, l’uomo vede dal duro suolo il tetto rosso della sua casa.  A sinistra, intravede il monte e la radura coltivata a cannella. Non riesce a vedere altro, ma sa molto bene che alle sue spalle c’è il sentiero verso il porto nuovo; e che nella direzione della sua testa, là in basso, giace sul fondovalle il Paraná assopito come un lago. Tutto, tutto esattamente come sempre; il sole di fuoco, l’aria vibrante e solitaria, i banani immobili, il recinto di pali molto grossi e alti che presto dovrà sostituire…

Morto! Ma è possibile? Non è questo uno dei tanti giorni in cui è uscito di casa all’alba con il machete in mano? Non è proprio lì, a quattro metri da lui, il suo cavallo, il suo bella faccia, che annusa cautamente il filo spinato?

Ma sì. Qualcuno fischietta… Non può vedere, perché è di spalle al sentiero; ma sente risuonare i passi del cavallo sul ponticello… È il ragazzo che passa tutte le mattine per andare verso il porto nuovo alle undici e mezza. E sempre fischiettando…

Dal palo scortecciato che tocca quasi con gli stivali, alla barriera di arbusti montani che separano il bananeto dal sentiero ci sono quindici metri abbondanti. Lo sa molto bene, perché lui stesso montando il recinto, ha misurato la distanza.

Che succede allora? Non è forse un tipico mezzogiorno dei tanti di Misiones, sul suo monte, nei suoi terreni dissodati, nel suo rado bananeto? Non c’è dubbio! Erba bassa, formicai, silenzio, sole a piombo…

Nulla, nulla è cambiato. Solo lui è diverso. Da due minuti la sua persona, il suo io vivente, non ha più nulla a che fare né con il terreno dissodato, che ha creato lui stesso a zappate per cinque mesi consecutivi, né con il bananeto, opera delle sue sole mani. Né con la sua famiglia. È stato ghermito brutalmente, naturalmente, a causa di una corteccia polita e un machete nel ventre. Da due minuti: sta morendo.

L’uomo, molto affaticato e steso sull’erba sul lato destro, continua a rifiutarsi di ammettere un fenomeno di tale portata, di fronte all’aspetto normale e monotono di quanto sta guardando. Sa con precisione l’ora: le undici e mezza… Il ragazzo di tutti i giorni è appena passato sul ponte.

Ma non è possibile che sia scivolato!… L’impugnatura del suo machete (dovrà cambiarlo al più presto con un altro; ha poco slancio) era perfettamente salda tra la sua mano sinistra e il filo spinato. Dopo dieci anni di vita nella foresta sa molto bene come si maneggia un machete. È solo molto affaticato dal lavoro di quella mattina e sta riposando un attimo come al solito.

La prova?… Ma quell’erba che sta entrando proprio ora dalla fessura della sua bocca l’ha piantata lui stesso, in zolle di terra distanti un metro l’una dall’altra! E quello è il suo bananeto! E quello è il suo bella faccia, che sbuffa cauto davanti agli spunzoni del filo spinato! Lo vede chiaramente; sa che non si azzarda a voltare l’angolo del recinto, perché c’è lui riverso lì ai piedi del palo. Lo distingue molto bene; e vede i fili scuri di sudore che colano dal garrese e dall’anca. Il sole cade a piombo e la calma è davvero grande, perché non si muove neanche una frangia di banano. Tutti i giorni come questo, ha visto la stessa cosa.

… Molto affaticato, ma sta solo riposando. Devono essere già passati diversi minuti. E alle dodici meno un quarto, da lassù, dallo chalet dal tetto rosso, sua moglie e i suoi due figli si incammineranno verso il bananeto a cercarlo per pranzo. Sente sempre, prima delle altre, la voce di suo figlio minore che vuole liberarsi dalla mano della madre. Piapià! Piapià!

Non è quello?… Certo, sente! È già l’ora. Sente effettivamente la voce di suo figlio…

Che incubo!… Ma è uno dei tanti giorni, banale come tutti, è chiaro! Luce eccessiva, ombre ingiallite, caldo silenzioso e torrido sulla pelle, che fa sudare il bella faccia immobile davanti al bananeto proibito.

… Molto stanco, molto, ma nulla di più. Quante volte, a mezzogiorno, come ora, ha attraversato tornando a casa quel terreno dissodato, che era solo una radura incolta quando arrivò, e prima ancora era montagna vergine! Anche allora tornava molto affaticato, a passi lenti, con il suo machete penzolante nella mano sinistra.

Può ancora allontanarsi con la mente, se vuole; può abbandonare per un istante il corpo e vedere, dal fossato che ha scavato, il paesaggio banale di sempre: il pietrisco vulcanico con la rigida gramigna; il bananeto e la sua sabbia rossa; il recinto rimpicciolito in pendenza, che svolta verso il sentiero. E più lontano ancora vedere il terreno dissodato, tutta opera delle sue mani. E ai piedi di un palo scortecciato, steso sul lato destro, con le gambe raccolte, proprio come tutti i giorni, può vedere se stesso, come un piccolo fagotto sull’erba sotto il sole che riposa perché è molto stanco…-

Ma anche il cavallo, striato di sudore e prudentemente immobile all’angolo del recinto, vede l’uomo a terra e non si azzarda a costeggiare il bananeto, come desidererebbe. Di fronte alle voci che sono già vicine -Piapià!-, tende per un lungo, lungo momento, le orecchie immobili verso il fagotto: e, infine rassicurato, si decide a passare tra il palo e l’uomo a terra. Che ha già riposato.

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