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Juan José Arreola se ne va volando

Bestiario [1], di Juan José Arreola, è in libreria. Pubblichiamo oggi un omaggio all’autore a cura di Hugo Hiriart, membro del famoso circolo dove l’insegnamento di Arreola diede forma a non poche vocazioni letterarie. Il pezzo è stato pubblicato su Letras Libres [2], che ringraziamo.

di Hugo Hiriart
traduzione di Valentina Pisella

Innanzitutto una distinzione inoffensiva tra talento e genio. Se dimostri un teorema basandoti su ipotesi plausibili, hai del talento. Il talento è apprezzabile, acuto, coraggioso, metodico (che si coltivi o meno), e suscita sempre piacere. Se dimostri un teorema associando concetti distanti e apparentemente isolati, attraverso percorsi insoliti, saltando i passaggi, hai del genio.

Perché il genio non si caratterizza per essere migliore del talento, ma solo perché è apparentemente inspiegabile. Dire «genio» equivale a dire «percorso inspiegabile». Niente di più e niente di meno. Per questo il genio è brusco, inafferrabile, disordinato, si ha o non si ha (non si può coltivare), e genera stupore. Il talento è solido, affidabile; il genio è fragile, inaspettato, imprevedibile.

In questo senso, in quanto cosa repentina, ingovernabile e misteriosa, diciamo che Juan José Arreola aveva del genio verbale. Non semplice talento, qualcosa di diverso; non semplice abilità, ma capacità enigmatica, dote miracolosa. Perché della dimestichezza e dell’estrema familiarità di Arreola con le parole (apparsa sin dall’infanzia, quando era Juanito il Declamatore) ciò che più impressionava non era tanto il modo in cui le selezionava, ma più precisamente, e a volte soprattutto, il modo in cui le articolava, ovvero, la presentazione fisica, istrionica e modulata che faceva delle diverse voci scelte.

Voglio dire che Arreola, come Borges, «el gran gordo» Lezama Lima, o Alfonso Reyes, facevano della conversazione più triviale una festa dello spirito e un monumento alla letteratura, ma Arreola superava ampiamente gli altri tre nella drammatizzazione delle parole, nel lato teatrale che c’è in ogni discorso, nella degustazione delle parole.

Parte del mistero di Arreola consiste nel fatto che quando leggeva ad alta voce risultava incredibile come quando parlava. Il testo più inconsistente, scarso e prevedibile si nobilitava attraverso la voce di Arreola. Era un virtuoso dell’arte della armonia fonetica. Tutti i consigli di Stanislavsky, per esempio, su come attirare l’attenzione (abbassando o aumentando il tono) sulle parole chiave, e passare invece con leggerezza su quanto non è significativo, il maestro li conosceva alla perfezione.

Assaporare parole: Arreola era un sommelier di voci. Ci ha insegnato a discernere testi assaporando parole. Da qui l’amore per Schowb, che rese popolare in Messico, o per Papini, che né Borges né Arreola insieme riuscirono a rendere popolare. Sembrava che quando si metteva a leggere si sedesse a tavola – gourmet erudito e sapiente, gastronomo verbale – a degustare.

A volte guardavo Arreola e mi fermavo a pensare. Pensavo al suo mistero. Tutte le persone sono misteriose, ma Arreola, per le sue doti prodigiose, mi sembrava più enigmatico. E un giorno gli dissi che non mi era difficile immaginarlo chincagliere, avvocato difensore, stregone, demagogo, mago da baraccone, Pierrot nella commedia dell’arte, eloquente venditore di stoffe e merletti, carpentiere, sarto… ma che non sarebbe stato opportuno, per esempio, lanciarlo nella carriera politica o elevarlo a presidente del Messico. Rise della possibilità. Non riesco nemmeno a immaginarlo direttore di una banca, né di qualcos’altro, sinceramente: nemmeno presidente o ufficiale maggiore di qualche distretto, né leader sindacale, né carceriere.

Mi piaceva immaginarlo di qua e di là. Conoscere una persona significa conoscere i suoi limiti, la rete delle sue possibili e impossibili metamorfosi. E continuavo: predicatore nel Messico coloniale, famoso oratore ai cui sermoni assistono il viceré e le più alte cariche, certo. Arbitro di calcio in pantaloncini e fischietto, sì, ma non giudice che condanna qualcuno alla prigione, e nemmeno soldato.

E allora, cosa abbiamo qui? Che ritratto si sta formando? Si osservi bene che Arreola, come Kafka, ha eluso ogni forma di potere. Il che fa parte del suo segreto: convincere, persuadere. Sì, Arreola è innanzitutto eloquenza, eloquenza sfrenata: la piena, il diluvio dell’eloquenza. Ma non il tipo da dare ordini ed essere obbedito, non questo. L’eloquenza di Arreola finisce dove inizia l’esercizio spaventoso del comando.

Non so da dove provenga questa sua attitudine, né quali possano esserne le cause immediate o remote; ciò che so è che questa attitudine, che suppone profonda saggezza, genera allo stesso tempo una rete di difficoltà e di problemi. Perché dispensa libertà a chi la assume, ma una libertà chapliniana, cioè indifesa e continuamente oppressa, perseguitata dalle forze dell’ordine, dalla logica, dallo spirito della serietà. Il voto perpetuo di non comandare è difficile da rispettare, ma apre un cammino inaspettato verso la libertà. Non incatena né schiavizza più dell’esercizio del potere.

Libero dalla compulsione di scalare posizioni, Arreola non vacillò nel fare lo stravagante. Per lui non c’erano restrizioni. Se c’era qualcosa in Arreola che attirava l’attenzione era l’estrema varietà dei suoi interessi, l’enorme eterogeneità della sua esperienza e della sua erudizione sempre strana e imprevedibile.

Tuttavia nei suoi paesaggi domina il popolo, il popolo e le sue professioni. Con che precisione e intima conoscenza discorreva delle professioni – del carpentiere o dell’umile cantoniere, o dell’allevatore di maiali o dell’apicultore. Mi è facile immaginare Arreola come artigiano di pelletteria nella sua bottega, inclinato sul cuoio.

Ebbene sì, anch’io ho letto tutto ciò che Arreola ha scritto. E conosco a memoria frasi, a volte interi testi, di suo pugno: «Se lo osserviamo bene, il rospo è tutto cuore», per esempio. In una vecchia opera teatrale che ho abbozzato imitando i pittori – mettendo insieme pezzi di diversi autori – ( Collage drammatico, l’ho chiamato ingenuamente), ho usato il suo «Monologo dell’astioso», lungo e pieno di malizia umana e letteraria, e suonava meravigliosamente sulla scena.

E, come tutti, ho letto anche tutti i libri tradotti da Arreola (tranne Il mistero dell’isola di Pasqua, che non sono mai riuscito a trovare e che FCE non ha ripubblicato). La sua prosa nelle traduzioni è tersa ed espressiva proprio come nei suoi originali. Forma prodigiosa di scegliere e adattare le parole.

Chiaro, come tutti ho anche letto i libri che contengono i suoi discorsi, e ho avuto il privilegio di sentirlo parlare mille volte. Negli anni in cui l’ho frequentato non ho mai smesso di imparare: ogni volta che l’ho ascoltato, puntualmente, ho ricevuto una lezione diversa, fresca e stimolante sulla plasticità e la capacità espressiva della lingua.

Credo che il mio comportamento sia normale, comune: tutti gli scrittori del mio tempo leggono quello che ha scritto il maestro, e tutti cerchiamo con avidità le sue parole e ci sediamo al banco ad ascoltarlo per imparare, di nuovo, a leggere e a scrivere.

In questa sede ho però evitato di parlare in dettaglio dei suoi libri, perché in questo caso, per quanto affascinanti siano gli scritti, è molto più incredibile la persona che li ha composti, quell’uomo fatto di parole, colui attraverso il quale tutto il tesoro antico e tutta la fertilità della lingua, accumulata per millenni, scese sulla terra e visse tra noi: il maestro Juan José Arreola.

Una delle ultime volte che vidi Arreola gli dissi: «Mi sarebbe piaciuto, non so bene perché, che oggi avessi fatto qualcosa di meraviglioso, entrando, Juan José. Per esempio, che fossi entrato volando sulle nostre teste e ci avessi salutato togliendoti, come se niente fosse, il cappello». Il maestro sorrise e disse: «Sì, certo: Alberto Rojas Giménez viene volando», e continuò a recitare versi della poesia di Neruda. Ebbene,

su commissioni e farmacie,
e ruote, e avvocati, e vascelli,
e denti infiammati appena estratti,
Juan José Arreola se ne va volando.

Non è così?