Letterature condannate

redazione SUR

Enrique Serna è una vecchia conoscenza del blog, dove abbiamo già pubblicato il suo racconto «Uomo con minotauro sul petto» (qui la prima parte e qui la seconda) e «Il vuoto di potere culturale», un intervento sulla critica letteraria e il ruolo dei blog. Oggi pubblichiamo una nota in cui difende le specificità delle letterature nazionali contro la tendenza alla globalizzazione e al cosmopolitismo elitario.

di Enrique Serna
traduzione di Carmen Mangiola

Alludendo in modo sarcastico ai teologi poliglotti della sua epoca, che conoscevano alla perfezione il greco, il latino e l’ebraico, ma sembravano incapaci di sviluppare idee proprie, nella Respuesta a Sor Filotea, Sor Juana afferma che: «a un grande ignorante la propria lingua madre non basta». Una frase che ben si addice agli arbitri del gusto che vogliono condannare a morte le letterature nazionali in nome di un cosmopolitismo elitario. Anche ai saccenti del mondo globalizzato un paese solo non basta: mentre si affannano a ribadire una presunta superiorità intellettuale, che non hanno però dimostrato con le loro opere, lottano impavidi per instaurare una precettistica letteraria nella quale i visti del passaporto contino più di premi e diplomi. Acquisire una cultura cosmopolita è divenuta sostanzialmente una questione di status, così come trascorrere lunghi periodi all’estero, vedere la propria nazione con gli occhi di un europeo, pronunciare correttamente il francese sono tutti privilegi culturali delle classi abbienti. Allora, bandire dal Parnaso la marmaglia che si limita a scrivere della propria terra d’origine significa creare una riserva di potere culturale a prova di buzzurri.

L’imminente fine delle letterature nazionali, destinate ad amalgamarsi, con maggiore o minore successo, con la letteratura universale, ha animato il dibattito di convegni e tavole rotonde degli ultimi trent’anni. In Messico, il più ostinato giustiziere delle letterature nazionali è Christopher Domínguez che condanna il vincolo auspicato dall’“obsoleta concezione romantica”, tra creazione letteraria e i molteplici volti di una cultura nazionale (tratti distintivi, storia, peculiarità linguistica, ecc.). Secondo Domínguez, allo scrittore latinoamericano del dopo boom spetta il compito di «rimuovere l’identificazione romantica tra cultura e nazione, la stessa che lo aveva trasformato in una specie di ambasciatore ontologico del suo paese, designato a spiegare i misteri esoterici del Messico, del Perú o della Colombia al pubblico europeo. È arrivato il momento di accettare che la situazione è cambiata e che la fine della propria unicità, insieme ai privilegi derivati dal realismo magico, reale o meno che fosse, è il prezzo da pagare per aver guadagnato un posto nella letteratura mondiale».

Prima di dubitare della pertinenza di questo prematuro certificato di morte, emesso con il tono categorico di un’autorità suprema, devo chiarire che mi sembra biasimevole e riduttivo considerare il nazionalismo letterario una chiusura nella propria cultura. Credo che in Messico, gli ultimi nazionalisti di questo tipo siano, forse, i romanzieri della Revolución, che accusarono i loro contemporanei di dare vita a una letteratura apolide, distante dalle origini. Da allora, perfino i narratori più radicati nella cultura autoctona, come Rulfo, Yáñez, Revueltas, Ibargüengoitia, Garibay, Monsiváis o José Agustín, sono stati lettori cosmopoliti con una vasta conoscenza delle letterature straniere contemporanee, cittadini del mondo che hanno cercato di nutrirsi della migliore letteratura universale per esprimere al meglio l’anima del loro paese. Si può scrivere una letteratura profondamente radicata nella propria cultura senza essere, necessariamente, xenofobi o sostenitori dell’isolamento culturale. Chiarisco quanto appena detto, poiché, sebbene il nazionalismo letterario sia morto in Messico all’inizio del Novecento, le letterature nazionali continuano a vivere e a gironzolare per tutto il continente, non perché questi autori vogliano limitarsi a un pubblico locale, o abbiano la presunzione di essere ambasciatori del loro paese all’estero, ma perché hanno preferito scrivere di ciò che conoscono meglio e descrivere la propria condizione senza complessi di inferiorità, malgrado, in alcuni casi, il loro fiducioso e audace appello alla curiosità intellettuale del lettore straniero, generalmente restio a immergersi in culture marginali o periferiche, gli impedisca di varcare i confini nazionali.

Gli scrittori del mondo occidentale possono incappare in localismi e regionalismi, sicuri che il lettore straniero sia interessato ad addentrarsi nel contesto culturale delle sue opere. Philip Roth scrive con la certezza che le peculiarità regionali, musicali, linguistiche e politiche degli Stati Uniti, e più precisamente, della vita nordamericana nelle province della costa orientale, interessino ai suoi lettori stranieri tanto come a lui stesso. Nonostante la diffusione internazionale degli scrittori del boom, la maggior parte degli autori latinoamericani non godono di questo privilegio. Il lettore comune europeo o statunitense ha conoscenze lacunose, se non addirittura nulle, della geografia, la storia e la cultura popolare del Perú, dell’Argentina, del Cile o del Messico. La cosa peggiore è che neppure tra di noi latinoamericani siamo disposti a fare lo sforzo di dare un’occhiata in casa del vicino. Ora come ora, un romanzo storico venezuelano, cileno, argentino o messicano, sebbene di qualità eccezionale, arriverà solo al pubblico di lettori del paese di origine, perché il marketing editoriale, basato sfortunatamente su abitudini di lettura reali, ha stabilito che i temi che tratta non interessano a nessun altro lettore di lingua spagnola. Di modo che molti autori di grande valore rimangono circoscritti a una letteratura nazionale, persino quelli che più si sono impegnati a eliminare dalle proprie opere ogni regionalismo.

Forse, alcuni scrittori dell’America Latina saranno in grado di “abbandonare l’obsoleta identificazione romantica tra cultura e nazione” senza rimanere sospesi nel limbo, dato che una mente grandiosa può inventare paesi, geografie e perfino pianeti sconosciuti. Ma, se la scelta di tagliare il cordone ombelicale è dettata dalla ricerca di notorietà e non da una necessità espressiva, allora risulta forzata, pretenziosa e, di conseguenza, più provinciale dell’abbondanza di regionalismi. Alcuni giovani scrittori messicani sembrano credere che eliminare le note di colore locale, o situare le loro storie nei fiordi norvegesi, serva a conferire alle stesse un valore universale, o almeno, un carattere di prestigio cosmopolita. Altri, più avidi di fama che di prestigio, si sono servilmente piegati ai calcoli del marketing editoriale spagnolo (a loro volta, una brutta copia delle formule di successo dei bestseller nordamericani). Chi aspira a entrare nella letteratura globalizzata dalla porta di servizio, lottando contro il nefasto marchio di nascita nella colonia Narvarte, dovrebbe prendere in considerazione il fatto che nessuno scrittore occidentale di spicco accetterebbe una così vergognosa abiura.

La “fine dell’eccezionalità”, che Domínguez celebra, appoggiando l’uniformità culturale a discapito della diversità, è ancora lontana dall’avere raggiunto i paesi sudamericani e le loro letterature, così come non intaccherà mai quelle delle potenze culturali. I più grandi romanzieri inglesi, francesi, tedeschi o svedesi credono, a ragion veduta o meno, che i loro paesi e culture siano eccezionali. Tutta l’opera di Günter Grass, per esempio, tenta di definire la particolarità tedesca, sul piano storico e filosofico. Effettivamente, una delle sfide più stimolanti per uno scrittore di qualunque nazionalità è quella di scoprire i tratti eccezionali del suo popolo, allo stesso modo in cui la creazione di un personaggio indimenticabile consiste nell’esaltare ciò che distingue l’individuo dal tipo. Ora, il realismo magico non è l’esempio più felice per illustrare la ricerca di eccezionalità latinoamericana, in quanto i suoi esponenti più importanti hanno ottenuto piuttosto l’effetto contrario, mostrando le similitudini e le affinità che intercorrono tra l’universo magico dei paesi sudamericani e l’immaginario fantastico di tutti i popoli pre-moderni. L’edificazione di questo ponte è stata un’impresa poetica enorme, ma il realismo magico non spiega le realtà nazionali, semmai riprende la visione allucinata del mondo dell’Europa medioevale, quella delle province meridionali degli Stati Uniti al tempo dello schiavismo, dei racconti de Le mille e una notte e, ovviamente, delle piccole comunità rurali del Terzo mondo. Per questo motivo ha avuto una ripercussione internazionale così rilevante: qualsiasi lettore, in qualunque parte del mondo, vi riscontra qualcosa di familiare e intimo, poiché tutti abbiamo nostalgia dell’infanzia dell’uomo.

Allo stato attuale delle cose, per qualunque scrittore latinoamericano bramoso di internazionalizzazione è più facile compiere un’incursione nell’esotismo di esportazione che scomodarsi a spiegare l’evoluzione storica o i conflitti sociali del suo paese davanti al disinteressato pubblico nelle nazioni più umili e povere. Mi sono potuto rendere conto in prima persona della scarsa popolarità internazionale di cui godono le nazioni sudamericane in occasione di un recente viaggio in India, dove il responsabile culturale per il Messico, Conrado Tostado, mi ha invitato a parlare in una conferenza all’università di Nuova Delhi e Calcutta. Ritenendo, ingenuamente, che gli ispanisti indiani, come quelli statunitensi o europei, conoscessero la tradizione letteraria del mio paese, preparai una discussione informale sull’umorismo nella letteratura messicana, da Sor Juana Inés de la Cruz fino a Ibargüengoitia. Avevo scritto il mio discorso in un inglese rudimentale, ma a Nuova Delhi il capo del Dipartimento di Ispanistica mi chiese di parlare in spagnolo. A giudicare dai volti imperturbabili che avevo di fronte, credo che non capirono una sola parola di quanto stessi dicendo. Alla fine, arrivò il momento delle domande e i commenti.

«Il suo intervento è stato davvero interessante» disse il capo del dipartimento, «ma potrebbe dirci qualcosa su Márquez?»

«Márquez chi? » chiesi perplesso.

«Intende García Márquez» mi spiegò Conrado Tostado.

Nessuno in questa università pareva sapere che García Márquez è colombiano. Chiarii subito che, purtroppo, Gabo non era un mio compatriota. Sul momento, l’ignoranza di un simile dettaglio mi indignò, ma in seguito capii che la separazione politica e le differenze culturali tra due paesi così vicini sono impercettibili per i lettori di una nazione gigantesca con un miliardo di abitanti, nella quale si parlano più di quindici lingue. La diversità linguistica e culturale dell’India è molto più complessa di quella ispanoamericana. Il Messico e la Colombia sono paesi diversi per la gente che vive nel continente sudamericano, ma contemplati dall’India, lo sono davvero? Con che diritto possiamo pretendere dai lettori indiani di studiare la storia di ognuna delle inoperose e piccole repubbliche sudamericane? Forse, gli scrittori dell’America Latina pretendono troppo dal lettore straniero quando gli chiedono di interessarsi alle vicissitudini politiche e alla diversità culturale di questi paesi così giovani. Ma il genio letterario di alcuni narratori importanti, come Mario Vargas Llosa o Jorge Amado, è riuscito a far sì che i lettori di tutto il mondo si ritrovino all’interno di queste coordinate scomode. Il suo esempio dimostra che non è impossibile suscitare nel lettore straniero l’interesse per l’eccezionalità di un paese remoto e sconosciuto: tutto dipende dall’abilità dello scrittore a rendere universale la vita del suo paese.

Probabilmente, una delle missioni storiche della narrativa di lingua spagnola è quella di descrivere l’origine illegittima delle nazioni sudamericane, sorte nella maggioranza dei casi per arricchire una cricca di militari corrotti. Bolívar non poté consolidare il suo progetto di unificazione perché rimase impigliato in una rete di interessi e meschinità. Dietro alla nascita di una patria, di solito, c’è sempre un caudillo opportunista e cinico, o vari bricconi della stessa risma, come sapevano molto bene i contemporanei messicani di Iturbide e Santa Anna. Tuttavia, una volta che il sentimento di appartenenza a una comunità attecchisce nella coscienza collettiva, nessuno scrittore che aspiri a rispecchiare il mondo in cui vive può ignorarlo. Quando l’intellettuale anarchico Antonio Díaz Soto y Gama calpestò il tricolore durante la convenzione di Aguascalientes, chiamandolo “straccio immondo”, i generali rivoluzionari si affrettarono a estrarre le pistole, poiché un simile atto li condannava all’inesistenza. Nella Marcia di Radetzky, uno degli affreschi storici più famosi del Novecento, Joseph Roth trasformò la fine dell’impero austroungarico in una tragicommedia intimista, in quanto, pur guardando con ironia ai simboli dell’impero ormai caduto, era consapevole che per molti uomini quei simboli avevano ancora un valore sentimentale e ontologico enorme. Essere cileno sotto la dittatura di Pinochet, venezuelano all’epoca della demagogia bolivariana o messicano durante l’impero del narcoterrore sono esperienze che plasmano in modo diverso il comportamento sociale e perfino la vita privata di un individuo.

Rompere il legame tra letteratura e cultura nazionale significherebbe privare milioni di persone del migliore specchio letterario nel quale poter contemplare ciò che sono e ciò che aspirano a diventare. Se sparisse l’“obsoleta concezione romantica” che unisce gli scrittori alle loro tradizioni, milioni di persone nel mondo smetterebbero di essere fonte d’ispirazione per i romanzi. A causa delle condizioni del mercato editoriale, oggi essere fedeli a questa “concezione obsoleta” equivale a condannarsi a scrivere per un pubblico molto esiguo. Tuttavia, una letteratura spogliata di qualunque connotazione storico-sociale, che cancelli dalla faccia della terra tutti gli esseri volgarmente nazionali per celebrare l’esotismo amabile di un’élite, non avrebbe bisogno dei servizi di un giustiziere arbitrario, perché sarebbe morta ancora prima di nascere.

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