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La bellezza delle spine

Álvaro Bisama Reportage, Ritratti, Società, SUR Lascia un commento

Il 23 gennaio scorso ci lasciava lo scrittore cileno Pedro Lemebel. Pubblichiamo oggi un ricordo di Álvaro Bisama uscito originariamente su Letras libres, ringraziando l’autore e la testata.

«La bellezza delle spine»
di Álvaro Bisama
traduzione di Chiara Muzzi

Quando ho sentito per l’ultima volta Pedro Lemebel leggere in pubblico, non aveva più voce. Era novembre, in una sala piena, alla Feria del Libro di Santiago. Lemebel (1952-2015) parlava attraverso i brandelli di quella che era stata un tempo la sua gola, amplificato ed equalizzato dai fonici che lo accompagnavano da anni, da quando un cancro lo aveva colpito all’improvviso. Nonostante tutto, come ai vecchi tempi, come nei suoi libri, era ancora feroce e commovente. L’autore di Loco afán era stato una star della performance e la sua capacità di scuotere il pubblico era ancora la stessa, come se non fosse mai sparita, come se il male che se l’è portato via non fosse esistito, o fosse stato uno scherzo, un leggero raffreddore.

Ma non lo era. Lemebel è morto a fine gennaio e il vuoto che ha lasciato è così grande che è impossibile misurarlo. Vent’anni fa, quando pubblicò il suo primo libro di cronache (La esquina es mi corazón), fece esplodere le gerarchie e le istituzioni della letteratura locale. Ci riuscì non solo perché aveva mescolato ambiti tanto diversi come la performance o il giornalismo, ma anche perché proponeva, dai margini della società, una scrittura che riuniva in sé un lirismo forgiato nelle strade con le istantanee della democrazia vigilata cilena degli anni Novanta e i suoi sogni di trionfo globale. Lemebel faceva già parte dell’immaginario culturale cileno, grazie al collettivo “Yeguas del Apocalipsis”, che fondò con Francisco Casas e che scosse la scena cilena delle arti visive alla fine degli anni Ottanta con le sue performance e i suoi interventi pubblici.

In quegli anni Lemebel non aveva niente a che fare con il romanzo o la fiction, ma agiva da una zona insospettata: la cronaca come spazio coraggioso e personale, come zona di guerriglia e libertà, qualcosa di impensabile per le speranze di successo mondiale della cosiddetta Nuova Narrativa Cilena.

Al contrario, in La esquina es mi corazón – e nei libri successivi Loco afán e De perlas y cicatrices – Lemebel ricordò le storie che gli avevano raccontato per sentito dire, annotò nomi di omosessuali uccisi dall’aids, parlò dell’incendio della discoteca Divine e dei suoi morti senza nome, della casa di Mariana Callejas, del centro di Santiago, dei quartieri e degli stadi, scrisse di terreni incolti e di discariche, di circo povero, di locali notturni alla deriva durante la dittatura e dei fantasmi che minacciavano non solo la fragile democrazia degli accordi del Cile di fine secolo, ma anche l’immaginario urbano del potere che la letteratura cilena aveva costruito. Infatti, quando Carlos Franz pubblicò La muralla enterrada, nel 2001, dove descriveva la tensione tra la città di Santiago e le finzioni che la dominavano, molto di quello che diceva sembrava antiquato o superato perché l’autore di Tengo miedo torero (il suo unico romanzo, pubblicato in quello stesso anno) aveva già cambiato irrevocabilmente il panorama della Santiago letteraria di allora.

Ma la radicale singolarità della sua opera era stata decisa prima ancora che fosse scritta. Nel 1986, in piena dittatura di Pinochet e durante un atto pubblico di sinistra, aveva letto, a mo’ di manifesto: «Non sono Pasolini che chiede spiegazioni / Non sono Ginsberg espulso da Cuba / Non sono un finocchio mascherato da poeta / Non ho bisogno di una maschera / Qui c’è la mia faccia». Dieci anni dopo Roberto Bolaño ne afferrò il senso. Capì che Lemebel era un poeta, ma che era anche il futuro: prima che Carlos Monsiváis lo elogiasse, prima che la cronaca invadesse il campo letterario latinoamericano come una via di fuga per i fantasmi del post-boom, Lemebel c’era già e i suoi testi erano i più radicali di tutti, perché presupponevano un patto di sangue tra la vita e la scrittura, suggerendo che non dovrebbero esserci barriere, come ben dimostrava Adiós mariquita linda (2004).

Questo spiega il modo in cui esplose, il motivo per cui, dai margini, divenne il centro del canone. A quel punto leggerlo non era più un ordine ma un segno dei tempi: mentre da una parte i suoi libri circolavano in edizioni illegali, le facoltà di letteratura li avevano già trasformati in oggetto di tesi, carne per giornali di ogni tipo. Ma quella diffusione di massa, invece di indebolirli, li rendeva più efficaci e urgenti, perché ci avevano insegnato a entrare nel nuovo secolo, a leggere in chiave i cambiamenti politici della transizione, a farci domande sui limiti della letteratura, come disse una volta: «Non rimane altro […] che balbettare i segni e le cicatrici comuni. Forse la scarpetta di cristallo perduta sta fermentando in mezzo a questo campo in rovina, tra le stelle e i martelli seppelliti nella terra degli indios. Speriamo che il rinnovamento politico possa sfiorare questi terreni abbandonati».

Per chi, come noi, ha iniziato a leggere Lemebel negli anni Novanta, la sua opera è sembrata essenziale. Bene o male i suoi libri hanno già più di vent’anni. Hanno percorso gli ultimi momenti della dittatura attraversando temerari la transizione democratica, per illuminare più volte quella successione di strani presenti di cui è fatta la storia del Cile e dell’America Latina. Perché Lemebel era il guastafeste della democrazia vigilata, il guardiano della memoria, il poeta popolare che scriveva portando allo stremo le sue stesse capacità. Lemebel è stato l’unica stella del rock della letteratura cilena, l’avanguardista errante e violento che sapeva che la memoria è un fatto personale perché il linguaggio è vivo grazie alle ossa dei morti, grazie alla musica che solo i fantasmi possono ballare, una cosa che lui era capace di custodire come se si trattasse di pietre preziose, perché la sua è una letteratura della strada, degli angoli bui, della notte. Il carattere incorruttibile della sua letteratura fa risaltare il paradosso di un’arte che rifiuta qualsiasi comodità perché la sua bellezza è feroce e crudele ed è reale ed è fatta di spine, e in questo lui era coraggioso ma anche generoso. Penso che non smetteremo mai di ringraziarlo.

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