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Alcuni volti di Nicanor Parra

redazione Poesia, Ritratti, SUR

Oggi, 5 settembre 2014, il poeta cileno Nicanor Parra compie cento anni. Per festeggiare l’anniversario, pubblichiamo un suo profilo a cura dello scrittore Alejandro Zambra, che ringraziamo. Il pezzo è uscito sulla rivista Dossier.

«Alcuni volti di Nicanor Parra»
di Alejandro Zambra
traduzione di Gianluca Di Cara

I

Alcuni mesi fa stavo per iniziare una mia lezione su alcuni aspetti della letteratura di Nicanor Parra quando il poeta stesso, come uno studente ritardatario, bussò alla porta. Fu un gesto molto bello. Parlando al telefono, gli avevo raccontato che avremmo iniziato a leggere Hojas de Parra e lui, in piena autonomia, si informò del giorno e dell’ora in cui avrei tenuto la mia lezione e fece in modo di venire a Santiago a farmi una sorpresa.

È piuttosto raro che un autore entri come se nulla fosse nel luogo in cui più di quaranta persone stanno commentando le sue poesie, soprattutto se ha 95 anni ed è, come si suol dire, una leggenda vivente del mondo della poesia. Sulle prime, quella mattina i miei studenti reagirono con timidezza; pian piano, però, presero coraggio e iniziarono a fargli alcune domande, cui Nicanor rispose con dovizia di dettagli.

Più tardi, uno di loro mi disse che si era spaventato vedendo comparire Parra: credeva che fosse morto. «È morto, e lo sono anch’io», gli risposi, ma lui non capì e dovetti spiegargli che stavo scherzando. Questo dialogo mi tornò in mente alcune settimane fa, quando venni a sapere che, durante un discorso per celebrare la Giornata del Libro, il presidente del Cile, Sebastián Piñera, era caduto nello stesso errore, includendo Parra tra gli autori cileni che “ci hanno lasciato”. Non so che cosa avrà mai pensato Parra di questo lapsus. È probabile che abbia riso di gusto.

Conobbi Nicanor Parra alla fine del 2003 e, poco tempo dopo, iniziammo a occuparci dell’editing di Lear, rey & mendigo, la sua brillante traduzione del King Lear. Andavo a fargli visita ogni settimana nella sua casa di Las Cruces, dove lavoravamo a lungo su un manoscritto pieno di correzioni. La mia missione consisteva nel far sì che raggiungesse una versione definitiva, ripulendo così rapidamente il testo; Nicanor però, continuava a lavorare sulle sfumature e, alla fine di ogni giornata, si diceva quasi sempre insoddisfatto: a questo libro manca ancora molto, affermava, quasi con l’idea che non sarebbe mai stato pubblicato. La traduzione era pronta, ovviamente, ma a lui piaceva continuare incessantemente a correggerla, a ripulirla.

Conversare con Nicanor Parra è un’autentica avventura. All’inizio è tutto uno studio, una specie di riconoscimento, di scambio di onori, reso intenso da alcuni aforismi che in realtà sono i suoi poemi più recenti, i suoi pensieri della settimana. Durante il pranzo, il poeta parla di ciò di cui la gente parla mentre mangia: di quant’è buono il vino, dell’insuperabile rollè di Las Cruces, dell’interessante colore dei pomodori. È il dopopranzo, però, a regalare sorprese: il copione, infatti, vira verso lidi inaspettati e anche se lui non vuole insegnare nulla, si finisce con l’imparare molto.

Non l’ho mai intervistato, ma ho assistito a due tentativi che all’inizio furono piuttosto difficili. Com’è noto, infatti, per Parra le interviste sono troppo simili a degli interrogatori, e lui preferisce rispettare i tempi naturali di una conversazione. Ricordo in particolare il lungo tira e molla con il giornalista Matías Del Río. Nicanor aveva acconsentito a parlare con lui a condizione che non gli facesse domande e che non ci fossero registratori attorno. Del Río violò le regole dopo appena due minuti e Nicanor si alterò parecchio: «Lei è un pontefice, e i pontefici devono starsene a Roma», gli disse. Eravamo nel garage e Nicanor se ne andò lasciandoci lì, senza dare spiegazioni. Del Río non sapeva se restare o andarsene, ma la storia ebbe comunque un lieto fine: il poeta tornò, chiese scusa, lo invitò a pranzo e, mentre mangiavamo, rispose profusamente alle domande del giornalista. A un certo punto, Nicanor mi guardò e mi fece l’occhiolino: sapeva perfettamente che il suo interlocutore stava nascondendo un registratore.

«I poeti non hanno una biografia», dice un testo di Parra. Sicuramente sarebbe d’accordo con questa variazione che Octavio Paz propone in un suo saggio su Fernando Pessoa: «I poeti non hanno una biografia. La loro opera è la loro biografia».

Anche se la stampa e il mondo accademico hanno sempre cercato di scavare nella vita del poeta, eccezion fatta per un canonico elenco di figli e di amori, di Nicanor Parra sappiamo ben poco.

Anche da questo punto di vista, Parra è agli antipodi rispetto a Neruda: non ha mai firmato né mai firmerebbe un libro di memorie sullo stile di Confesso che ho vissuto. Senza dubbio, però, nella sua opera la componente autobiografica è una costante e, di fatto, Discursos de sobremesa, il suo libro più recente, può essere letto come la complessa confessione di un autore che si è appropriato dei suoi personaggi o, al contrario, di un uomo che è stato travolto – che si è lasciato travolgere – dalle sue maschere.

Nicanor Parra potrebbe dire, con le parole di Pessoa, che si è moltiplicato per sentire, per sentire tutto.

La critica non sempre è riuscita a porre l’accento sul carattere drammatico della poesia di Nicanor Parra, presente fin dal Cancionero sin nombre (1937), ma espressa a pieno e con maggiore personalità solo con Poemas y antipoemas (1954). Qui la voce narrante è quella di due antagonisti che si contendono il microfono. Da una parte il poeta tradizionale, che risponde alle attese del lettore e ricostruisce, per esempio in «Se canta al mar», la sua iniziazione al mondo della poesia («… in quel giorno/ Nacque nella mia mente l’inquietudine e l’ansia/ Di mettere in versi ciò che onda dopo onda/ Dio creava davanti a me senza requie»); dall’altra, l’antipoeta che dubita dell’ispirazione, di Dio e dell’intera ideologia.

Appaiono ora molti personaggi, molte voci in cui potremmo riconoscere le possibili maschere dell’antipoeta: il professore, il venditore ambulante, il mendicante, il morto che parla dall’oltretomba, lo stesso Geova, una nana che si lamenta “della signora Totó”, il minatore che si vendica di sua moglie, o il ladrone che parla a Cristo per chiedergli, come a un amico:

Nominami ambasciatore di qualche posto
Nominami Capitano del Colo Colo
Nominami, se vuoi
Presidente del Corpo dei Pompieri
Fammi rettore del Liceo de Ancud
Nel peggiore dei casi
Nominami direttore del cimitero.

Tra tutti questi personaggi, mi ha colpito quel signore che dice:

Mi hanno appena eletto Papa
sono l’uomo più famoso del mondo.

Ma come dimenticare quello di nome Parra, che racconta del suo scontro con il governo cubano e inizia a occuparsi, sul serio e per gioco, della propria figura pubblica? Qualcosa di simile avviene anche nei testi in cui il nome dell’autore non è menzionato, ma in cui si allude alla sua candidatura al Premio Nobel:

Il Nobel della Lettura
dovrebbero darlo a me
che sono il lettore ideale
e leggo tutto ciò che trovo:
leggo i nomi delle strade
e le insegne luminose
e i muri dei bagni
e le nuove liste di prezzi
e la cronaca nera
e i pronostici del Derby
e le targhe delle auto.

La più importante delle maschere rappresentate da Parra, naturalmente, è il Cristo di Elqui, Domingo Zárate Vega, l’uomo che si definirà analfabeta, fondamentalista, libero pensatore e «più cileno del mote con huesillos», pur affermando, in fondo, in uno dei sui numerosi attacchi di serietà: «Io so che cosa sono: ciò che non sono».

Parra non ha mai firmato né mai firmerebbe un libro di memorie sullo stile di Confesso che ho vissuto. Senza dubbio, però, nella sua opera la componente autobiografica è una costante e, di fatto, Discursos de sobremesa, il suo libro più recente, può essere letto come la complessa confessione di un autore che si è appropriato dei suoi personaggi o, al contrario, di un uomo che è stato travolto – che si è lasciato travolgere – dalle sue maschere.

Nella voce di questo predicatore, Parra trova il personaggio perfetto per rappresentare uno spirito contraddittorio e liberatore che ha abbastanza del fool shakespeariano e moltissimo dell’antipoeta. Il Cristo di Elqui –copia di una copia, versione «infinitamente degradata dell’originale», per dirla con le parole di Gilles Deleuze– non è che un derelitto presuntuoso, trasformato in “personaggio” dai mass media, ma tutto sommato indomabile e imprevedibile. Nei suoi sermoni è capace di denunciare violazioni dei diritti umani e di occuparsi, al contempo, di temi ben più intimi:

I mariti dovrebbero seguire un corso per corrispondenza
se non osano farlo di persona
sugli organi genitali della donna
c’è una grande ignoranza in proposito
chi mi saprebbe dire per esempio
che differenza c’è tra vulva e vagina
eppure credono di avere ogni diritto di sposarsi
come se fossero esperti in materia
risultato: problemi coniugali
adulterio calunnie separazioni
e poi chi ci rimette sono i figli

[Nicanor Parra, Le montagne russe. Poesie scelte, traduzione e cura di Stefano Bernardinelli, Milano, Medusa 2008, p. 97]

La comparsa del Cristo di Elqui rivitalizza un’opera letteraria che sembrava aver raggiunto il proprio apice con Artefactos. La voce non è più quella dell’antipoeta: l’antipoesia di Parra, infatti, si è tramutata in poesia vera e propria; letteratura accettata, legittimata da premi e antologie. Il rimando a un personaggio come Domingo Zárate Vega rappresenta un punto di fuga che rende possibile la costruzione di un discorso in apparenza anacronistico, eppure molto attuale, sovversivo e, allo stesso tempo, conservatore.

Il Cristo di Elqui è testimone di un’epoca ormai perduta (il Cile precedente ai più recenti conflitti), ma anche del presente. È attivo in distinti momenti storici e, proprio per questo, è in grado di fare i salti temporali più irresponsabili. Un tema importante del poema è, naturalmente, la relazione tra autore e personaggio: Parra, infatti, gioca con i confini, inserendo materiale autobiografico e rendendo al contempo il personaggio sempre più distante in termini di tempo e di modi di pensare.

E chi è poi a parlare, nei Discursos de sobremesa? È sempre Parra, senza alcun dubbio, ma un Parra sempre più simile ai personaggi che ha creato. L’autore ringrazia per i premi e per gli onori, ma si tiene sempre lontano dalla solennità e dalla gravità:

Non mi spiego Signor Rettore
Le ragioni che hanno portato il Giurato
Ad assegnare a me
Che sono l’ultimo della lista
Un premio importante come questo

C’è almeno una dozzina di candidati
Che a ragione si sentono trascurati

Irregolarità come queste
Non devono ripetersi
Io, per quanto mi riguarda, mi scontrerò
Con chi ne risulterà responsabile.

Voglio dirlo con franchezza: conoscere Nicanor Parra è stato un enorme privilegio. Condividendo con lui alcuni pranzi o il minuzioso lavoro di editing di un libro, ho potuto capire fino a che punto si è messo in gioco nella sua opera. Lungi dall’aggrapparsi a qualsiasi certezza o ai primi riconoscimenti ottenuti dalla sua poetica, Parra ha continuato a riformulare e a mettere in discussione le sue stesse convinzioni.

E sì, è vero: la sua opera è la sua biografia. Scoprire Parra prescindendo dal suo lavoro letterario sarebbe ingiusto. Sarebbe sottrarre complessità e valore al lavoro di tutta una vita.

Alejandro Zambra è autore dei romanzi Bonsai (2006) e La vida privada de los árboles (2007) e professore di letterature presso l’Universidad Diego Portales.

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