CORTAZAR SIN BARBA (5)

Frammenti cortazariani

Francesco Varanini Autori, Julio Cortázar, Ritratti, SUR Lascia un commento

Abbiamo già pubblicato sul blog vari stralci del poderoso saggio di Francesco Varanini, Viaggio letterario in America Latina. Oggi presentiamo alcuni frammenti del capitolo dedicato a Julio Cortázar. Scritto come Rayuela (Il gioco del mondo), è formato da 56 brani che si possono leggere dal primo in avanti oppure seguendo il riferimento numerico in calce a ciascuno.

di Francesco Varanini

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Potremmo anche parlare di Julio in termini di «economia pulsionale».
C’è la rigidità caratteriale: il dover dire tutto di Balzac, l’odio dantesco, il rigore giansenista di Manzoni, la maniacale introspezione proustiana, l’incapacità di lasciarsi andare di Dostoevskij, la coazione a ripetere di Borges.
E c’è la morbidezza, la fluidità, la leggerezza, l’abbandono, l’elogio dello scarto e del dettaglio, il gusto del gioco e della parodia, dall’Ariosto a Cervantes, da Carroll a Queneau.
Nei pressi di questo secondo polo si attesta Cortázar. Il suo è un messaggio di grande, disperata speranza (l’ossimoro non è casuale, e speriamo che non appaia al lettore fuori luogo). Perché solo viviendo absurdamente podríamos romper alguna vez este absurdo infinito, «solo vivendo assurdamente potremo forse arrivare a rompere questo assurdo infinito».

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In un tempo dominato dalla cultura dell’immagine è impossibile forse, anche leggendo, prescindere dalla figura – carnale, extratestuale – dell’autore.
Esplicitiamo: capelli lunghi, lisci e nerissimi; barba. Occhi di una bellezza estranea: verdi, chiari, dal taglio indio, o da gatto. Alta statura; gesti lenti; profonda voce baritonale, erre arrotata in un ruggito sommesso; mani grandi ed espressive. Una prima impressione di imponenza contraddetta da una generale fragilità e riscattata da quella singolare miscela tutta argentina nello sguardo: ironia e malinconia, fierezza e candore.

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Durante la guerra la famiglia Cortázar – il padre di Julio svolgeva attività diplomatica – vive in Belgio prima e in Spagna poi. Julio nasce a Bruxelles il 26 agosto 1914. Nel 1920, due anni dopo il ritorno in Argentina, il padre abbandona la famiglia. Julio non lo vedrà più.
Trascorre l’infanzia a Banfield, sobborgo a sud di Buenos Aires, ai confini della zona portuale, con la madre (di origine franco-tedesca) e la sorella, di un anno più giovane. Frequenta le scuole magistrali e la facoltà di lettere. Fino al 1950 vive tra Buenos Aires e Mendoza. È maestro elementare in scuole rurali per cinque anni. Insegna letteratura francese all’Università di Cuyo. Nel 1951 una borsa di studio di breve durata gli permette di recarsi in Francia. Contrario al regime peronista, si stabilisce a Parigi, dove lavora come traduttore per l’Unesco. Nel 1962 è a Cuba; il viaggio risulta fondamentale dal punto di vista della presa di coscienza politica. Collabora con la Casa de las Américas (l’istituzione culturale ufficiale della Cuba castrista) sia come membro della giuria del premio, sia come membro del comitato di redazione della rivista. Nel 1970, quando Allende assume il potere, è in Cile. Visita il Nicaragua agli inizi del governo sandinista. È membro del Tribunale Russel. Muore a Parigi nel febbraio del 1984.

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L’impegno politico è cosa dell’età matura. Frutto di un viaggio a Cuba, e forse in qualche misura anche dell’impossibilità – per un intellettuale latinoamericano degli anni Sessanta – di non essere castrista.
Alla Cuba rivoluzionaria Julio resterà sempre fedele (e per questa via si avvicinerà poi anche al Nicaragua sandinista). Eppure, le sue opere meno riuscite sono probabilmente Reunión (racconto dedicato all’epopea dei barbudos cubani, in Todos los fuegos el fuego, 1966) e Libro de Manuel (romanzo del 1973, teso a far apparire in buona luce i movimenti di liberazione in quegli anni attivi in tutto il continente). Altrettanto poco convincenti (piene di distinguo e di sofferenza; arrovellate) le pagine saggistiche scritte per riflettere, per raccontare, per chiarire ed emendare le proprie scelte, per usare la propria fama a sostegno di buone cause.
Non è un caso: la totale libertà espressiva – che è il pregio migliore di Cortázar – cozza con le affermazioni ideologiche, anche le più legittime. Come fare una scelta di militanza, pur non sopportando i partiti e i burocrati della cultura? Come non guardare in faccia a nessuno, essere totalmente libero; e al contempo scegliere una parte, e spendersi per giustificare debolezze ed errori di questa parte?
A testimonianza dell’onestà di Julio restano comunque le critiche di segno diverso che riuscirà a collezionare. Sarà accusato da un lato di essere un venduto al soldo della Cia. Ma anche dall’altro di essere schiavo dei miti della sinistra, incapace di criticare il regime di Castro.

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Cortázar non scrive organizzando, scrive abbandonandosi a un «ordine più segreto e meno comunicabile», restando al di sopra o al di sotto della coscienza ragionante, «come se non fossi altro che un medium attraverso il quale passa e si manifesta una forza estranea».
Come uno sciamano. O come Felisberto Hernández.

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Julio cortesissimo, inappuntabile, ma sempre lontano, misterioso, sconcerta amici e conoscenti: nessuno può penetrare in questa sfera abitata dal solo Julio, alle prese con la propria angoscia.
La scrittura è autoterapia, risposta a un bisogno profondo, inconscio. Come il fumo, sfogo pulsionale lievemente masochistico; come il sesso, ricerca dell’oggetto d’amore. Trasgressioni attingibili senza cadere vittima dell’ansia di autodistruzione, del richiamo del nulla.
Julio che si è liberato del suo fantasma di suicidio, forse, facendo suicidare Oliveira. E naturalmente rimescolando le carte, lasciando aperta la possibilità che Oliveira non si sia suicidato, e affermando nelle interviste che Oliveira non si è suicidato.
(Tra i maestri: Céline. Mondo notturno, sordido, ma Céline si perde nel suo viaggio agli inferi, non può tornare. Cortázar sfiora quel mondo; a tratti annaspa, ma non affoga. Si salva con la parola scritta per gioco, come ricordo dell’infanzia).

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Maestri: Arlt. Autodidatta, animale notturno, giornalista seguitissimo, Roberto Arlt prova a confrontarsi con la dimensione del romanzo.
La sua Buenos Aires richiama atmosfere dostoevskijane, ma come viste attraverso le cattive traduzioni dal russo allora diffuse: parole astruse, la scena sempre un po’ sfocata, il controllo della trama sempre un po’ zoppicante. Rabbia, abissi dell’animo, humour nero: basta citare i titoli dei romanzi: Il giocattolo rabbioso, I sette pazzi, I lanciafiamme.
Per Cortázar Arlt è oggetto di culto proprio per questo suo geniale uso creativo dell’approssimazione, per l’apparente trascuratezza, per questa sua capacità di trasformare in ricchezza l’assenza di scuola. Diceva di sé Roberto: «per fare stile ci vogliono comodità, soldi, vita agiata».

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