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Voglio scrivere ma mi esce solo schiuma

Pedro Mairal Scrittura, SUR

Pedro Mairal è autore di racconti, romanzi e poesie. Pubblichiamo oggi un articolo dove lo scrittore argentino parla della sua ossessiva attenzione ai dettagli, della rete, dei blog e dell’importanza di continuare a esplorare.
Il pezzo, tratto da Maniobras de evasión,  è stato pubblicato originariamente sul blog di Eterna Cadencia, che ringraziamo per la concessione. 

di Pedro Mairal
traduzione di Giulia Zavagna

Oggi mi hanno mandato un questionario di una rivista culturale di quelli che chiedono cose tipo: «Quali sono secondo lei gli autori argentini più significativi degli ultimi dieci anni? Cosa pensa della relazione tra letteratura e mercato? Qual è la sua opinione sulla letteratura argentina contemporanea?» Mi è piombata addosso una stanchezza profonda. Credo di aver risposto a domande come queste almeno cinque volte, per altri giornali e forse anche per quella stessa rivista. Potrei fare un copia e incolla con le risposte che ho da qualche parte e che si trovano su internet. Non so che cosa vogliano dimostrare inchieste di questo tipo. Non so perché accetto di rispondere. Sto iniziando a pensare che la letteratura non esiste più, almeno per me, e ne sono contento. Da ormai quasi due anni scrivo rubriche e articoli per riviste e quotidiani argentini, colombiani e messicani. Questo nuovo mestiere mi porta in posti strani, che a volte mi interessano, come il viaggio su un camion trasportatore che mi è toccato fare un paio di mesi fa per scrivere un articolo per una rivista argentina.

Scrivere quei testi mi toglie ogni voglia di scrivere altro. Non ho voglia di scrivere un romanzo. Sogno romanzi, ma non mi siedo mai a scriverli. E nemmeno racconti, salvo quando mi chiedono qualcosa da pubblicare in un’antologia e ho già un’idea in testa. A volte scrivo un racconto su commissione e poi non lo mando, perché non mi piace come è venuto. Scatto fotografie, scrivo sceneggiature e sto prendendo lezioni di percussioni; imparo lentamente, vedo un certo progresso, è qualcosa che faccio sempre meglio anche se sono chiaramente un principiante. Notare questi passi avanti mi entusiasma, sapere che ci sono cose che il corpo può imparare come ha imparato a nuotare o ad andare in bicicletta, abilità che non si dimenticano. Ogni tanto suono una canzone alla chitarra: tempo fa per esempio «No me arrepiento de este amor» di Gilda, poi «Jamaica Farewell», una canzone che cantava mia madre e che ho ritrovato in un disco di Caetano Veloso. Poco tempo fa ho imparato un vecchio tango e anche una canzone messicana che dice «se ti vengono a dire che mi hanno visto in giro ubriaco, digli con orgoglio che lo ero per te». Le canto da solo, faccio pratica, immagino di cantarle di fronte ai miei amici. In generale non mi piacciono le serate passate a strimpellare insieme. A volte dal pozzo di aria e luce al centro del palazzo salgono delle zambas cantate in coro da ragazzi di provincia che vengono a studiare nella capitale. Si potrebbe dire che quello è l’esatto rumore dei campi.

Ma che cos’è questo scetticismo profondo nei confronti della letteratura, della mia letteratura diciamo migliore? Perché voglio scrivere ma mi esce solo schiuma? Perché non scrivo nemmeno più poesie? Sono ormai diversi anni che ho consegnato la mia scrittura al ronzio della banda larga. Testi corti, risposta immediata, amici, amiche, chiacchiere. I blog mi sono serviti per atomizzarmi, nascondermi sotto pseudonimi diversi, scrivere come gente che non sono io, come persone che mi porto dentro, voci o forse forze verbali. Mi è piaciuto molto tutto questo, la libertà di fuggire da me stesso. Poi gli pseudonimi sono stati scoperti e rovinati, a volte perché qualcuno rivelava che ero io, a volte perché era evidente. E poi, per amor proprio mi sono obbligato a confessare di essere l’autore di alcuni testi. Sono cinque anni che scrivo su internet, lavorando non so se per me, o per Google o per Blogger.com. E questo ha cambiato il mio paradigma della comunicazione della scrittura, l’idea del lettore, l’idea di me stesso come autore. Ora faccio fatica a pensare ai libri di carta, a miei testi in formato libro, stampati. Non ho problemi con le cose già scritte appositamente per quel formato, ma sto facendo fatica a pensare a nuovi libri, sto cercando di capire se c’è un libro in tutto quello che ho scritto negli ultimi cinque anni, un libro dal titolo Il romanzo che non sto scrivendo, ma non lo so ancora, non so cos’è che mantiene unita su carta tutta quella massa di testi. So che nei blog il tutto era unito dalla rete delle reti, dal blog stesso, dalla banda larga, che in qualche modo vincola, associa, giustifica i testi. Ma sulla carta tutto si fa più confuso. Ai libri che sono stati creati scrivendo su un blog, quando li apro in libreria, mi sembra che manchi un interruttore per accenderli, sono come blog spenti.

È strano: in piena crisi della fede letteraria, mi chiedono in che cosa credo. La verità è che ho molta fiducia in alcuni autori della mia generazione. Nei libri che scriveranno o che hanno scritto. Fabián Casas sta scrivendo, Damián Ríos ripubblicherà il suo romanzo Habrá que poner la luz, Gabriela Bejerman ha pubblicato Linaje, Cucurto ha un nuovo libro di poesie che uscirà con Vox, spero che Félix Bruzzone scriva un altro romanzo e che Samantha Schweblin ne scriva finalmente uno, e che Santiago Llach pubblichi la sua prosa, e che Luciano Lamberti faccia uscire altri racconti. Credo molto nei libri che non ho ancora letto.

Quanto a me, in cosa credo? Credo che sia necessario continuare a esplorare. Credo nell’inesplorato e nel silenzio e anche nell’accumulazione temporale. E credo anche nei dettagli. Ieri sera, per esempio, pensavo all’evoluzione dei contenitori per cubetti di ghiaccio. Quando ero bambino, negli anni Settanta, erano fatti di alluminio, una specie di vassoietto su cui si poneva una griglia di metallo che divideva l’acqua in cubetti. Però li divideva male, restavano attaccati sotto e ai lati; per svuotarli bisognava sbatterli con molta forza sul tavolo di marmo e volavano pezzi amorfi di ghiaccio da tutte le parti. Poi, negli anni Ottanta, sono arrivati quelli di plastica per cubetti a forma di piramide tronca, i classici cubetti che conosciamo. Però erano di una plastica rigida che si rompeva quando uno cercava di torcerli un po’ per far uscire i cubetti e restavano rotti a metà a gruppi di quattro che di nuovo bisognava sbattere sul tavolo. Alla fine degli anni Ottanta ne sono apparsi alcuni di gomma a forma di tronchetto; facevano ghiaccio cilindrico con un buchino in mezzo, ma l’asse o l’appendice di gomma che provocava quel buco aderiva al ghiaccio come un cane a una cagna durante l’accoppiamento, non c’era modo di tirarlo fuori; sbattere il contenitore non serviva a niente, bisognava fare forza levando i cubetti di ghiaccio in modo crudele. Negli anni Novanta, con i frigoriferi d’importazione apparvero quelli a forma di contenitori per uova, che facevano mezze sfere di ghiaccio, molto poco soddisfacenti, perché erano piccoline anche se facili da estrarre. E ora ci sono degli aggeggi di silicone molto ben fatti con ogni forma possibile, a forma di tetris, di lettere, di esagoni, di stelle, un’evoluzione del design industriale, il concetto di «funny», la vita notturna, ecc. Tempo fa, in un raptus romantico, ne regalai a una ragazza uno fucsia con i cubetti a forma di cuore. Proprio quel giorno litigammo e la settimana dopo mi mandò una foto dei cubetti che diceva: «ora capisco, hai il cuore di ghiaccio, figlio di puttana».

 

© Pedro Mairal, 2009. Tutti i diritti riservati

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