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Roberto Arlt: la macchina letteraria

redazione Roberto Arlt, SUR

Presentiamo oggi un testo dello scrittore e critico argentino Mario Goloboff, che ringraziamo, che figura come Introduzione all’edizione critica da lui curata di I sette pazzi e I lanciafiamme, di Roberto Arlt (Parigi-Madrid, ALLCA XX, Coleccion Archivos 2000).

Il presente lavoro mira ad analizzare il rapporto intercorso tra Roberto Arlt e la letteratura e al contempo sfatare l’immagine di “intruso” o “semianalfabeta”, creata da alcuni critici e cui avevano contribuito alcune affermazioni dello scrittore stesso. Al contrario, si vuole dimostrare che, se l’obiettivo, almeno in parte raggiunto, di Arlt era quello di far saltare l’edificio letterario della sua epoca, le armi sulle quali fece affidamento furono i libri, gli arsenali letterali che ebbe la possibilità di frequentare.

di Mario Goloboff
traduzione di Carmen Mangiola

Sono innumerevoli le frasi e gli aneddoti attribuiti a Roberto Arlt e che fanno riferimento alla sua personalità spontanea, anticonformista, iconoclasta, e più direttamente alla sua produzione letteraria, alla sua formazione di autodidatta, al non rispetto di regole, insegnamenti, del passato e del presente culturale e letterario.

Queste versioni distorte, che ancora oggi godono di una certa risonanza e diffusione, hanno parzialmente trovato riscontro in alcuni elementi biografici di Arlt, e in parte sono state alimentate dallo scrittore stesso. Tuttavia, una simile serie di aneddoti amplificati a tal punto da trasformare il relativo in assoluto, non hanno fatto altro che falsificare la vera visione dell’autore e l’interpretazione di un lavoro che fu, come una volta lo definii, “di corrosione dei segni”, per il carattere ribelle, quasi rivoluzionario, della sua letteratura a confronto con il suo tempo e le regole che lo governavano.

Simili distorsioni hanno portato a pensare a un Arlt naif, un vero ingenuo del sistema letterario, un vitalista della letteratura, di fronte al carattere eminentemente intellettuale di tale attività, che così tanto contraddistingueva alcuni suoi colleghi dell’epoca. In poche parole, lo scrittore appariva come un puro, un intuitivo, un “grezzo”, una specie di “buon selvaggio” nel mondo “esperto” delle elucubrazioni letterarie.

In realtà, queste deformazioni derivano dal considerarlo quasi come collocato fuori dalla letteratura, nella “vita pura”, e come se ci fosse entrato poco meno che esoticamente, o contromano, o suo malgrado, quando di certo l’unico modo in cui Arlt visse la sua breve esistenza fu scrivendo.

Nonostante una certa unanimità nella critica e nella coscienza popolare sul carattere piuttosto rustico della formazione arltiana, sono portato a pensare che i famosi “cross alla mandibola” di Arlt provengano proprio dallo stesso universo letterario; che le rivolte, le ribellioni, gli enormi successi, si ottengano demolendo dall’interno il meccanismo o, per dirlo con un’immagine più appropriata, e che credo non mi appartenga, “distruggendo il muro con le stesse pietre di cui è fatto”.

Arlt è, prima di tutto, una “macchina letteraria”. Sorge dalla letteratura, per sua stessa decisione, e va verso di essa, collocandosi e stanziandosi in essa, con una volontà, una tenacia, una determinazione e una forza che pochi dei suoi contemporanei hanno eguagliato, e che gli permettono di ottenere, tutto sommato in breve tempo, il risultato assoluto dei suoi obiettivi più fantasiosi: perpetuarsi, rimanere, essere sempre più letto e celebrato. (Conservando la distanza tra autore e protagonista, Silvio Astier  ne Il giocattolo rabbioso afferma: «“Non mi importa se non ho vestiti, soldi, niente” e quasi con vergogna confessai: “ciò che desidero è essere ammirato dagli altri, elogiato dagli altri […]. Ah, se potessi scoprire qualcosa per non morire mai; vivere pur avendo cinquecento anni!”».)

A partire dalle sue precoci e numerose esperienze letterarie, Arlt sta proponendo alla letteratura del suo paese e del suo tempo, e al contempo alla sua capacità creativa, una specie di sfida. La sua conoscenza di buona parte della letteratura straniera, la sua consapevolezza che qualcosa di diverso sta accadendo in questo campo, la sua irritazione di fronte al bigottismo locale, lo aiutano senza dubbio a scatenare le forze che scaturiscono dalla sua interiorità, e a eleggersi come scrittore, e come uno scrittore differente, a decidere che la letteratura, la parola scritta, sarà la sua arma di combattimento.

Così, in una società travolta da profondi sconvolgimenti sociali nascosti da una comoda formalità, e di fronte a una letteratura che non la metteva in discussione fino in fondo, e che, salvo alcune sporadiche eccezioni, non si metteva a sua volta in discussione, la comparsa della narrativa artliana può essere interpretata oggi come la manifestazione di un doppio attacco: a quella legalità, e a quel settore del mondo culturale argentino la cui simile superficialità lo faceva risultare inadatto a smascherare i mali interni della sua società. In questo senso, devono essere lette diatribe come quella che proferirà alcuni anni dopo la pubblicazione de Il giocattolo rabbioso, in una delle Acqueforti portegne, dove l’idea troverà una formulazione più che esplicita: «Io, in tutta sincerità, dichiaro che ignoro a che cosa servano i libri. Ignoro a che cosa serva l’opera di un certo signor Ricardo Rojas, di un certo Leopoldo Lugones, del signor Capdevila, per limitarmi a questo paese».

E, in effetti, dall’origine letteraria dei delitti e delle invenzioni di Silvio Aster, che sono l’unica fonte a cui si abbeverano tutte le fantasticherie del primo protagonista del romanzo artliano, sembra prendere forma una doppia e ferma prospettiva del suo lavoro. Di pari passo al consolidamento dell’aspetto inventivo, narrativo (e con esso, l’elemento debordante, passionale della vocazione: scrivere come pulsione irrefrenabile; scrivere perché altrimenti si muore), sorge, non con minore fermezza, un progetto di quella che si fa sentire come “una carriera letteraria”. Non nel significato illegittimo del termine, ma piuttosto nell’aspetto produttivista dell’Arlt che scrive come un lavoro, e anche come se stesse compiendo un mandato, una missione. È l’Arlt che tiene i conti e ci presenta il “conto” delle pagine che ha scritto e di quelle che scrive giornalmente, le righe, le parole. E come, in che modo, in quali condizioni (pessime, il più delle volte), deve riempirle sempre.

È l’Arlt sempre pressato, che corre, ansioso, perché deve scrivere di più, perché già sta scrivendo un’altra cosa, e deve dirci, comunicarci ciò che fa.

In alcuni dei suoi commenti ai romanzi, in alcune delle sue Acqueforti, lo vediamo sotto questo aspetto davvero sorprendente. «L’avvenire è trionfalmente nostro (scrive, per esempio, nella “Palabras del autor”, con cui si aprono I lanciafiamme), lo abbiamo conquistato sudando inchiostro e stringendo i denti, di fronte alla Underwood, che colpivamo con mani stanche, ora dopo ora, dopo ora. A volte a qualcuno la testa ciondolava per la fatica, ma… mentre scrivo queste righe, penso al mio prossimo romanzo». E nella “Nota” scritta per concludere informa: «Vista la fretta con la quale è stato finito questo romanzo, poiché sono state scritte quattromila righe dalla fine di settembre e il ventidue di ottobre (e l’opera è composta da 10.300 righe…)».

Esiste anche una “Acquaforte” interamente dedicata a contabilizzare ciò che ha fatto in un anno nella sua rubrica giornalistica, e che per questo ha il suggestivo titolo Con questa sono 365!, dove tra l’altro dice:

Un anno. 365 articoli, o 156 metri di rubrica, che equivalgono a 255.500 parole. Significa che se questi 156 metri fossero di cachemire, avrei vestiti per tutta la vita, e se queste 255.500 parole fossero 255.500 mattoni, potrei farmi costruire un palazzo così ampio e sontuoso come quello dell’Alvear…

È vero che questi conti e questa pignoleria emergono perché Arlt conosce bene il mercato, e perché è cosciente del carattere anche commerciale di ciò che produce, così come di certe leggi che reggono tutto l’universo. È per questo che, coprendo buona parte della sua ideologia letteraria, il prezzo, il pagamento, il lavoro, il costo e il guadagno, e tutte le relazioni economiche, solcano indelebilmente la sua opera. In proposito, afferma giustamente il noto critico italiano Antonio Melis:

Nessuno testimonia meglio di Roberto Arlt l’irruzione di questa tematica economica. Nel suo allucinato mondo narrativo, l’azione del denaro corrode tutti i valori. Nei suoi racconti e nei suoi romanzi troviamo una concentrazione di termini relativi alla sfera economica senza paragoni. (“Spunti di ricerca sull’America Latina”. In Quaderni Storici, Nº 34. Ancona, gennaio-aprile 1977)

Non credo, quindi, esagerato attribuire ad Arlt, al contrario di una mitologia dell’emarginazione molto diffusa, l’assunzione cosciente di una carriera letteraria. E questo nei due sensi dell’espressione. In primo luogo, per quanto concerne l’orizzonte perseguito, gli obiettivi fissati, il confronto costante che stabilisce con i suoi contemporanei più famosi, e perfino la puntualità con la quale ha affrontato la pratica e l’impiego alternativo dei generi: saggio, romanzo, racconto, teatro… In secondo luogo, l’aspetto di lotta contro l’orologio che ha sempre, o che mette sempre in risalto, nella sua attività: la celerità con la quale scrive e pubblica, l’ansia con la quale annuncia nuovi libri e nuovi titoli, la vera disperazione con la quale percepisce che il tempo e la vita passano.

Tutta la sua carriera sembra quasi una corsa, che è tale in quanto si produce nel tempo e si oppone ad esso (come vuole dimostrare la celebre parabola di Achille e la tartaruga); se, in definitiva, non c’è altra dimensione, neppure quella spaziale, all’infuori di quella temporale (basti pensare alla malinconica Recherche di Proust), questo “andare di gran carriera contro il tempo” tipico di Arlt, il riferimento ossessivo alla quantità e alla cronologia, sottolineano il carattere di impresa, di intraprendenza, di accumulazione che è contenuto nell’opera arltiana. Un’accumulazione che si presenta come una riassicurazione, e soprattutto, come una speranza di compimento, di conclusione di un’opera.

Forse, è proprio per questo che la sua letteratura assume un carattere così onnivoro.

Essere scrittori per Arlt significa dire tutto, non nascondere nulla, perdere “il rispetto della letteratura” nei temi e nel linguaggio, ossia farvi entrare non solo gli aneddoti e i personaggi che una certa letteratura argentina fino ad allora negava, i pensieri più insoliti e più strampalati, ma anche, forzandola, le forme non accademiche: le frasi isolate, le proposizioni principali sfigurate dall’abuso e dal disordine dei loro complementi, l’impiego eccessivo dei gerundi per evitare il ricorso a proposizioni indipendenti, l’eliminazione in essi o nei participi passati delle forme composte, l’omissione o l’uso errato degli articoli, il dimenticare i pronomi relativi, e tutto ciò per il desiderio di essere diretti, di essere brevi e rapidi, di accorciare il messaggio, di “abbandonare i giri di parole”.

Dall’altro lato, il linguaggio delle sue opere conterrà oscenità, forestierismi e gergo bonaerense, al pari che, in modo innovativo, introdurrà un tipo di metafora tecnologica per descrivere paesaggi o stati d’animo, e tutto questo in modo sovrano e cosciente, poiché condannerà, sin dal suo primo romanzo, una parola che è solamente attenta a garantirne la vendita.

«Per vendere bisogna inzupparsi di una sottigliezza “mercuriale”, scegliere le parole e fare attenzione ai concetti», sostiene uno dei personaggi de Il giocattolo rabbioso, mentre la letteratura, il romanzo sarà eletto come invenzione, sebbene il costume e la necessità impongano un’altra condotta: «Vuole essere inventore [dirà in modo beffardo Monti a Silvio Aster] e non sa vendere un chilo di carta».

Questa oralità smisurata, che probabilmente non è altro che una voracità invertita, questa incetta personale di segni, di tutti i segni e configurazioni possibili, creerà lessico e forme ugualmente disinibiti, totalizzatori.

Dall’altro canto, Arlt fu anche un lettore vorace. È vero che più di una volta ha civettato con l’immagine dell’improvvisazione della genialità e della sua mancanza di formazione accademica. Ma non è meno vero che, in modo contraddittorio, nella sua opera ci sono precise e documentate referenze a libri, o riferimenti espliciti come quello che segue: «Ho letto molti romanzi. Ho iniziato a farlo verso i dodici anni, ne ho ventotto. Così, sono sedici anni che leggo in media cinquanta libri l’anno, per un totale di seicento romanzi» (“El cementerio del estómago”, Acquaforte del 19 gennaio 1929).

Ciò è molto evidente nei suoi testi. Senza andare troppo lontano, il suo primo romanzo inizia con ogni tipo di riferimento bibliografico, la prima frase del libro racconta come fu iniziato alle «delizie e fatiche della letteratura di banditi» grazie a un calzolaio andaluso, il primo furto del Club dei cavalieri della mezzanotte è commesso in una biblioteca (con un esame dei libri che sembra imitare quello del barbiere e del prete nel Don Chisciotte), il suo primo lavoro è in una libreria, su tutto il racconto delle avventure di Silvio aleggia l’onnipresente Rocambole, un personaggio del romanzo d’appendice.

Poco prima, nel primo lavoro tra il saggio e il romanzo che pubblica, Le scienze occulte nella città di Buenos Aires, sfoggia, esibisce fino all’esagerazione, una sconcertante informazione libresca, citando, con sufficiente pertinenza, autori molti diversi come Stuart Mill e Schopenhauer, Saint Simon e Max Nordau, Nietzsche e De Quincey, Baudelaire, Verlaine, Wilde, Novalis, Valle Inclán, il nordamericano Whitman e l’argentino Leopoldo Lugones.

Senza tenere conto dei romanzi, una puntigliosa analisi delle sue Acqueforti ha conteggiato le citazioni di 28 scrittori francesi, 4 russi, 20 spagnoli, 10 inglesi, 5 italiani, 7 statunitensi, 13 ispanoamericani non argentini, 45 argentini, più alcuni portoghesi, tedeschi e asiatici. (Cfr. Daniel C. Scroggins. Las Aguafuertes porteñas de Roberto Arlt. Buenos Aires, Ediciones Culturales Argentinas, 1981.)

In una delle rare e ampie interviste che gli furono fatte, esprime la sua conoscenza e i suoi gusti, in base a criteri molto precisi, sulla letteratura del paese:

Potremmo suddividere gli scrittori argentini in tre categorie: spagnoleggianti, francesizzati e russofili. Tra i primi incontriamo Banchs, Capdevila, Bernárdez, Borges; tra i francesizzati Lugones, Obligado, Güiraldes, Córdoba Iturburu, Nalé Roxlo, Lazcano Tegui, Mallea, Mariani, nelle sue tendenze attuali; e tra i russofili, Castelnuovo, Eichelbaum, il sottoscritto, Barletta, Eandi, Enrique González Tuñón e, in generale, quasi tutti gli individui del gruppo chiamato di Boedo.

Poi, esplicita alcune preferenze:

Mi piacciono alcune poesie di Lugones, Obligado, Córdoba, Rega, Molina, Olivari… […]. Credo che Rojas possa unicamente interessare ai topi di biblioteca e agli studenti di filosofia e lettere; Lynch e Quiroga mi piacciono molto. Quest’ultimo ha dei precedenti nella letteratura inglese e lo si potrebbe accostare a Kipling e a Jack London per via dei suoi temi […]. Gálvez? Non so da che parte va! Mi da la sensazione di essere uno scrittore che non sa che cosa scrivere. Iniziò volendo essere un Tolstoj e credo che finirà come un volgare marchese della Capránica, scrivendo romanzoni storici. Sinceramente, credo che Gálvez non abbia più nulla da dire.

Quando gli chiedono se del presente resterà qualcosa, risponde:

«Güiraldes con Don Segundo Sombra; Larreta con La gloria di Don Ramiro; Castelnuovo con Tinieblas; io con Il giocattolo rabbioso; Mallea con Cuentos para una inglesa desesperada. Di questi libri qualcosa resterà. Il resto affonderà». (Cfr. La literatura argentina. Anno 1, Nº 12. Buenos Aires, agosto 1929, pp. 25 e ss.)

Un altro esempio azzeccato, non solo riguardo le sue conoscenze letterarie ma anche l’intuizione e il giudizio, è la lettera indirizzata a Leopoldo Marechal il 30 ottobre 1939 in seguito alla lettura di una sua poesia:

Caro Leopoldo, sono Roberto Arlt.

Ho letto su La Nación la tua poesia El Centauro. Ho provato una sensazione straordinaria, la stessa che ho avuto, in Europa, entrando per la prima volta in una cattedrale di pietra. Poeticamente, sei il più grande che abbiamo in lingua castigliana.

Dai tempi di Rubén Darío, non è stato scritto nulla di così sereno e accorato. Ho ritagliato la poesia e l’ho conservata in un cassetto del mio comodino. La leggerò ogni volta che il mio desiderio di produrre in prosa qualcosa di tanto bello come il tuo si affievolirà. Invidio la tua allegria ed emozione. Ti auguro ogni bene.

Arlt mostra, al tempo stesso, comprensione e molte volte familiarità con Quevedo e Cervantes, Anatole France e Flaubert, Dickens e Wilde, Dostoevskij e Gorki, Poe e London, oltre a molti altri.

Tuttavia, a prescindere da queste numerose citazioni, che, da un lato, attestano il desiderio di affermare la propria appartenenza o una non diversa gerarchia e, dall’altro, una disinvolta conoscenza e padronanza del lignaggio, ciò che forse è più importante è il romanzare le letture, le avventure, i protagonisti; mettere in moto narrazioni a partire da altre; creare legami intertestuali e interculturali in una scrittura che non solo li menziona e li eleva come modelli, ma che li riassume e li ingloba.

Chissà che non agisca, come risvolto di questo insieme colto, e permetta di capirlo meglio, quel singolare racconto che, nella prima edizione (alterata in ordine nelle edizioni postume), faceva da intestazione al libro El Jorobadito: mi riferisco a “Escritor fracasado”, notevole riflessione sull’ambiente letterario della sua epoca, resa dei conti con il centro, espressione del timore della sterilità e della fantasia su un libro negativo, specchio nero della letteratura, testo congelato.

Tutto ciò mostra un’immagine che differisce abbastanza da quella di uno estraneo alle lettere, di un semianalfabeta. Piuttosto il contrario: non fa altro che dimostrare che se ciò che Arlt si era proposto, riuscendo in gran parte nel suo intento, era far esplodere l’edificio letterario della sua epoca, le armi sulle quali contò erano i libri, gli arsenali letterari che seppe frequentare. In conclusione, in questa storia non diacronica, voluminosa, spaiata, in continuo movimento, chiusa e al tempo stesso aperta, sempre ricca, inestinguibile, che è la biblioteca.

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