Jim-Thompson

La letteratura americana dal 1900 a oggi. Jim Thompson

Simone Barillari BIGSUR, Ritratti

Oggi ricorre l’anniversario della morte dell’autore noir Jim Thompson, lo ricordiamo pubblicandone un profilo, tratto dal dizionario per autori La letteratura americana dal 1900 a oggi, curato da Luca Briasco e Mattia Carratello, edito da Einaudi. Ringraziamo l’autore, i curatori e la casa editrice.

di Simone Barillari

Scrittore noir e sceneggiatore, Jim Thompson nasce nel 1906 in Oklahoma, e in Oklahoma, in Texas e in Nebraska si svolge una gran parte della sua giovinezza e dei suoi romanzi. Ancora ragazzo, Thompson comincia a lavorare per sostentare i genitori: fa il fattorino d’albergo, il trivellatore nei pozzi petroliferi, il rappresentante di commercio, ma a causa del suo precoce alcolismo perde continuamente i pochi impieghi che trova, finendo addirittura per fare il vagabondo, l’hobo, che vive e viaggia di nascosto sui treni merci.

Inizia a scrivere tardi, a trentasei anni, e i romanzi non sono che ossessive trasfigurazioni dei suoi fallimenti e delle sue peregrinazioni. Thompson racconta ingloriose odissee, fughe condannate fin dall’inizio attraverso le paludose quieti del Midwest, viaggi miserabili al termine della notte e del nulla americano: «La parola fuga ha molti significati», si legge in Getaway (id., 1959). «Qualcosa di pulito e veloce, come un uccello che sfreccia nel cielo. O qualcosa di immondo e strisciante, una serie di movimenti come quelli del granchio attraverso una melma. Significa dormire nei campi e nel fondo di fiumi asciutti. Significa cibo rubato dai vagoni merci, indumenti rubati dal bucato steso al sole. Il complicato reso semplice dall’alchimia della necessità». Thompson insegna che la speranza è una disfunzione della volontà e l’unica anestesia alla disperazione è «una solida dose di odio», come dice qualcuno in Tornerò per farti fuori (Cropper’s Cabin, 1952). Non c’è forse uno solo dei suoi personaggi che non sia un uomo corrotto – o che non speri di diventarlo – e non ha nessun senso condannare i colpevoli, se non ci sono innocenti da salvare: «Non c’è modo di sapere cosa può fare un uomo se ne ha l’opportunità», dice uno sceriffo a un giovane Jim Thompson in Bad Boy (id., 1953), la sua grottesca autobiografia. Così allignano sempre, nei suoi libri, scalcinati criminali, poliziotti dalla psiche franata, gretti legulei di provincia, medici infiacchiti dalla routine e dal whiskey, e accanto a questi miserabili eroi delle badlands si trascinano spesso dark lady stanche e fatiscenti, donne fatali a sé stesse ancor prima che ai loro amanti.

Nel corso della sua vita le opere di Thompson non escono mai in tirature importanti né in edizione rilegata: è uno scrittore di dime novels capace di produrre, per sostentare sé stesso e la sua famiglia, dodici romanzi di pulp fiction in diciannove mesi, ma trova comunque il modo di creare, tra questi, definitivi classici del noir come L’assassino che è in me (The Killer Inside Me, 1952), una raggelante narrazione in prima persona di uno sceriffo psicopatico, il torbido flusso di coscienza di un omicida seriale. Dopo averlo letto ed essere rimasto impressionato dalla forza e dal ritmo dei dialoghi, Stanley Kubrick chiama Thompson a sceneggiare Rapina a mano armata, tornando in seguito ad avvalersi di lui per Orizzonti di gloria. Anche le collaborazioni con il cinema, tuttavia, si concluderanno presto. Fino alla seconda metà degli anni Sessanta Thompson riesce ancora a comporre alcuni dei suoi romanzi migliori come I truffatori (The Grifters, 1963) e Pop. 1280 (id., 1964, entrambi portati sullo schermo dopo la morte dell’autore), poi le sue forze creative si vanno spegnendo. Quando muore, nel 1977, nessuno dei suoi titoli è più in commercio, e bisogna aspettare i decenni successivi perché siano riscoperti e tradotti in tutto il mondo i libri del «Dostoevskij a dieci centesimi».

© Giulio Einaudi editore, 2011. Tutti i diritti riservati.

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