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Un continente letterario frainteso

redazione SUR, Traduzione

Del volume Tradurre un continente. La narrativa ispanoamericana nelle traduzioni italiane, a cura di Francesco Fava, e edito lo scorso anno da Sellerio, vi avevamo già dato una lettura nelle parole di Raul Schenardi (qui la prima parte, qui la seconda). Pubblichiamo oggi una riflessione di Jaime Riera Rehren sulle traduzioni dei classici latinoamericani, apparsa originariamente sulla rivista Tradurre, che ringraziamo.

«Un continente letterario frainteso»
di Jaime Riera Rehren

Che cosa leggiamo quando leggiamo una traduzione? Domanda implicita nei sempre più numerosi saggi e articoli che negli ultimi anni in Italia riflettono sull’atto di spostare da una lingua a un’altra un testo letterario, ma che tende a esplicitarsi nel caso dell’esame critico di una traduzione concreta, o come in questo libro, di alcuni testi appartenenti a un’area culturale diventati nel tempo dei classici contemporanei. Cosa hanno letto, dunque, i lettori italiani quando hanno letto i più importanti scrittori ispanoamericani della seconda metà del Novecento?

I diversi interventi del volume curato da Francesco Fava si occupano delle traduzioni italiane di autori come Gabriel García Márquez, Mario Vargas Llosa, Jorge Luis Borges, José María Arguedas, Juan Rulfo, Julio Cortázar, Lezama Lima, con metodologie e intenti differenti, in alcuni casi di tipo prevalentemente linguistico e in altri con attenzione soprattutto all’aspetto retorico-culturale-stilistico, ma ponendo al centro delle loro analisi alcuni aspetti problematici, inclusi difetti e carenze, del lavoro dei traduttori.

S’inizia niente meno che con la demolizione sistematica, ad opera di Lorenzo Blini, dell’unica versione italiana (Enrico Cicogna, Feltrinelli 1968) del capolavoro garciamarquiano Cent’anni di solitudine. Gli esempi e citazioni riportati a dimostrare l’insufficienza di questa traduzione, anche se in molti se ne erano accorti nel corso degli ultimi quarant’anni, risultano ampiamente convincenti: dai numerosi calchi linguistici ed errori d’interpretazione attribuibili a una non perfetta padronanza della lingua di partenza, alla tendenza a utilizzare un registro più alto di quello del testo spagnolo per espressioni non particolarmente ricercate. In effetti, ciò che rende a volte inspiegabile la difettosa resa di questa traduzione è il fatto che il romanzo di García Márquez non presenta grandi complessità stilistiche o linguistiche, trattandosi della prosa lineare di un autore che non è mai stato considerato un virtuoso della lingua e che inoltre non fa uso eccesivo di varianti lessicali dello spagnolo americano o di un sostrato culturale indigeno, fattori che tradizionalmente creano grosse difficoltà ai traduttori della letteratura di quest’area del mondo. Ecco alcuni esempi citati da Bini che rendono l’idea:

1.

Interventi sul registro «che alterano in modo notevole la natura basilare del lessico di Cent’anni di solitudine»: amortajada / insudariata; bucles / buccolotti; cacareo / crocidio; desbandada / sbrancata; despejar / illimpidire; limpiadora /sbrattatrice; mariscos / peoci; polvo /impolverimento; transparentada / indiafanata.

2.

Calchi: aduraznado / duracinato; animadversión / animavversione; corregidor / corregitore; hospitalarios / ospitaliere; parpadeante / palpebrante; rifarse / riffarsi; ajedrezado / scaccheggiato; perjudicador / pregiudicatore.

Per dirne un’altra, quando all’inizio del romanzo l’autore parla di espejos y espejismos, la traduzione recita «specchi e specchietti». Un vero miraggio.

In molti casi sembra che il traduttore, usando termini bizzarri o per lo meno inconsueti, voglia alzare il tasso di esotismo del testo, difetto comune in molte traduzioni del cosiddetto “realismo magico”. L’immagine che negli anni Sessanta e Settanta si voleva proiettare in Europa della realtà latinoamericana era appunto quella di un mondo “diverso”, esotico e caotico, e talora i traduttori, magari inconsapevolmente, assecondavano questa tendenza. Invece, come sottolinea Blini, Cien años de soledad è un romanzo meno magico e meno tropicale di quanto comunemente si creda. Una storia familiare raccontata da un cantastorie. E cita lo scrittore colombiano:

Un día, yendo para Acapulco con Mercedes y los niños, tuve la revelación: debía contar la historia como mi abuela me contaba las suyas, partiendo de aquella tarde en que el niño es llevado por su padre para conocer el hielo…

Malgrado la versione italiana sia quantomeno discutibile, il romanzo di García Márquez diventò rapidamente un bestseller, qui come nel resto del mondo, e tuttora continua a essere letto nella medesima traduzione. È davvero misteriosa la ragione per cui non si sia corso ai ripari con una nuova versione, o per lo meno con una radicale revisione della traduzione esistente.

Una diversa sorte è toccata a Borges e Cortázar, autori che in Italia hanno conosciuto infinite versioni e revisioni in epoche diverse, per cui i problemi rilevati negli anni Sessanta sono stati opportunamente risolti nel corso del tempo. Nella raccolta che commentiamo, i saggi dedicati ai due dei più importanti scrittori ispanoamericani, a firma di Francesco Fava e Gabrielle Bizzarri, riguardano alcune discrepanze nella traduzione di un termine in un racconto, nel caso di Borges, e una riflessione sulla «poetica della traduzione cortazariana». Da notare che non a caso le traduzioni di questi autori, entrambi argentini ma considerati dalla critica europea, e in molti casi anche latinoamericana, come scrittori appartenenti all’area culturale europea, non mostrano i problemi caratteristici delle versioni dei testi “latinoamericani” in un’epoca in cui ancora l’interpretazione di questa letteratura appariva fortemente condizionata da visioni identitarie o etniche e da una conoscenza molto limitata dello spagnolo americano, per non dire dei termini tratti dalle lingue originarie.

Anche nelle traduzioni dei romanzi del peruviano Mario Vargas Llosa sono sorte questioni che hanno portato a incomprensioni varie, come viene rilevato nel saggio di Norbert von Prellwitz, Tre romanzi di Vargas Llosa: indirizzi e disorientamenti traduttivi. In questo caso le critiche ai «disorientamenti» riguardano aspetti più formali, che però hanno conseguenza negative per la comprensibilità del testo, a causa per esempio dell’uso sovrabbondante e spropositato di parole spagnole (ma anche inglesi e francesi) in corsivo e altri riferimenti che richiederebbero la conoscenza da parte del lettore italiano di espressioni ispanoamericane di uso comune o di indicazioni topografiche a volte incomprensibili, oppure la traduzione confusa di alcune di tali espressioni. A modo di esempio viene riportata questa riga: «Calle César Nicolás Pensón esquina Galván». Come in molti altri casi nelle traduzioni dei romanzi di Vargas Llosa, sostiene a ragione l’autore del saggio, qui si poteva forse trovare una soluzione che permettesse al lettore italiano di capire cosa stava leggendo. Bastava tradurre esquina con «angolo».

Tre saggi del volume mettono in rilievo altrettanti casi di dis-incontri direi quasi tragici nelle traduzioni di autori latinoamericani: «Tradurre in italiano il romanzo andino. Il caso Arguedas», di Antonio Melis; «Hay demasiadas cosas intraducibles: Juan Rulfo tradotto e abbandonato», di Francesco Fava; «Un decennio di narrativa cubana nelle traduzioni italiane: gli anni Sessanta», di Stefano Tedeschi. Questi interventi non si occupano di figure di secondo piano, bensì di scrittori fra i più importanti della storia letteraria ispanoamericana del Novecento, che per un motivo o per l’altro non hanno ricevuto l’accoglienza che avrebbero meritato fra i lettori italiani. C’entrano forse le traduzioni?

Antonio Melis si mostra pessimista sulla situazione che si è venuta a creare in Italia riguardo al lavoro di traduzione: progressivo svuotamento del lavoro critico sulle traduzioni, mancanza di una pratica analitica consolidata, obiezioni interpretate dai traduttori come aggressioni personali, ecc. Ma il fosco scenario attuale dipinto da Melis ha precedenti nel passato che riguardano soprattutto la scarsa professionalità di molti traduttori e anche l’inesistente  o insufficiente lavoro di revisione editoriale. Il caso delle versioni italiane dei romanzi e racconti del peruviano José María Arguedas, il più importante scrittore dell’area andina, ampiamente tradotto in italiano a partire dagli anni Settanta, è paradigmatico. Alcune delle goffaggini, errori, malintesi, calchi, presenti nella traduzione dei romanzi più importanti di Arguedas, Los ríos profundos e Todas las sangres, il primo uscito in italiano nel 1971 e il secondo nel 1974, vengono qui citati da Melis con la premessa di non volere intraprendere una banale «caccia all’errore», ma con l’intenzione di avviare una riflessione più generale sullo stato delle traduzioni nel corso del tempo. Bisognerebbe però premettere che molti di questi errori oggi forse non si ripeterebbero: negli ultimi quindici-vent’anni la maggiore professionalità e la specializzazione dei traduttori, oltre che la valorizzazione del talento, hanno comportato un progressivo miglioramento. Sussiste il fatto, tuttavia, che un gran numero di capolavori del Novecento sono disponibili solo nelle discutibili versioni di trenta o quarant’anni fa.

Ritroviamo dunque nelle versioni dei libri di Arguedas alcuni dei tipici buchi neri delle traduzioni approssimative: i calchi che denunciano la scarsa conoscenza della lingua di partenza (incómodo / scomodo; escuálido / squallido; corredor / corridoio; clarín / clarinetto; nevados / nevai; ecc.); errori prodotti dall’ignoranza del contesto storico, geografico, naturale (traduzione di chicha con «acquavite», tinterillo con «avvocaticchio», picanterías con «cibi piccanti») e un’ignoranza eurocentrica, per esempio, del sistema amministrativo del paese andino che porta a confondere province con regioni o distretti. A ciò si aggiungono i pasticci nell’uso dell’italiano: i braccianti agricoli diventano «manovali», le montagne andine alte cinquemila metri diventano «colli». Per non parlare del trattamento riservato alle tante parole quechuas usate da Arguedas, tradotte in modo assai approssimativo. Si viene così a creare una enorme distanza dal contesto culturale, insomma si legge in italiano una versione che poco ha a che fare con il testo di partenza.

I problemi posti dalle traduzioni italiane del capolavoro di Juan Rulfo, Pedro Páramo, una delle vette della letteratura ispanoamericana del ventesimo secolo, sono invece ancora più complessi. «Tradotto e abbandonato», titola Francesco Fava, anzi, tradotto tre volte – dapprima Feltrinelli (Emilia Mancuso) e due successive versioni Einaudi (Francisca Perujo e Paolo Collo), in un arco di tempo che va dal 1960 al 2004 – senza risultati soddisfacenti, e lasciato a morire nei magazzini. Testo intriso di alta poesia, storia onirica popolata da fantasmi silenziosi, tenue linea di confine tra due o tre dimensioni di realtà, Pedro Páramo riposa tutto sulla lingua, sulle infinite e delicate sfumature della prosa di Rulfo. Tradotto senza tenerne conto rischia di diventare invece una trama quasi banale e a volte incomprensibile. In ogni caso direi che bisogna esprimere un moto di comprensione nei confronti dei traduttori: Pedro Páramo è un libro difficilissimo da tradurre. Si può persino affermare che il lettore italiano non ha ancora avuto la possibilità di leggerlo.

Francesco Fava analizza queste traduzioni come esemplari «delle modalità di ricezione, nella lingua e nella cultura italiana, di alcuni aspetti dell’universo letterario ispanoamericano…». Eccone alcune: l’uso dei tempi verbali, la traduzione dello stile, la lontananza e la vicinanza. Chi conosce la lingua ispanoamericana nelle sue molteplici varianti sa che, sia nella lingua parlata sia nella scrittura, l’uso del pretérito indefinido, il passato remoto italiano, rompe la norma dello spagnolo peninsular (cioè europeo) e assume una serie di significati e significanti particolarmente rilevanti nel registro narrativo. Molto efficace l’esempio proposto da Fava: La frase Me estuve allí esperando, hasta que al fin apareció este hombre esprime l’idea di un personaggio smarrito (topograficamente ed emotivamente) in un’attesa che può essere di ore o di giorni, o addirittura infinita, in un rapporto indefinito con la realtà. Sensazione molto diversa da quella trasmessa nelle tre traduzioni, risolte con l’imperfetto: a) 1Me ne stavo lì indeciso sulla direzione da prendere, quando finalmente era apparso quell’uomo». b) «Ero rimasto lì ad aspettare, e finalmente era apparso quell’uomo». c) «Io stavo lì ad aspettare, fino a quando apparve quest’uomo», soluzioni che finiscono per appiattire la scena conferendole un significato puramente funzionale. C’è tutto il Messico rurale nella frase Me estuve allí esperando. In questi casi un uso rigido della sintassi italiana porta alla perdita della poetica del testo: in tutte le traduzioni di Pedro Páramo ritorna l’uso del passato prossimo o l’imperfetto anche là dove lo stile di Rulfo impone il passato remoto, perché ogni pagina del romanzo trasmette appunto questa atmosfera indefinida, remota e inafferrabile. L’ortodossia linguistica mina alle radici la possibilità di tradurre uno stile: «Una simile strategia traduttiva, coerentemente perseguita lungo l’intero romanzo, tende a un ideale di prosa aggraziata, compita, ricca di aggettivazione: un obiettivo coerente in sé, ma del tutto diverso da quello di Juan Rulfo», scrive Fava.

Ma c’è un avvertimento dello stesso Rulfo:

Hay demasiadas cosas intraducibles,
Pensadas en sueños, intuidas,
A las cuales uno puede encontrarles su verdadero significado
Solamente con el sonido original… o el color.
Inefable. El idioma de lo Inefable
La aventura de los desconocido
Inventar un paisaje
O un nuevo paisaje de México
(da Los cuadernos de Juan Rulfo, citato da Francesco Fava)

Grazie anche a un diffuso immaginario politico-turistico, una serie di autori cubani apparsi negli ultimi decenni – Padura Fuentes, Juan Pedro Gutiérrez, Zoé Valdés – godono ormai di una presenza stabile nelle librerie italiane. Sono gli eredi dei grandi classici del Novecento cubano, fra i quali spiccano due figure per così dire emblematiche: Lezama Lima e Alejo Carpentier. Il saggio di Stefano Tedeschi, oltre a mostrare un panorama della presenza della narrativa cubana in Italia nella seconda metà del novecento, mette in rilievo i problemi traduttivi nelle versioni italiane di romanzi e racconti dei classici degli anni Sessanta e Settanta, tra i quali anche Severo Sarduy; e qui ci troviamo davanti alle solite carenze, semmai aggravate dall’oggettiva difficoltà e complessità dei testi di tali autori. La sfida di tradurre adeguatamente Paradiso di Lezama Lima o i romanzi e racconti di Carpentier non è stata vinta ed è forse il motivo per cui le opere di questi grandi scrittori sono rapidamente scomparse dalla circolazione in Italia senza guadagnare lettori al di là di una ristretta cerchia di critici specializzati. Conclude Tedeschi:

«La nostra analisi delle diverse traduzioni di Paradiso, condotta su passaggi non tra i più complessi […] mostra che l’indubbia difficoltà del testo lezamiano, un romanzo che potrebbe essere catalogato come “ermetico”, provocano delle conseguenze gravi sulla sua comprensione in Italia: come la critica ha più volte segnalato, l’ermetismo di Paradiso non va interpretato nel senso di una generica oscurità, quanto di un testo per il quale è necessario un particolare sforzo di comprensione. In italiano invece diventa spesso solamente difficile, indecifrabile, inutilmente complicato.

Sorgono quindi due problemi: da un lato la comprensione da parte del traduttore di una prosa barocca, densa di riferimenti culturali, storici, linguistici tipici di una società come quella cubana, contaminata dalla ricchezza di diverse correnti culturali che finiscono per creare una lingua e una visione del mondo, e dall’altro la capacità di immergere la lingua italiana in simile mare con libertà e spregiudicatezza. E ciò richiede un talento di scrittura che in questo caso non è emerso».

Dei due testi che chiudono il volume, il contributo di Elena Liverani, traduttrice di Isabel Allende, manca a mio avviso d’interesse dal punto di vista della critica della traduzione, in quanto non si tratta di un’autocritica ma ci si limita a una rassegna della vita e opere della popolare scrittrice cilena.

Invece il saggio di Rosario Campra, argentina di nascita e residente in Italia, mette in luce aspetti meno conosciuti e pubblicizzati del lavoro di traduzione: l’autotraduzione, la collaborazione fra l’autore e il traduttore e il difficile rapporto con gli editor e redattori delle case editrici. Ed è anche la storia personale di una migrazione, del passaggio da una lingua a un’altra con tutto quello che ciò comporta. Un’autrice, lei stessa, che affida la traduzione del suo libro a una persona di fiducia, Francesco Fava, e poi affronta peripezie un po’ surreali nel tentativo di contrastare la cocciutaggine di un redattore non proprio flessibile. Particolarmente interessante, nell’intervento di Campra, la questione del bilinguismo di chi traduce e della legittimità del lavoro quando il traduttore è madre lingua nella lingua di partenza, legittimità contestata da quanti sottovalutano invece i limiti di conoscenza della lingua di partenza, soprattutto la lingua parlata. Ciò è tanto più vero nel caso delle opere ispanoamericane con le loro innumerevoli varianti linguistiche e culturali, come si è visto nei saggi qui considerati. Ma qui si aprirebbe un altro discorso, forse un argomento per un altro articolo.

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