SHAFT No Name Bar

Shaft: un detective nero sulle strade di New York

Ernest Tidyman BIGSUR, Ernest Tidyman

Esce oggi nella collana BIG SUR il romanzo Shaft di Ernest Tidyman. Pubblicato originariamente nel 1970, il libro divenne un classico del genere poliziesco e ispirò il film omonimo diretto da Gordon Parks, inaugurando il filone della cosiddetta «blaxploitation». L’estratto che segue vede il detective nero Shaft alle prese con due sicari della mafia italiana nella celebre scena del No Name Bar.

di Ernest Tidyman
traduzione di Ettore Capriolo

I globi arancioni all’ingresso del No Name Bar, di fronte a casa di Shaft, guardavano di traverso la strada come zucche intagliate. Poteva darsi che quelli fossero lì seduti a sorvegliare l’appartamento e ad aspettare che si accendessero le luci. Shaft lo sperava. In quel locale i tipi strani erano così tanti che sarebbero bastati a far impazzire un paio di normali sicari relativamente sani di mente. La musica che rimbombava, le tipe sbronze che biascicavano, gli aspiranti scrittori che insistevano per raccontare ciò che avevano quasi scritto quel giorno e avrebbero forse tentato di scrivere il giorno dopo.

Shaft diede un quarto di dollaro di mancia per una corsa di uno e quarantacinque e uscì nell’aria fresca e umida della notte. Era quasi l’una. Si strinse nelle spalle per proteggersi dal freddo che gli penetrava nel vestito. Doveva farne di strada la primavera prima di raggiungere New York. Poi all’improvviso sarebbe arrivata l’estate. La lunga estate calda. Pensò che quell’anno si sarebbe procurato un condizionatore. Knocks Persons gli avrebbe pagato una dose di fresco. Passò in rassegna con un’occhiata l’intera Jane Street. Le Volkswagen erano rannicchiate naso contro coda tra le Triumph e le Fiat, lunghe file di cani dalla forma strana che facevano le presentazioni.

Per quanto poteva vedere, nei pressi del portone di casa sua non c’era nessuno. Ma seduto in macchina? O appoggiato in un androne? O di sopra, dietro le veneziane del suo appartamento? Si fermò per qualche istante accanto alla porta laterale del No Name, riflettendo su quanto era probabile che avessero deciso di farlo fuori proprio lì. Quando si ha a che fare con degli autentici bastardi, pensò, il bello è che non perdono tanto tempo in quisquilie. Lo volevano morto e lo avrebbero certamente ammazzato, ma nel momento e nel luogo più adatto e meno pericoloso per loro. Ad altri sarebbe forse sembrato poco logico, ma ai loro occhi no.

Lascia perdere, Shaft, si disse, non devi fare altro che metterti nei panni di una di queste carogne italiane, camminare sulle colline riarse della Sicilia per un centinaio di anni in direzione Spanish Harlem e capire come e perché vuoi ammazzare John Shaft, un muso nero mai sentito nominare fino a ieri, che sta incasinando il mondo bello ordinato del crimine organizzato. Poi, lasciò che il suo pensiero divagasse, torna nei panni di John Shaft e cerca di scoprire come farli fuori prima che loro facciano fuori te.

«Palle», borbottò, ed entrò nel No Name socchiudendo la porta laterale quanto bastava perché l’onda di calore e di parole che sovrastava il rock del jukebox gli rovesciasse in faccia una secchiata di odori alcolici e corporei. Sperava che un paio di loro sedessero all’estremo opposto del bar per tenere d’occhio il suo appartamento. Così gli sarebbe stato più facile stabilire un contatto.

 

Shaft 2Erano proprio lì. In due. Il nero di Shaft in un mondo bianco risaltava di meno del contrasto tra la loro cupa malvagità e l’umore frivolo di quelli che bevevano e persino di quelli che discutevano. Dovevano essere, pensò, il fondo del barile. A lume di logica, si poteva pensare che, se quei bastardi volevano far fuori qualcuno, avrebbero chiesto a Detroit o a St. Louis un paio di sicari dall’aspetto di commessi viaggiatori, capaci di entrare nella vita della vittima, di adempiere al compito di troncarla e di uscirne poi agevolmente come ingranaggi di un grande macchinario a bassa tolleranza. Shaft sapeva che era solo un altro cliché, e che i due uomini seduti accanto alla porta principale del bar potevano sopravvivere come cliché in una società con grandi tradizioni di violenza e che lui poteva morire per una sua applicazione eccessiva.

Il bancone del No Name scorre per una decina di metri dal fondo all’ingresso principale, curva leggermente a destra e finisce contro una parete scura a pannelli di quercia a circa un metro dalla finestra. I due occupavano gli ultimi sgabelli, che davano su Hudson Street e, in alto, sulle finestre della cucina, del soggiorno e della camera di Shaft al secondo piano. La scala antincendio passava proprio davanti alla finestra del soggiorno. Il portone della casa, in Jane Street, appena voltato l’angolo, era perfettamente visibile. Un bel vantaggio per gente come loro. Gli architetti disegnavano il mondo in modo che i sicari potessero aspettare come grossi rospi che il pasto successivo gli volasse davanti. Zap!, schizzava fuori la loro lingua viscida. Fine del pranzo.

Shaft pensò che sembravano effettivamente dei rospi. Ma lui non era una zanzara isolata. Immergendosi tra la folla, cominciò a sfilarsi la giacca. Dovevano avere trenta o trentacinque anni. Vecchi abbastanza da conoscere il mestiere, duri abbastanza da essere ancora vivi, stupidi abbastanza da prendere ancora ordini per imprese del genere. Si scontrò con un terzetto composto da due ragazze grasse che traboccavano dalle minigonne e da un giovane malandato vestito di tweed. Nel West Village parevano tutti scrittori. Pochi di loro avevano mai scritto qualcosa, se non assegni a vuoto. Ma le ragazze grasse non protestavano mai per gli assegni a vuoto degli scrittori dall’aria malandata.

Quattro grossi neri circondavano una biondina all’estremità del bancone più vicina a lui, dove era possibile sollevare il ripiano per dare modo al barista di entrare e di uscire. In una normale serata del No Name, il barista era costretto a passare almeno tre volte dall’altra parte per scaraventare qualcuno in Hudson Street. Un qualcuno che proclamava a gran voce il proposito di non mettere mai più piede in quel lurido locale del cazzo… fino all’indomani. Per quanto la biondina apparisse ben disposta, i neri, pensò Shaft, non ce l’avrebbero mai fatta. Nella grande caccia alle donne, avevano ancora bisogno della sicurezza del numero, ma era solo il cacciatore solitario che trovava invariabilmente la selvaggina.

Rollie Nickerson, un attore alto e magro sempre strafatto, stava lavorando dietro il banco, e le sue lunghe braccia da ragno stantuffavano ad afferrare una bottiglia, a pulire il banco, a sciacquare un bicchiere, a prendere ghiaccio. Era probabilmente fatto di speed. Le anfetamine gli toglievano energia e gli bruciavano le cellule cerebrali. I baristi del No Name o erano in preda a una frenetica attività oppure se ne stavano lì strafatti a sorridere agli occhi supplici dei clienti. Nessuno si lamentava. Se le cose si mettevano troppo male non avevano che da risalire Jane Street fino al Bistro o scendere lungo Hudson Street fino al White Horse. Era tutto perfettamente normale. Un uomo ha il diritto di farsi.

Mentre procedeva a spinte tra la folla, Shaft si rimboccò le maniche sugli avambracci muscolosi e con le vene in rilievo. Teneva d’occhio ora Nickerson ora i due uomini in fondo al bancone. E tutto il resto della clientela. Erano presenti persone che lo conoscevano abbastanza bene da poterlo chiamare per nome, da voltarsi verso quei due e dire: «Ecco Shaft, l’uomo che cerc…»

Ma i due non potevano essere tanto cretini da lasciarsi associare al nome dell’uomo che volevano fare fuori. E lui comunque doveva rischiare. Tirò fuori la busta dei soldi dalla tasca della giacca e la aprì tenendola vicino agli occhi come un giocatore di poker che cerca di spizzicare degli assi dall’orecchio di una donna. Le banconote erano enormi. Dovette frugare parecchio per trovare quelle da cinquanta, ma finì per scovarne un paio che cavò dalla busta e nascose in mano prima di ficcare il resto nella tasca posteriore sinistra dei pantaloni.

Si insinuò nel capannello dei neri che attorniavano la ragazza bianca in preda alla ridarella. Ne riconobbe uno che abitava nella zona. Gli altri non erano del posto, e reagirono alla sua intrusione con uno sguardo ostile. Il gruppo dava sicurezza e fiducia, è vero, ma chi era quel figlio di puttana che si immischiava nel loro gioco?

«Tranquillo», disse a quello che aveva riconosciuto, probabilmente custode in uno dei grandi palazzi lì attorno. Shaft gli porse la giacca, in una tasca della quale aveva intanto infilato la cravatta. «Me la tieni un momento?»

L’uomo era abbastanza brillo per prendere la giacca senza fare storie. Portava un berretto calcato sull’orecchio destro.

«Con chi vuoi fare a botte?», domandò.

«Ho da lavorare», disse Shaft dirigendosi verso il ripiano mobile del bancone. Gli altri si rilassarono. Ok, non era lì per soffiargli la donna. Doveva solo lavorare. Sorrisero. «Te la richiedo quando avrò trovato un posto pulito per metterla».

«Sembra una bella giacca», disse l’ubriaco. «Se mi fa rimediare tre o quattro dollari, può darsi che non mi trovi più qui».

Gli altri risero. Anche Shaft. Non ne aveva molta voglia ma rise lo stesso, pur senza perder d’occhio Rollie Nickerson all’estremo opposto del bancone.

Tutti, tranne la biondina, trovarono la cosa divertente. Lei sembrava sentire la sua parlantina disinvolta come una minaccia, e tenne il nasino rosa puntato sul beverone di gin che stava succhiando. I neri che la circondavano si fecero da parte, mentre Shaft si accostava al piccolo ripiano, lo sollevava e si spostava dietro il bancone. Adesso ci voleva proprio un idiota che si mettesse a urlare: «Ehi, Shaft, sei tu il nuovo barista? Perché non mi dai da bere?»

Ma erano tutti indifferenti, ubriachi o drogati. Anche Rollie Nickerson. Sulla loro indifferenza, Shaft stava puntando la propria vita. Nickerson, chino sul secchiello dei cubetti di ghiaccio sotto il bancone, colse con la coda dell’occhio l’arrivo dell’intruso. Alzò la testa perplesso, dando la nuca ai due uomini in fondo al bancone, e riconosciuto Shaft gli sorrise. Shaft lo salutò con un cenno della testa. I due non gli badarono. Era soltanto un muso nero uscito da un gruppetto di musi neri. Un altro barista. Non potevano immaginare che fosse proprio quel muso nero. Quell’uomo aveva un lavoro da fare, altrimenti non sarebbe stato lì. Il loro uomo no.

Shaft cominciò a raddrizzare bottiglie e chiese al gruppo dei neri e della biondina se volevano bere qualcosa.

«Se paghi tu un giro, ti restituisco la giacca».

«Certo. Cosa bevete?»

Shaft 3Ora Nickerson si stava avvicinando, ma sempre con indifferenza. Shaft si voltò e gli tese la mano per salutarlo. Nickerson gliela strinse. Cambiò espressione quando i due cinquantoni trovarono una nuova casa. Abbassò gli occhi, vide i numeri negli angoli dei biglietti verdi e sempre con indifferenza si ficcò il messaggio in tasca.

«Perché non passi dall’altra parte a bere qualcosa?», disse Shaft.

«Ti sei appena comprato il saloon», assentì Nickerson dandogli un’amichevole pacca sulla spalla mentre gli passava accanto diretto verso l’uscita. Poteva dirsi fortunato. Con cento dollari avrebbe trovato un dentista disposto a incapsulargli i denti. E con una bocca nuova di zecca, Cristo, poteva diventare un divo. Il padrone si faceva vivo soltanto verso le tre o le quattro per contare i soldi e chiudere. Lui non aveva che da appoggiare il gioco di Shaft, qualunque fosse.

«Dov’è l’arma?», domandò Shaft.

Nickerson si fermò. Qualche mese prima – nel pieno della grande stagione dei furti natalizi – aveva mostrato a Shaft la Colt .38 dal muso rincagnato appesa per il guardamano a un piccolo gancio avvitato sotto il bancone. Aveva anche chiesto a Shaft un parere professionale su cosa avrebbe dovuto fare se e quando si fosse presentato un rapinatore deciso a svuotare la cassa.

«Dimenticati di averla», aveva detto Shaft. «Sii gentile, sorridi e dagli tutti i soldi».

Dopodiché l’aveva spinta dall’altra parte del bancone e Nickerson, guardingo e rispettoso, l’aveva riappesa al gancio.

«Al solito posto. Non la tocco mai».

Nickerson svoltò l’angolo e sparì tra i gruppetti rumorosi. Shaft si mise al lavoro. Offrì da bere ai quattro neri e alla biondina. Che beveva vodka, non gin. Quest’anno, pensò lui, le bionde bevono solo vodka. Le versò nel bicchiere circa tre dosi e vi aggiunse uno spruzzo d’acqua tonica. Qualcuno avrebbe finito per portarsela a casa. Non gli importava chi. Trascorse con loro più tempo del dovuto. Voleva che gli uomini in fondo al banco lo notassero e lo associassero a quei neri. Era il migliore e il più antico sistema di mimetizzazione nera: sembravano tutti uguali. I pistoleri ne cercavano uno che sembrava diverso e che si sarebbe mostrato accendendo le luci nell’appartamento di fronte.

Shaft li controllava ogni volta che girava la testa verso di loro per andare a prendere i cubetti di ghiaccio o per avvicinarsi alla cassa. Se ne stavano seduti a fumare e ogni tanto toccavano i bicchieri che avevano davanti, ma bevevano pochissimo. Avevano evidentemente trovato normale il cambiamento di turni e il nuovo barista. Non sapevano bene come funzionasse quel bar. Non lo sapeva nemmeno Shaft, che non lo frequentava molto. Il registratore di cassa, il maledetto registratore. Era una complessa e curiosa congerie di tasti. Si ricordò d’un tratto che lungo il fianco del registratore c’era una leva nera su cui il barista, dopo aver battuto il prezzo delle bibite, dava un gran colpo di taglio con la mano. Fece così anche lui e il cassetto si aprì di scatto. Lasciamolo aperto, questo figlio di puttana, si disse.

«Ci dai un paio di birre?»

Diede alla voce un paio di birre. Era entrato nel ritmo del lavoro. Cristo, guarda quei boccali. Perfetti. Gli facevano venire voglia di un bicchiere di birra, ma si ricordò che la birra non gli piaceva. Era spillarla che gli metteva sete. Prese un boccale dal mucchio che stava sotto il bancone e lo riempì. Perfetto. Ma ora non sapeva che farsene. Cercò un bevitore di birra, gli posò di fronte il boccale e disse: «Offre la casa».

Era una gran soddisfazione vendere una merce per la quale la richiesta sembrava incessante. Per questo i baristi hanno sempre l’aria così allegra. Nonostante tutte le rotture di palle che l’alcol causa, l’uomo che lo serve è sempre richiesto. Si identifica con il suo prodotto. Shaft prese un bicchierino e si mise alla ricerca della bottiglia di Johnny Walker etichetta nera sulla mensola davanti allo specchio. Si versò due dita di ambra, levò il bicchiere e lasciò che quel calore dorato gli rotolasse in gola. Un brindisi a nessuno, un brindisi a sé stesso.

Cominciava a sudare un poco, e anche questo gli faceva bene. Squillò il telefono. Lo fece sussultare il sentirlo con tanta chiarezza nonostante il frastuono del jukebox e dei bevitori. Il telefono era sotto il bancone, proprio di fronte ai due sicari. Finì di spremere un lime in un bicchiere d’acqua tonica per un avventore stanco di gin e andò a rispondere. I due uomini alzarono gli occhi su di lui. Shaft indicò i loro bicchieri con un dito.

«Volete ordinare?»

«Non ancora», disse il più anziano.

Shaft alzò il ricevitore e lo accostò all’orecchio. Sorrise ai due uomini, che gli restituirono il sorriso.

«No Name», disse.

«È lì Alex Palmer?», domandò una voce querula, triste. Come faceva una persona in quelle condizioni a comporre un numero?

Allontanò la cornetta dalle labbra.

«Uno di voi due è Alex Palmer?», domandò. Le loro facce erano prive di espressione. Scossero il capo. Shaft si voltò e finse di perlustrare la stanza.

«Non è qui», disse al telefono.

«Senta, se per caso venisse, gli dice di telefonare a…»

Il nome si perse in un mugolio.

«Certo», disse Shaft. «Glielo dirò».

Riattaccò. Gli piaceva starsene vicino ai sicari. Che sensazione prova una tigre nella foresta quando il cacciatore, mezzo metro più in là, si accende una sigaretta e studia le orme sul terreno? Si sente un po’ nervosa? Un po’ eccitata? O è fiduciosa, padrona della situazione? Lui era fiducioso, padrone della situazione. Se lo avevano riconosciuto, dovevano essere freddi quanto lui. Avevano un piano e non lo cambiavano. Uno di loro continuava a guardare oltre la vetrina con aria annoiata e indifferente. E quando si voltava verso il bar, era l’altro che cominciava automaticamente a guardare fuori senza che la sorveglianza venisse mai interrotta. Non parlavano molto tra loro. Al massimo, qualche monosillabo che lui non riusciva ad afferrare.

Andò a soddisfare le richieste della clientela e notò che la folla si stava diradando. Era perlopiù gente che lavorava dalle nove alle cinque. Erano quasi le due, e la mattina dopo dovevano alzarsi, mettersi i vestiti per l’ufficio e andare al lavoro. La vita era già abbastanza dura, non potevano permettersi una sbronza ogni sera. Anche se molti di loro ci provavano.

«E adesso ordinate?», domandò ai due.

Tornò in fondo al bancone.

«Certo», disse quello con la giacca sportiva a pied-de-poule e la polo rossa. «Club e acqua. Per tutti e due».

L’altro sembrava un uomo d’affari, pensò Shaft mentre andava a prendere la bottiglia di Canadian Club e versava le dosi. Indossava un abito scuro di zigrino e una cravatta piuttosto stretta con un piccolo disegno. Due tizi qualunque che si facevano un paio di bicchierini. Lasciò cadere dei cubetti di ghiaccio nei bicchieri, aggiunse altro whisky e versò l’acqua da una piccola brocca. Ma all’improvviso si ricordò che non sapeva quanto avessero pagato i drink precedenti. Con gli altri clienti poteva inventare il prezzo. Ma con quei due no.

«Offre la casa», disse allora prendendo un altro bicchierino e la bottiglia di Johnny Walker. Ne versò due dita e alzò il bicchiere per un brindisi. Bevete con me, figli di puttana, tuonò mentalmente. Brindarono a loro volta e sorseggiarono con lui.

«Grazie», disse la giacca sportiva.

«Di niente. Salute».

Mentre scivolava nello stomaco, l’alcol dava una sensazione calda, forte, rallegrante. I due non sapevano chi era lui e cominciavano a volergli bene. Shaft sorrise. Loro sorrisero. Si chinò sotto il banco e allungò una mano verso il telefono. C’era la calibro .38 che nel suo opaco bagliore blu scuro penzolava come la testa di un serpente da un albero. Era rincuorante e riscaldava quanto lo scotch. Sorrise alla pistola. Avrebbe potuto giurare che la bocca della Colt gli avesse restituito il sorriso.

Shaft fece un altro giro. Rollie Nickerson arrivò ridacchiando da uno dei tavolini lungo la parete, dove aveva trovato un paio di ragazze non accompagnate.

«Tre vodka tonic, buon uomo», ordinò.

«Vaffanculo», disse Shaft. «Io sono cattivissimo».

«Ehi, hai mai sentito quel pezzo di Jelly Roll Morton dove racconta a Lomax come facevano a quei tempi a smontare gli avversari?»

«Li ho anch’io quei dischi», disse Shaft, e versò la vodka nei tre bicchierini, vi spruzzò sopra l’acqua tonica e si mise alla ricerca di un lime.

Certo che li aveva quei dischi. Li avevano tutti quelli che sapevano qualcosa di musica e di neri. Jelly Roll seduto al piano a raccontare a Lomax come si viveva a New Orleans e negli altri posti. Il piede di Jelly che batteva il tempo, la sua voce che macinava sabbia per il nastro. Nickerson alludeva al brano in cui Jelly racconta come si preparava uno scontro in un crescendo di minacce e avvertimenti offensivi. Era l’antiquato e bizzarro linguaggio dei negri che Lomax aveva consegnato alla storia con le sue registrazioni per la Biblioteca del Congresso. Qualche anno prima, Shaft aveva pianto leggendo i libri di Lomax, di cui gli aveva parlato un tale alla New York University. Ma aveva riso sentendo i dischi. Jelly Roll così maledettamente fiero e bello. Pugnalato a morte da un tizio in un bar di Washington. Una lite per una donna. Una bella fine per Jelly Roll. La sola fine possibile. Prese la bottiglia di Johnny Walker e si riempì un altro bicchierino, versando anche una dose di vodka liscia per Nickerson.

«A Jelly Roll», brindò Shaft.

«A Jelly Roll», ripeté Nickerson, con gli occhi vitrei. Poi posò il bicchiere vuoto sul bancone. «Quanto tempo vuoi restare lì dietro?»

«Non so», disse Shaft. «Forse per sempre».

«Bene. Devo pagarli, questi?»

«Vaffanculo».

«Sei un bravo barista».

Shaft sentiva ancora l’alcol mentre guardava Nickerson che portava i tre vodka tonic al tavolino. Le ragazze gli parvero abbastanza carine. Un po’ consumate agli angoli, ma giovani, schiette e cosa diavolo ti aspetti di trovare al No Name alle due del mattino? Modelle di Vogue? O tipe come quelle, o come la biondina laggiù con la sua muta di levrieri alle costole? Meglio loro delle ragazze sostenute che incontrava tutto il giorno. Shaft era nelle loro fantasie, lo sapeva. Le spaventava da morire. Il grosso uomo nero con il grosso coso nero. Correvano tutte a casa dalla mamma, si distendevano nella schiuma di un bagno caldo e pieno di sali, e giocavano un po’ pensando a lui. Meglio così. Se ci avessero provato davvero, avrebbero rovinato tutto. Sarebbe stata soltanto un’altra scopata. La fantasia era molto più divertente della realtà. Si versò un’altra dose di scotch, un po’ più robusta delle altre, la levò in un brindisi alle ragazze sostenute e la lasciò scendere diritta in gola. Le donne.

Si voltò e proseguì lungo il bancone, svuotando portacenere e asciugando con un panno umido i cerchi d’acqua e le gocce di whisky.

«Come andiamo?», domandò ai due. Erano omoni grossi e scuri che avevano passato da un pezzo l’età dei principianti, a cui vengono di solito affidati lavori del genere per scoprire quanto valgono. Erano dei professionisti, pensò.

«Benone», disse uno di loro.

Shaft 4«Bevete ancora qualcosa», insistette Shaft tirando fuori altri due bicchieri. Gli ultimi li avevano appena toccati.

Sorrisero alla sua generosità.

«Piano», disse la giacca sportiva. «Dobbiamo andarci piano. Siamo in macchina».

Ma lo disse con giovialità, fraternamente. Questo sì che era un bravo negro. Non si riusciva a immaginarlo nell’atto di scatenare rivolte, di aggredire gente, di squarciare la capote della nuova Cadillac dello zio. Questo offriva da bere.

«Non si guida su una ruota sola», disse Shaft. Posò un bicchiere sul bancone per sé e insieme a quella del Canadian Club prese la bottiglia dello scotch. Le parole che pronunciava suonavano vuote ai suoi stessi orecchi. Tutte le parole suonavano vuote. Erano tutti ubriachi, pensò. Tornò a meditare sulle donne.

Prese il telefono da sotto il banco e fece il numero. Poi riagganciò con il pollice. Aveva sbagliato numero. Com’era quello giusto, maledizione? Rise cercando di ricordarselo. Era quasi sbronzo. Se lo ricordò.

«Pronto», disse lei, con una voce inzuppata di sonno, appesantita dal calore della coscienza perduta.

«Sono io».

«John? Dove sei?»

«Al Village», disse Shaft, coprendo la cornetta con una mano e osservando i due sicari: «Con certe donne bisogna farsi sentire regolarmente. Se no cominciano a rompere le palle ed è la fine, amico mio». I sicari sorrisero e annuirono. Capivano benissimo. Sapevano tutto dei neri e delle nere. Svuotarono i loro bicchieri solidali con i problemi di Shaft e la sua donna.

«Stai arrivando?», domandò Ellie. «Che ore sono? Oh Dio, quasi le due». Aveva trovato l’orologio illuminato accanto al letto. Shaft la vedeva sbucare da un tumulo funerario di lenzuola e coperte per afferrarlo con il braccio lungo e magro, bianco nella notte. Avrebbe voluto sentire la dolce carezza di quella mano. «Tesoro, che c’è?»

«Volevo soltanto farmi vivo come mi avevi chiesto. Sarò ancora impegnato con queste persone per qualche ora».

«John, sembra che tu abbia bevuto. Sei ubriaco?»

«Ehi!» Strizzò l’occhio ai due uomini. «Mi sono fatto un paio di bicchieri. Ma non sono ubriaco. Sto solo parlando d’affari con queste persone. Arriverò con un paio d’ore di ritardo, tutto qui».

«Non ti capisco, tesoro. Adesso torno a dormire. Suona forte il campanello, così mi alzo e ti faccio entrare». Riattaccò.

«Ti spiego tutto quando sarò lì», disse lui al telefono muto. «Va bene, piccola, cerca di dormire un po’. E non preoccuparti. No. Adesso sai che non sto facendo niente. Non stare alzata a preoccuparti. Torna a letto e cerca di dormire un po’. Va bene. Va bene».

Sembrava un po’ depresso quando riattaccò il ricevitore.

«Merda», disse. «Le donne non ti lasciano neanche lo spazio per respirare». Riprese la bottiglia dello scotch mentre i due gli sorridevano con affettata comprensione.

«Ti fa vedere le stelle, eh?», domandò quello che sembrava un uomo d’affari.

«Non come gliele faccio vedere io».

Risero. Stavano ancora ridendo quando Shaft compose un altro numero in cerca di un’altra presenza da strappare a una notte di sonno. Con la mano libera prese lo scotch e cominciò a sorseggiarlo.

«Anderozzi», disse la voce. Assonnata, ma dura e pronta.

«Ehi, piccola», tubò Shaft il più lascivamente possibile. «Come va?»

«Chi parla?»

«Ehi, piccola. Sono Jelly Roll. Stavo pensando a te».

Quanto ci avrebbe messo Anderozzi a riconoscere la voce? Svegliati, accidenti!

«Sì, anch’io ho pensato tanto a te, Shaft. Ma adesso sto dormendo. Che diavolo vuoi?»

«Che ne diresti di venire a trovare il vecchio Jim? Ho quello che ti serve, piccola».

I due uomini erano affascinati. Si erano persino dimenticati di guardare fuori dalla vetrina. Senti questo maschione negro come se la rigira. Senti come a forza di paroline dolci la porta a quell’obbedienza che le viene così dolce e facile. Sapevano tutto dei neri e delle nere.

Anderozzi era sveglissimo.

«D’accordo», ringhiò. «Dove sei?»

«Ascolta, tesoro. Adesso sono qui al No Name, ma prima o poi dovrà pur chiudere, questo localaccio. E butteranno il vecchio Jim fuori al freddo. Perché non vieni subito?»

«Quanti sono?»

«Ah, devono essere quasi le due. Sì».

«Dove?»

«Sulla porta. Ti aspetto sulla porta».

I due sicari erano euforici. Non sapevano come avrebbe fatto a combinare, ma sembravano impazienti, ansiosi che ci riuscisse. Volevano che riuscisse a beccarsi la ragazza.

«Entreremo da tutti i lati. Ma per l’amor del cielo buttati a terra. Non fare l’eroe».

Shaft 5«Ehi, piccola», sussurrò Shaft. «Così mi piaci. E non preoccuparti per il taxi. A quello pensa il vecchio Jim». Alzò lo sguardo sui due sicari ammiccanti. «E anche a te».

Nonostante un filo di tensione, era stato uno dei suoi momenti migliori, pensò. Mentre posava il ricevitore si domandò chi altro poteva chiamare, e scambiò con i due sicari un sorriso di complicità maschile. Ma scartò l’idea di un’altra telefonata. Sarebbe stato stupido.

«Viene?», domandò uno di loro.

«Certo», ridacchiò Shaft.

Si tolse dalla testa l’idea di combinare qualche scherzetto. Era il whisky che gliela suggeriva, ma lui non era abbastanza sbronzo o abbastanza stupido per dargli retta. Si appoggiò al legno della parete e posò un piede sullo scaffale basso che correva sotto il bancone. Nickerson o qualcun altro aveva lasciato sullo scaffale un pacchetto di Marlboro. Shaft ne prese una, l’accese e soffiò il fumo dalle narici come un drago nero. Nel giro di dieci minuti, con l’approssimazione di un’eternità, quei due pagliacci avrebbero alzato gli occhi e avrebbero visto un’autopattuglia bianca e verde piombare sulla porta principale del No Name. E forse anche su quella laterale.

Si chinò a dare un’altra occhiata alla pistola appesa.

«Abbiamo quasi finito i limoni», disse rialzandosi. Uno degli uomini lo guardò stupito. «Facciamo fuori parecchi limoni, qui dentro», aggiunse Shaft. «Trenta o quaranta al…»

Appena si accorse di quello che stava succedendo aveva già la pistola in mano. Passò un secondo prima che i sicari reagissero. Erano entrati tre individui dalla porta laterale. Non dissero niente. Uno a fianco all’altro con i loro fucili Remington calibro 12 puntati in faccia ai due uomini, sopra e intorno ai pochi clienti superstiti.

In quel secondo, la mano di Shaft si alzò e si posò sul banco: la bocca della sua pistola era a quaranta centimetri dai due. Due sagome passarono davanti alla vetrina ed entrarono nel No Name dalla porta principale. Altri due fucili.

«No, no», disse Shaft scandendo freddamente le parole. «Non ci provate neanche. Fermi lì».

Erano sbalorditi. La consapevolezza della realtà gli illuminava gli occhi. Erano pratici di situazioni del genere. Sapevano fiutare uno sbirro dietro l’angolo o in fondo all’isolato. E adesso ne avevano intorno cinque, che li circondavano coi fucili spianati, più un grosso nero alle spalle con la pistola puntata.

«In piedi!», disse Shaft quando li vide reprimere il gesto automatico di portare la mano alla pistola. «In piedi!» Le mani ben curate si alzarono sopra le teste.

Uno dei poliziotti si fece avanti, guardingo, rapido, con il fucile ancora ben saldo in mano, ancora puntato al petto dei due. Con abilità professionale insinuò la mano libera nelle tasche, nelle cinture e nelle gambe dei pantaloni, uscendone con tre pistole che sparirono nelle capaci tasche del suo impermeabile fumo di Londra. Porse il fucile a un collega e fece scattare delle manette cromate sui polsi dei sicari.

«Ok», disse il poliziotto che sembrava il capo della squadra, «portiamoli via».

Shaft s’accorse che il No Name era piombato nel silenzio più completo, probabilmente per la prima volta nella sua storia.

«Viene con noi, signor Shaft?», domandò l’ufficiale.

La rabbia dei due sicari esplose. Shaft alzò la bottiglia di Johnny Walker.

«Bicchiere della staffa?»

Il rospo con la giacca sportiva gli sputò in faccia. Ma ebbe appena il tempo di tirarsi indietro e leccarsi le labbra che la bottiglia si frantumò contro il suo zigomo spruzzando in giro whisky, vetro e sangue. Un poliziotto imprecò. Una ragazza strillò.

«Va bene», disse il capo dei poliziotti. «Passeremo prima al St. Vincent per farlo ricucire. Andiamo».

© Ernest Tidyman, 1970. Tutti i diritti riservati.

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