consiglio straordinario

Il consiglio straordinario di Jeffrey Eugenides

Todd Hasak-Lowy BIGSUR, Editoria, Scrittura

Questo articolo è uscito originariamente su The Millions e viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore.

di Todd Hasak-Lowy
traduzione di Cristina Galimberti

1.
Qualche giorno fa un caro amico mi ha inviato un’email che in oggetto diceva: «Geniale». Nella mail c’era solo il link a un discorso che Jeffrey Eugenides ha rivolto ai vincitori del Whiting Award del 2012. Ho letto subito il discorso e ho provato quella sensazione di pura calma che si ha di fronte a un ragionamento lucidissimo. Ho risposto al mio amico: «Wow, che figata!». Qualche minuto dopo l’ho twittato perché, non so come mai, ma adesso sono uno che twitta (e non me ne vanto). Il mio tweet: «Un consiglio pazzesco per chi scrive, anche se difficile da seguire» e poi il link. Una mia conoscente, una collega scrittrice con cui sono in contatto solo tramite Twitter, non è stata d’accordo. Concedendosi il lusso di quasi 280 caratteri, ha scritto: «Eh. Toccherebbe parlarne con calma davanti a un caffè. Se fosse solo “arte” e non merce, gli scrittori non cercherebbero di farsi pubblicare. È un business e J.E. può sostenere qualunque tesi, ma è la visibilità che gli ha dato Oprah a permetterglielo… la verità sta nel mezzo». Botta e risposta, siamo andati avanti per un po’, molto poco in realtà, finché i limiti di Twitter si sono rivelati ancora una volta insormontabili.

Bene, ma qual è poi il «consiglio pazzesco» di Eugenides? E, dopo averci riflettuto un po’ su, vale davvero la pena dire: «Che figata!»? L’idea centrale, che non è nemmeno sua, ma ci arriva da Nadine Gordimer tramite Christopher Hitchens, è questa: «Una persona seria dovrebbe sperimentare una scrittura postuma […] bisognerebbe scrivere come se i soliti vincoli – la moda, la vendibilità, l’autocensura, il pubblico e, forse più di tutto, la critica – non contassero nulla». Come spiega Eugenides, scrivere come se fossi morto o come se il merito di quello che scrivi ti venisse riconosciuto solo dopo la morte, ti farebbe evitare di seguire le mode letterarie, di scrivere per soldi, di censurare i tuoi veri pensieri e via dicendo, perché tutte queste cose «cancellano quegli stessi propositi» che ti avevano «originariamente spinto a scrivere».

Eugenides sostiene che l’opera di uno scrittore emerge anzitutto come una reazione straordinariamente e necessariamente individuale «allo stupore e all’umiliazione di essere vivo». Questa reazione, a mio parere, implica anche un atto di traduzione: prendere una serie di esperienze, sentimenti ed emozioni e trasporli in parole. Farlo in maniera accettabile, cioè non limitandosi a trovare parole qualsiasi, ma parole belle, significative, originali, non è solo molto difficile: è altamente improbabile. Come suggerisce Eugenides, «non sai bene come hai fatto» ma «come per miracolo, ci sei riuscito».

Credo che Eugenides abbia usato di proposito l’espressione «come per miracolo». La nostra lingua ci impone di trattare ciò che viene scritto come un complemento oggetto qualunque; dire: «Mary ha scritto una storia meravigliosa» non è molto diverso da: «Mary ha lanciato la palla rossa». Ma Mary, e tutti gli altri scrittori come noi, sanno che non è poi così semplice. Per scrivere quella storia, Mary può essersi preparata in ogni modo, e poi può aver raccolto la determinazione necessaria per starsene ore, giorni, settimane o forse di più con le chiappe incollate alla sedia davanti al computer o al taccuino; ma in ultima analisi, se parliamo di qualcosa che si possa definire a buon diritto «letteratura» o «arte», ci sono anche altre variabili, altri elementi da tenere in considerazione.

Mary ha scritto la storia, ma l’ha anche trascritta. È riuscita, contro ogni pronostico, a captare dentro di sé questa cosa non ancora verbale ed è anche riuscita, sempre contro ogni pronostico, a dedicarle quell’attenzione costante, intensa che le ha permesso di espandersi e concretizzarsi al punto da poterle dare un nome e da renderla quindi conoscibile nel mondo al di fuori di Mary. Ci sono molti termini per indicare questa cosa altra – dono, talento, musa, ispirazione – e ognuno sottolinea una caratteristica leggermente diversa, da un punto di vista leggermente diverso. Ma comunque la si veda, direi che è sia Mary, sia qualcosa di estraneo a lei, allo stesso tempo. Le appartiene, ma non del tutto. Perché avvenga il miracolo di diventare scrittore, devi trovare il modo di accogliere questa cosa altra dentro di te, devi essere l’oggetto attraverso cui questa cosa intima cerca di esprimersi.

Inutile dire che è facilissimo distruggere questo canale magico. Eugenides usa il gergo della malattia – parla di virus, sistema immunitario, agenti patogeni – per descrivere cosa possono fare a questo canale delicato, intimo, vari corpi estranei come gli elogi, i soldi e la fama. Uno scrittore infetto diviene sordo a quella comunicazione intima e si trasforma così in una persona diversa, che scrive in maniera irriconoscibile e, molto probabilmente, anche male. Ecco quindi il suo consiglio: scrivi come se fossi morto, come se ci fossi solo tu e quello che scrivi, come se non esistesse nessuno di quei fattori esterni che a volte interrompono il flusso creativo degli scrittori. Il consiglio di Eugenides, in sé e per sé, ha profondamente senso.

2.
Ma c’è un’efficace controargomentazione di fronte alla quale il consiglio di Eugenides può risultare semplicistico e naïf. E forse anche un po’ in malafede. Se lo scrittore ha un altro scopo, oltre a quello di scrivere una storia e conservarla nella relativa segretezza del suo hard disk, allora entrano in gioco anche altri fattori. In altre parole, se uno non vuole solo scrivere, ma anche farsi pubblicare e, non solo pubblicare, ma anche leggere da tante persone (nonché guadagnare abbastanza per giustificare il fatto che scriverà sempre di più in futuro), allora la situazione, o meglio il processo, diventa ancora più complicato. E, tanto per essere chiari, i premiati che quella sera hanno ascoltato il discorso di Eugenides (e lo stesso Eugenides) già perseguono questi scopi, ed è evidente che lui non sta proponendo (né a loro né a sé stesso) di nascondere i libri che scrivono o di donarli semplicemente al mondo.

I libri che hanno scritto possono emergere in un primo momento da un atto di pura trascrizione artistica, ma Eugenides non mette in guardia i vincitori dalla possibilità che si trasformino in un prodotto commerciale. Perché è questo che succede quando ti recensiscono sul Times e ti fai intervistare da Terry Gross e quando incassi le royalties. Affinché si realizzino tutte queste cose, e magari anche più di una volta, affinché uno scrittore possa avere quella che, forse esageratamente, chiamiamo carriera, lo scrittore stesso non può fare altro che esporsi a tutti i potenziali attacchi patogeni: le scadenze, le raccomandazioni degli agenti, le richieste degli editor, le domande insulse e incomprensibili dall’ufficio marketing. In questa matassa si inseriscono anche le ultimissime tendenze intellettuali, culturali e editoriali. All’inizio si può tenere quello che si scrive sotto una campana di vetro, ma per emergere e avere una vita propria i libri hanno bisogno di un ambiente molto diverso. Ignorarlo significa, se va bene, vivere di pie illusioni; se va male, optare per l’autolesionismo.

Il fatto che Eugenides abbia deciso di ignorare questa immensa realtà è meno problematico di un altro aspetto: cioè che a dare questo consiglio, in fondo, è uno che ha vinto il Pulitzer. Dopotutto, Eugenides può scrivere nella sua bara immaginaria, e al tempo stesso godersi lo spettacolo del suo affollatissimo funerale. Inoltre ci sono editori disposti a pagargli – tiro a indovinare, ma sono più che sicuro – un anticipo a sei o sette cifre per il frutto dei suoi sforzi pseudo-postumi. L’enorme successo di Eugenides ammanta il suo consiglio di un’aura seducente, dato che è praticamente impossibile essere d’accordo con lui senza confondere quel consiglio per una mappa che porta dritta alle cose per cui, a detta sua, non si dovrebbe scrivere affatto: soldi, fama, credibilità, ecc…

Se pensate che io abbia capito male, fatevi questa domanda: mettiamo che (con la stessa eloquenza) l’avessi formulato io quel consiglio, sarebbe ancora così convincente? A me è andata bene, ma vi assicuro che il mio editore non ha investito in un cartellone con la mia faccia sopra per promuovere il mio nuovo libro. Non è che siamo più propensi a credere alla controprova implicita nel consiglio di Eugenides? Evitate di preoccuparvi dei risultati delle vostre azioni, fidatevi, ve lo dice uno i cui risultati sono l’oggetto dei vostri sogni più sfrenati. Eugenides è arrivato sano e salvo dall’altro lato, lontano e anelato, dell’insidiosa trappola in cui invita gli scrittori a non cadere: è ricco, famoso ed è anche preso molto sul serio. Non rimpiange il suo successo, né dice a quei giovani scrittori di non desiderare che succeda lo stesso anche a loro, gli sta solo dicendo di non scrivere con in testa l’oggetto dei loro desideri. Il che, ancora una volta, ci porta a concludere che forse il modo migliore per raggiungere quegli obiettivi è scrivere come se non ce ne importasse nulla.

Questo non vuol dire che il consiglio di Eugenides non sia giusto. Magari, però, avrebbe dovuto ricordare ai suoi uditori di non confondere una condizione necessaria per una condizione sufficiente. Scrivere come se fossi morto può mettere al riparo il tuo lavoro dai condizionamenti e dal puro e semplice fatto di fare schifo, ma una scrittura coscienziosa che viene da sottoterra, dal tuo freddo obitorio privato, non ti assicura un agente, un editore, un bell’anticipo o un posticino nelle liste dei libri migliori dell’anno. Ecco un lungo elenco (ma ancora incompleto, forse) di tutte le altre condizioni necessarie: un talento enorme, la capacità di resistere alle pressioni, una pazienza infinita, una disciplina solida e almeno, forse più di tutto, un briciolo di fortuna. Come sono i vincitori del Whiting Award, edizione 2012? Sono promettenti e di talento, dal primo all’ultimo. Ma sappiamo che le possibilità di avere una carriera paragonabile a quella di Eugenides, anche solo per uno di loro, sono veramente poche. Dopotutto, è un business spietato; sì, business, perché quello è.

Quindi forse, in sostanza, Eugenides ci sta dicendo (o avrebbe dovuto dirci) che: vero, la scrittura è un business e, vero, si può fare carriera, ma pensarlo mentre si scrive è un errore fatale. A me questo pare un consiglio più che saggio, soprattutto per quanto riguarda la prima stesura. Musa, ispirazione, talento: possiamo chiamarlo in vari modi, resta comunque un qualcosa di fragile, fugace, che non si può mai davvero possedere. Devi scrivere come se fossi morto, altrimenti questa cosa mistica torna a nascondersi e tu rimani un povero dilettante smarrito.

Alla fine, Eugenides avrebbe dovuto aggiungere: il cosiddetto scrittore deve rivestire diversi ruoli: essere scrittore, lettore, editor, agente, imprenditore, promoter, ecc. E solo il primo deve operare dentro il suo cimitero privato. Ai due successivi spetta, per quanto strano, la responsabilità di comunicare – con pazienza, tatto e coraggio – con quella parte defunta dell’io. Gli altri tre devono scendere a patti con il mondo dei vivi. Per concludere, il compito dello scrittore che abbia una qualche ambizione in quel mondo (e cioè il nostro) è scrivere come se fosse morto e poi fare di tutto per portare ciò che ha scritto a più lettori possibili senza che, per assurdo, si inaridisca e perda la sua vita miracolosa.

© Todd Hasak-Lowy, 2013. Tutti i diritti riservati.

Todd Hasak-Lowy è autore della raccolta di racconti Non parliamo la stessa lingua e del romanzo Prigionieri (entrambi pubblicati in Italia da minimum fax). Il suo ultimo libro è il romanzo per bambini 33 Minutes. Vive a Evanston, Illinois, con la moglie e le due figlie.

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