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Andrés Neuman: racconti con una vocazione tragicomica

Silvina Friera Andrés Neuman, Autori, Interviste, SUR

Le cose che non facciamo di Andrés Neuman, tradotto per noi da Silvia Sichel, è una raccolta di racconti che oscillano tra il dolore e l’allegria. Pubblichiamo oggi un’intervista di Silvina Friera all’autore, fatta in occasione dell’uscita dell’edizione spagnola del libro, Hacerse el muerto. L’intervista è apparsa su Página/12, che ringraziamo.

di Silvina Friera
traduzione di Francesca Signorello

L’ambiguità del paradosso irrompe proprio nel momento critico, così schivo e marginale da risultare quasi impercettibile, in cui il tragico diventa comico. E viceversa.

«Un millimetro prima che il grilletto ceda, che il proiettile parta per la fonte del riposo, le mie risate invadono la stanza, rimbalzano contro i vetri, scorrazzano tra i mobili, buttano all’aria l’intera casa. Temo che le sentano anche i miei vicini, che oltretutto ne deducono che io sia un uomo felice», confessa un narratore. Questo attacco brutale di ridarella si ripete ogni volta che il suicida prova a caricare l’arma. «Dedicati all’umorismo, mi ha suggerito un amico quando gli ho raccontato il mio dramma. Ma io le battute, a parte quando mi sto suicidando, non le trovo per niente divertenti».

[…] Una sedia a rotelle vuota inaugura una singolare passeggiata di madre e figlio: «Come andiamo veloci, dobbiamo rifarlo. Sfrecciano le nostre ruote, che girino, che non frenino mai più. Tutto bene? Stai comoda? Decisamente, questa passeggiata è stata una grande idea. Sedia veloce, sedia di tempo, sedia vuota nel vento. Sedia riempita da qualcuno se vi si fosse seduto».

Il simulacro di una fucilazione, chiaro omaggio allo scrittore Daniel Moyano, è un altro dei racconti di Hacerse el muerto [in italiano Le cose che non facciamo, nella traduzione di Silvia Sichel ndr], l’ultimo libro di Andrés Neuman: una raccolta di racconti – oltre all’appendice in fondo alla raccolta – in cui la sperimentazione linguistica e formale sollecita la perplessità emotiva dei lettori. Tra le pagine, nella vita interiore di ogni testo, serpeggia la contraddizione di realtà vacillanti, che oscillano tra la visibilità e il mistero, tra la superficie e l’abisso. L’ottimo scrittore di racconti è colui che fa svolazzare con sapienza le stelle filanti del dolore e dell’allegria, della fragilità e della grandezza. O dell’infinito e del finito, come in un gioco macabro dell’eterno ritorno.

«È molto più urgente svegliare un lettore che metterlo k.o.», si legge nel «Terzo dodecalogo di uno scrittore di racconti», uno dei testi dell’appendice. «Il genere del racconto è stato vittima di una semplificazione spudorata, quanto meno nella teoria», dice Neuman nell’intervista a Página/12. «La realtà della scrittura di questo genere letterario è varia, ma per qualche ragione esiste una specie di pregiudizio, dovuto alla presunta immutabilità del racconto. Si dà per scontato che il romanzo sia proteico, un cassetto da sarto capace di assorbire tutto, perfino i conflitti sociologici e politici. Si dà per scontato anche che la poesia sia il livello massimo di investigazione sul linguaggio – e che per questo non sia soggetta ad alcun luogo comune – ma, quando si parla del genere letterario del racconto, tra il repertorio di adagi si sente ripetere che “il romanzo vince sempre ai punti, mentre il racconto deve vincere per knock-out”. Chissà in quale contesto lo disse o lo pensò Julio Cortázar. A ogni modo, io ho sempre trovato più interessante un’altra idea di Cortázar, citata meno spesso: “il racconto è una sorta di improvvisazione controllata”. Quest’affermazione mi pare meno riduttiva rispetto alla teoria del knock-out, che fa dipendere tutto il racconto dall’impatto finale. Sarebbe interessante ribaltare questa teoria e dimostrare che se la sorpresa anestetizza il lettore, l’epifania lo risveglia. Il finale di un racconto deve essere significativo, ma non per questo sensazionalistico. Un buon finale non deve contenere un impatto che finisce per stroncare il senso del racconto, e con esso il lettore, ma un mistero che schiuda un altro mistero. Il vantaggio del finale a sorpresa è che funziona molto bene a una prima lettura e, per ripetizione, nelle letture successive. L’altro finale, invece, quello che risveglia il lettore, è lo stesso che gli fa dire “Cosa?”, e lo spinge a rileggere tutto daccapo, trovando il racconto più interessante a ogni nuova lettura».

Silvina Friera: Il racconto breve gioca più con i limiti e può permettersi, forse, maggiori punti di rottura. Sperimentare, invece, diventa più complicato nel racconto lungo, non crede?

Andrés Neuman: Sì, ma si tratta di una complicazione molto fruttifera. La lunghezza non dovrebbe essere un problema, perché dopotutto esistono i romanzi sperimentali: il limite è nostro e ha a che vedere con il modo di leggere la tradizione del racconto. La sfida interessante è proprio questa: sondare il grado di flessibilità del racconto. C’è stata una sorta di restrizione piuttosto austera, come se tra il finale a sorpresa e l’iceberg di Hemingway ci fosse una sorta di meccanismo a orologeria, che da una parte è molto affascinante, ma dall’altra conduce inevitabilmente a una limitazione formale. Mi sembra interessante incrociare il racconto con altri generi letterari, per rompere almeno in parte questa specie di simmetria. A metà fra queste tradizioni c’è tutto quello che la poesia è capace di fare con la prosa. Ci sono due modi diversi di concepire la sperimentazione: il primo, come un atto di stravaganza che si studia all’università, ma che non ci dice nulla sulle emozioni umane, sulla natura dell’individuo o sui conflitti sociali. Se la sperimentazione è questo, una specie di calligramma o di enigma formale, allora non mi interessa affatto. Se invece per sperimentazione si intende la parziale rottura del pregiudizio formale di un certo genere letterario, o il tentativo di ampliare i confini della sua tradizione, allora sì che mi interessano i racconti sperimentali, purché producano una certa perturbazione emotiva. Insomma, secondo me, la sperimentazione formale serve a emozionare di più, non di meno.

Il silenzio si rompe con la stessa fretta con cui si era imposto. Non lascia traccia se non un lieve tremore sulle labbra di Neuman. Questi racconti sono raggruppati in finestre tematiche: ci sono racconti sulla morte, sulla madre, sui conflitti famigliari, sull’amore, un pugno di monologhi alquanto sinistri e racconti che parlano della letteratura stessa. «Quest’organizzazione non è solo tematica, ci sono parti molto tragiche e altre molto divertenti. Quella dedicata ai racconti d’amore è piuttosto allegra, mentre quella su mia madre è chiaramente triste o elegiaca. Poiché ho l’impressione che questo libro abbia una vocazione tragicomica, ho fatto in modo che le parti oscure fossero seguite da parti comiche, e che all’interno di ognuna di esse ci fosse un equilibro fra testi oscuri e testi più luminosi. C’è un’altalena emotiva, un linguaggio umorale, che è lo spazio in cui abita la maggior parte di noi esseri umani: un linguaggio che fluttua tra l’euforia e la tristezza. L’ordine dei racconti segue un po’ il principio che sta alla base delle montagne russe: non rimanere troppo a lungo in alto né troppo a lungo in basso. In questo modo, la struttura prende le sembianze di una corrente elettrica», chiarisce lo scrittore.

SF: Perché questo libro ha una vocazione tragicomica?

AN: Be’, a me sembra che ce l’abbia, ma forse mi sbaglio. «Passato per le armi» è concepito come uno scherzo macabro: l’obiettivo del plotone di esecuzione non è uccidere la vittima, ma umiliarla prendendosi gioco di lei. Così la sottopongono allo scherzo più umiliante e oltraggioso che ci possa essere: giocano a ucciderla. La mia idea della commedia non è affatto leggera. La commedia è un genere terribile che racconta fatti che sarebbero insopportabili se affrontati con serietà. Visto da questa angolazione, l’episodio non sembra affatto divertente, ma vuole esserlo dalla prospettiva degli esecutori, che si prendono gioco della vittima minacciando di ucciderla, e così facendo non fanno altro che inaugurare in lei una vita postuma, ferita per sempre. «Una sedia per qualcuno», il racconto su mia madre, racconta di un episodio profondamente intimo. Ma intimità e autobiografia sono due cose differenti. Questo racconto è intimo pur non essendo autobiografico, perché racconta di una passeggiata mai fatta, di un’esperienza che non sono mai riuscito a compiere insieme a mia madre. In generale, la nostra intimità di esseri umani prende forma da fatti che trascendono l’esperienza vissuta, fino a comprendere fantasie, desideri e paure. Mia madre era una donna molto indipendente, e ne andava orgogliosa. Una donna che aveva vissuto come una conquista il fatto di non aver avuto bisogno di chiedere aiuto a nessuno. Prendersi cura di una donna così militante nella propria autonomia è stato dolorosissimo, ma mi è servito per trarne una lezione preziosa. Giunta ormai alla fine della sua vita e della sua malattia, mia madre accettò che l’unico modo per camminare sarebbe stato su una sedia a rotelle. Quella che l’anno prima aveva definito la peggiore degradazione, ora era il suo desiderio. Quando riuscimmo a trovare la sedia, mia madre venne ricoverata per l’ultima volta e non uscì mai più da quell’ospedale. Ho riflettuto a lungo su cosa significasse quella sedia vuota, come le scarpe vuote di un altro racconto del libro, quel paio di scarpe che ha preso la forma dei piedi callosi di mio padre, che sono e non sono, allo stesso tempo, i suoi piedi. E ora che me ne faccio di questa sedia? Così decisi di scriverci un racconto, per usarla, e fare con mia madre quella passeggiata che non abbiamo mai potuto fare. Allora comincio a scrivere, e mi accorgo immediatamente che è una passeggiata allegra in cui io e mia madre scherziamo, lei mi prende in giro, mi contraddice e mi attacca. Così è venuto fuori un racconto spiritoso, ma con un inizio molto tragico. Da allora cominciai ad accorgermi che i racconti narrati da un punto di vista terrificante deviavano verso una specie di umorismo nero, mentre quelli più leggeri o divertenti si andavano tingendo di aspetti oscuri e sinistri.

SF: Il macabro e il comico si ritrovano anche in un altro tuo racconto, «Hacerse el muerto», vero?

AN: Sì, in «Hacerse el muerto» c’è una tensione fra questi due elementi. «Hacerse el muerto», cioè fare il morto, è un gioco, un avvicinamento ludico a ciò che di più indiscutibile, misterioso e doloroso esiste nella vita, cioè la morte. Come diceva Borges, la gente ha l’abitudine di morire. Da un lato, la morte non dovrebbe sorprenderci, eppure ci rifiutiamo ostinatamente di accettarla e di crederci, non è così? Morire? No, grazie… preferirei di no, direbbe Bartleby. Di fronte all’incredulità che le cose più ovvie suscitano in noi, abbiamo a disposizione varie strategie. Una è la finzione, l’altra è il gioco. Fare il morto, per esempio, è uno stratagemma che tanti bambini, per non parlare di tanti adulti infantili, me compreso, continuano ad adottare. A me diverte da matti fare il morto.

SF: Sul serio?

AN: Sì, e quando lo faccio mi emoziono tantissimo, mi sento postumo, è come se mi avessero dato un aumento. A mio padre piaceva fare il morto. Mi madre andava su tutte le furie, non lo sopportava proprio. Lui si sdravaccava sul divano, apriva la bocca e guardava il soffitto. Dal suo punto di vista, era un gioco macabro. Non so per quale ragione, ma io e mio padre ce la facevamo addosso dal ridere. Ci divertiva da matti. Io ho cominciato a farlo da bambino, senza capire bene cosa stessi facendo. Ora cerco di farlo esclusivamente quando sono da solo, perché a mia moglie dà parecchio sui nervi (ride).

SF: Gioca da solo a fare il morto? Senza testimoni?

AN: Sì, non importa. Sono io il testimone, ti sembra poco? Il primo testimone di un narratore è il narratore stesso. Quando schiaccio un pisolino, rimango un po’ in silenzio, guardo il soffitto, mi accorgo che sono rimasto completamente fermo e che lo sto facendo per me. Sono io il mio pubblico. Guardando il soffitto, penso: in questo preciso momento potrei essere morto, questo pisolino potrebbe essere l’ultimo… Quando ci penso, mi emoziono tantissimo perché quel momento è già postumo. E allora mi domando se quello che sto facendo è una cosa divertente o profondamente seria, se è un modo di negare la mortalità o, al contrario, un tentativo di comprenderla. È uno scherzo o un omaggio? È un rito o un divertimento? Di per sé, giocare a fare il morto è un gesto profondamente ambiguo. Non so se è un atto di accettazione o di negazione della morte.

SF: Perché, a volte, in alcuni suoi racconti, la risata scaturisce da una situazione drammatica per il narratore?

AN: Il motivo sta nella natura stessa dell’umorismo. Basti pensare alle commedie classiche, che si basavano essenzialmente su incidenti, ostacoli, scontri e disgrazie altrui. La commedia classica non è altro che la contemplazione compiaciuta della disgrazia altrui. In questo senso, la commedia ha uno sfondo tragico o addirittura crudele. Tutto il cinema classico, passato alla storia come educativo e perfettamente adatto ai minori, si fonda sulla tortura sistematica di un personaggio. Nella commedia classica, però, c’è anche una tensione nel tono. Se si pensa a Buster Keaton, che secondo me è l’emblema dell’umorismo, c’è un’enorme serietà in tutte le sue azioni. Buster Keaton cerca disperatamente di opporsi alla comicità delle proprie azioni con una solennità estrema, che a sua volta risulta molto comica. Lui era profondamente consapevole del fatto che mostrarsi al pubblico in modo divertente è ridondante e non fa per niente ridere. Così seguiva una sceneggiatura divertente ma la interpretava con enorme serietà. A suscitare la risata è proprio questa contraddizione, questa lotta interiore combattuta nello stile di Buster Keaton, che prova a contraddire una sceneggiatura divertente con un’interpretazione seria. Io condivido pienamente questa concezione della commedia, che apprezzo più del grottesco o dell’umorismo che cerca di sottolineare la comicità a tutti i costi. A me fa ridere ciò che è divertente suo malgrado. Forse è una forma di crudeltà, ma di per sé la crudeltà è problematica, e ciò che è problematico è più letterario di ciò che è rassicurante. Nella commedia sguaiata, invece, c’è un che di rassicurante perché lo spettatore capisce subito che ha il permesso di ridere, tutto qua. Con Buster Keaton, invece, lo spettatore si domanda sempre: Che faccio adesso, rido o lo compatisco? Faccio bene a ridere di questo pover uomo che cerca di mantenere un certo contegno, che vuole essere preso seriamente quando invece la realtà non fa altro che maltrattarlo?

 

Sull’anatomia dei sensi
I luoghi abbandonati del corpo fanno da spunto ad alcune poesie in prosa che sta scrivendo Andrés Neuman (Buenos Aires, 1977), figlio di musicisti argentini emigrati a Granada, in Spagna, negli anni Novanta. «Secondo me, il gomito è uno dei luoghi più bistrattati dalla tradizione poetica», sostiene l’autore delle raccolte di racconti El que espera e Alumbramiento. «Ma si potrebbe anche scrivere una rivendicazione del tallone screpolato o della palpebra cadente; provando a realizzare dei saggi quasi poetici, un trattato corporeo eterodosso con cui apprezzare meglio il linguaggio. Questi componimenti hanno un punto di vista ideologico forte, perché lo scopo è quello di rivendicare la bruttezza come valore sessuale e trasformare il corpo in un insieme di periferie. Il nostro sguardo è sempre rivolto nella stessa direzione, e questo vale anche per la politica. Credo che la raccolta si chiamerà Anatomia dei sensi. Di solito non parlo molto dei libri a cui sto lavorando, anzi, stavolta ho detto anche troppo. Nascondiamo subito il gomito. Si è vergognato e ha fatto tirar giù la manica. Il povero gomito non viene mai elogiato. Si potrebbe definire la classe oppressa dell’anatomia poetica. Proviamo invece a usarlo per fare una piccola rivoluzione sensuale», ironizza Neuman, che ha vinto il premio Alfaguara per il romanzo con Il viaggiatore del secolo.

Le storie non scritte
Andrés Neuman sta buttando giù delle idee per un romanzo da due anni, ma racconta che abbozzare l’inizio gli mette paura. «Non so se in tutti questi anni sono migliorato, l’unica cosa di cui sono certo è che sono riuscito a conoscere meglio i miei errori. Con il passare del tempo sono diventato più insicuro nello scrivere. Queste incertezze, però, sono un forte stimolo, perché spingono a prepararsi meglio quando si sta per abbozzare un libro. Ne sono sempre più convinto, nel senso che finiscono per contraddire l’idea iniziale. Questi dubbi producono cose interessanti, perché, da una parte, mi fanno cominciare il libro nel modo opposto a quello in cui me l’ero immaginato; dall’altra, mi inducono ad aspettare la prossima idea, come chi aspetta il prossimo autobus: “No, non è questo quello che…” Mi trovo proprio così, a metà tra il paralizzato e il pensieroso, e nel frattempo prendo appunti», spiega lo scrittore con la stessa tranquillità di chi è abituato a combattere i propri fantasmi.

SF: E le è mai capitato di prendere appunti per un romanzo che poi non ha scritto?

AN: Sì, mi è già capitato. In realtà, sono tredici o quattordici anni che prendo appunti per un romanzo sul maggio del Sessantotto, raccontato dal punto di vista di un esule. Ho la sensazione che non lo scriverò mai. Sono andato diverse volte in Francia con l’obiettivo di prendere appunti su un argomento preciso; in questa storia salta fuori un liutaio che mi fa pensare ai violini e alla parte legata a mia madre, che era una violinista. Per me, il violino è un oggetto quasi magico. Andavo ancora all’università quando cominciai a prendere questi appunti! Questa storia mi sa proprio che non la scriverò mai. I libri che non scriviamo fanno parte della nostra formazione, sono il lato Bartebly più misterioso della nostra bibliografia. Ma va bene lo stesso, non può emergere tutto. Anzi, il fatto che ci siano questi libri non scritti mi rallegra. La parte irraggiungibile della nostra scrittura serve a mantenere il tutto in equilibrio. A essere sincero, non so nemmeno se vorrei scriverli davvero, questi romanzi. Il fatto di non poter scrivere qualcosa insegna molto sul linguaggio. Il linguaggio non è un’entità dominabile, si lascia solo sfiorare o raschiare appena.

© Silvina Friera, Andrés Neuman, 2013 Tutti i diritti riservati.
La traduzione delle citazioni tratte dal volume
Le cose che non facciamo è di Silvia Sichel.

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