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Roberto Bolaño: letteratura e apocalisse 2/2

redazione Roberto Bolaño, SUR

Pubblichiamo la seconda parte di «Letteratura e apocalisse», saggio di Edmundo Paz Soldán che apre il volume «Bolaño selvaggio» (Senzapatria).

di Edmundo Paz Soldán

Ma ciò che all’inizio era una esplorazione del continente in un momento specifico, negli ultimi anni di Bolaño si generalizza al secolo XX, al mondo, alla condizione umana. In 2666, la città di Santa Teresa è un “cratere”, il buco nero del crimine multiplo senza soluzione. In un testo su Ossa nel deserto, del giornalista messicano Sergio González Rodríguez, al quale riconosce il suo aiuto “tecnico” e di indagine per la scrittura di 2666 (e che utilizza come un personaggio del romanzo), Bolaño scrive che il libro è “una metafora del Messico, del passato del Messico e dell’incerto futuro di tutta l’America Latina. Non è un libro nella tradizione dell’avventura, ma nella tradizione apocalittica, che sono le due uniche tradizioni che rimangono vive nel nostro continente, forse perché sono le uniche che ci avvicinano all’abisso che ci circonda”. Nel parlare del libro di González, Bolaño sembra che stia parlando del suo romanzo, con l’aggiunta che la metafora qui va molto più in là dell’America Latina. 2666 è l’avventura e l’apocalisse, disseminati in lungo e in largo per tutto il pianeta.

Il romanzo attraversa l’Europa, l’America Latina e gli Stati Uniti; copre quasi tutto il secolo XX, per andare a sfociare nel presente torbido di una città di frontiera in Messico. Bolaño utilizza il fatto macabro delle più di duecento donne morte negli ultimi anni a Ciudad Juárez – crimini ancora impuniti – non solo come simbolo della violenza nell’America Latina della post-dittatura, ma come metafora dell’orrore e del male nel secolo XX. Benno von Arcimboldi trova il suo destino di scrittore durante la seconda guerra mondiale, perché quel periodo storico è un altro di quei ‘crateri’ che sintetizzano tutto quello che c’è da sapere sull’orrore del secolo XX. Tanto la seconda guerra mondiale quanto le vittime di Ciudad Juárez/Santa Teresa sono legate a 2666 dal destino di un uomo che inizialmente, durante la guerra, diventa scrittore, e dopo, a Santa Teresa, si trasforma in uno scrittore scomparso che i critici cercano. Nel cammino che segna l’oscillazione tra il trovarsi e il perdersi della scrittura, si cifra il destino del XX secolo nella versione di Bolaño.

Nella quarta sezione del romanzo, La parte dei delitti, assistiamo a una litania di morti selvagge descritte con precisione clinica: “La morta fu ritrovata in un piccolo appezzamento di terreno abbandonato nel quartiere Las Flores. Indossava una camicetta bianca a maniche lunghe e gonna gialla al ginocchio, di una taglia più grande”, è il primo caso, successo nel 199; l’ultimo, trecentocinquanta pagine dopo, chiude il secolo:

L’ultimo caso del 1997 fu abbastanza simile al penultimo, solo che invece di trovare il sacco con il cadavere nell’estremo ovest della città questa volta lo ritrovarono all’estremo est (…). Il corpo era nudo, ma dentro il sacco venne trovato un paio di scarpe di cuoio a tacco alto, di buona qualità, per cui si pensò che potesse trattarsi di una puttana.

Sono diverse le spiegazioni che vengono date in questa sezione per contestualizzare le morti. Alcune sono relazionate al narcotraffico; altre, a sette sataniche; alle condizioni economiche poverissime di una città di maquilladoras, frutto dell’interscambio asimmetrico di beni e lavoro tra le società industrializzate dell’economia globale e le società in via di sviluppo; al fatto che alcune delle vittime sono prostitute; alla condizione di povertà di molta gente nella regione.

Le donne sono operaie nelle maquilladoras, ricevono “stipendi da fame” che “tuttavia erano ambiti dai disperati che arrivavano dal Querétaro o dallo Zacatecas o dall’Oaxaca”.

Un’altra spiegazione è la misoginia. In una scena chiave, i poliziotti che indagano sul caso vanno a fare colazione in una caffetteria, e nel frattempo si raccontano barzellette sadiche sulle donne: “In cosa somiglia una donna a una pallina da squash? Be’, piú forte la batti, piú velocemente ritorna da te”. Si scambiano anche proverbi, una conoscenza popolare che non si discute: “Le donne dalla cucina al letto e per la strada legnate (…) le donne sono come le leggi, sono fatte per essere violate”.

Il caffè dove i poliziotti si incontrano ha poche finestre e assomiglia a una bara. Mentre i poliziotti raccontano barzellette su quelle donne, sui cui assassinii devono indagare, mentre si burlano delle leggi che dicono di difendere, loro, suggerisce il narratore, stanno sfidando la morte con le loro risate, ma in fondo non fanno altro che chiudersi nella propria bara, trovare una specie di morte in vita. Il loro modo di concepire il mondo è la morte della società contemporanea; l’impossibilità di sottrarsi ai pregiudizi sessisti e razzisti ha una relazione diretta con l’impossibilità di risolvere i crimini. Fin quando ci saranno poliziotti come quelli che si radunano nel caffè “Trejo’s”, ci saranno donne assassinate, violentate, abusate nei deserti del mondo.

In La parte dei delitti un tedesco, Klaus Haas – del quale poi scopriremo le connessioni familiari con Arcimboldi – è arrestato e condotto in carcere come presunto responsabile dei crimini. La polizia, soddisfatta, è convinta di aver fatto la sua parte. Ma gli omicidi continuano. La sezione termina ammettendo che non ci sarà una soluzione possibile, per queste morti. L’ultima scena, del Natale del 1997, mostra una Santa Teresa dedita alla festa: “Si fecero posadas, si ruppero pentolacce, si bevvero tequila e birra. Anche nelle strade più umili si sentiva la gente ridere”. Ma questa Santa Teresa naïf racchiude, come nelle foto di Apocalisse a Solentiname, il suo nefasto rovescio: “Alcune di queste strade erano completamente buie, come buchi neri (…)”.Questi “buchi neri” sono la sconfitta della legge, della civiltà. Tutto il XX secolo sfocia lì.

In Autobiografie: Amis & Ellroy, uno dei suoi articoli raccolti in Tra parentesi, Roberto Bolaño scrisse che “il crimine sembra essere il simbolo del XX secolo”. In un’intervista, lo scrittore cileno dichiarò: “Nelle mie opere desidero sempre creare un intrigo poliziesco, in fondo non c’è niente di più gradevole che dare la caccia a un assassino o a una persona scomparsa. Introdurre alcune delle trame classiche del genere, i suoi quattro o cinque temi maggiori, è un’idea a cui non riesco a resistere, perché anche come lettore mi avvincono”. Si può leggere 2666 come un monumentale romanzo poliziesco, nel quale ci sono sia uno scomparso di cui si cercano le tracce – lo scrittore Arcimboldi – sia molteplici assassini.

Nel trattamento del genere poliziesco di Bolaño, si potrebbe pensare che le morti di Santa Teresa facciano parte di un assassinio multiplo, che si tratti, se si permette il gioco di parole, di un omicidio collettivo in serie. Qui, tuttavia, come in La morte e la bussola di Borges, il detective (il giornalista-scrittore Sergio González) e i cercatori (i critici ammiratori di Arcimboldi) sono sconfitti. O meglio: nel caso dei crimini, a differenza di Borges, non abbiamo neppure la possibilità di trovare un assassino vittorioso. La parte dei delitti termina com’è iniziata, con un crimine irrisolto, con un assassino o assassini nell’ombra. Come le morte, anche gli assassini sono ingoiati dal “buco nero” in cui si è trasformata Santa Teresa.

In Bolaño, oltre agli ammiccamenti al genere de I detective selvaggi e 2666, si può trovare, ne Il gaucho insostenibile, “Il poliziotto dei topi”, un racconto che riscrive un testo classico di Kafka, “Josefine la cantante”, nello schema del poliziesco. Il detective di Bolaño, Pepe el Tira, possiede alcune caratteristiche dettate dal genere: è un solitario, uno che si sente diverso dagli altri. Il suo metodo è quello di mantenersi ai margini del paese, dedicarsi al suo lavoro, tornare sul luogo del crimine tutte le volte che è possibile. Come ci si aspetta dal genere, almeno nella sua versione tradizionale, il poliziotto sostiene che la vita “deve tendere verso l’ordine, non il disordine”. Se l’ordine si spezza – o meglio, viene ‘travisato’ –, allora il lavoro del poliziotto sarà quello di tentare di recuperarlo.

Pepe el Tira è un topo che indaga sulla morte di altri topi. È opinione comune che i topi muoiano per mano di altre specie più forti – donnole, serpenti – perché “i topi non uccidono i topi”. Tuttavia, quando durante le indagini trova un piccolo di topo morto, Pepe el Tira giunge alla conclusione che quella morte non sia dovuta a un predatore affamato, giacché tutto sembra indicare che il piccolo sia stato ucciso per piacere. I topi sostengono che questo è impossibile, non c’è nessuno in paese capace di fare una cosa simile. Pepe el Tira, ciò nonostante, giunge a una inevitabile conclusione: “noi topi siamo capaci di uccidere altri topi”.

La pulsione criminale è un’anomalia di un topo individualista o fa parte della natura della specie? Sia come sia, la scoperta di Pepe el Tira arriva tardi, giacchè nel frattempo tutto è cambiato: questa pulsione è un veleno, un virus che ha infettato tutto il paese. Pepe el Tira ora sa che i topi sono “condannati a sparire, e questo significava che anche noi, come popolo, eravamo condannati a scomparire”. L’ordine non sarà restaurato.

In Bolaño non c’è nessuna nostalgia dei detective tradizionali del genere – questi ragionatori come Auguste Dupin e Sherlock Holmes, capaci di scoprire il criminale senza la necessità di far ricorso al crimine, utilizzando solo i loro poteri di deduzione –, ma continua ancora il fascino per le figure della legge. Queste figure, che servivano ad avere fiducia nella intelligibilità dell’universo e nell’autorità della ragione per eliminare il caos intorno a noi, esistono ora per dirci che la ragione è stata sconfitta, e per articolare una riflessione esistenzialista dove il mondo si rivela senza senso e la specie, alla maniera di Sisifo, “condannata fin dal principio” non retrocede, continua a lottare e cammina alla ricerca di “una felicità che in fondo sappiamo inesistente”.

In tale contesto, lo scrittore, figura sempre più emarginata nella società contemporanea, diventa essenziale in Bolaño, e la letteratura recupera la sua aura: lo scrittore è il testimone che deve essere capace di mantenere gli occhi aperti, e una scrittura di qualità richiede di saper “ficcare la testa nel pozzo”: la letteratura è fondamentalmente un mestiere pericoloso. Nelle interviste che rilasciò e nei suoi articoli, sono costanti i riferimenti al valore dello scrittore: “per accedere all’arte, la prima cosa necessaria, ancor prima del talento, è il valore”.

A furia di intervenire costantemente, nei suoi tanto agitati quanto brevi anni nella sfera pubblica, Bolaño riattivò nella letteratura l’immaginario dello scrittore come un romantico in costante lotta contro il mondo (“Bolaño è uno degli scrittori più romantici nel miglior senso della parola”, scrive Fresán in Il samurai romantico).

Nella scena primigenia di Bolaño, l’artista si trova nelle “intemperie”, come il suonatore di organetto de Il re borghese di Rubén Darío – non è casuale questa genealogia: come diceva Octavio Paz, “il modernismo è il nostro romanticismo”. Ma il giardino modernista del suonatore di organetto nel palazzo del re borghese è scomparso, e Bolaño lo sostituisce con un canyon, un precipizio, l’abisso. Lo scrittore, sul bordo dell’abisso, ha solo un’opzione, “gettarsi” in esso.

Come in Borges, la letteratura per Bolaño è una forma di conoscenza, la ricerca assoluta di Arturo Belano e Ulises Lima ne I detective selvaggi. Qui, tuttavia, non funziona più l’analogia dell’universo come una Biblioteca; si tratta di qualcosa di più viscerale, dello scrittore che intende l’arte come un’avventura vitalista, e in altre occasioni del narratore e del poeta come detective alla ricerca “dell’origine del male”, e proprio per questo condannati sin dal principio alla sconfitta.

In altre scene dello scrittore in azione, l’immaginario di Bolaño lega sempre l’arte con la violenza e la morte: “Parra scrive come se dovesse finire sulla sedia elettrica il giorno dopo”. Huidobro annoia perché è un “paracadutista che scende cantando come un tirolese. Sono migliori i paracadutisti che discendono avvolti nelle fiamme o, addirittura, quelli ai quali non si apre il paracadute”; “La letteratura è come quei posti dove mettono i capi di bestiame per ucciderli: quasi nessuno ne esce vivo”. Nella lotta, nello scontro con il “Mostro”, lo scrittore perderà, ma questo non dovrebbe spaventarlo: “Essere coraggiosi, ben sapendo che sarai sconfitto, e uscire a combattere: questo è la letteratura”.

In Bolaño c’è un modello di scrittore al quale si ispira, per esem pio, il Sensini che guadagna premi nei concorsi di provincia come un “cacciatore di scalpi”, e che è disposto a truffare mandando lo stesso racconto a diversi concorsi; Henry Simon Leprince, “cattivo scrittore” che a fatica si è ritagliato uno spazio grazie al suo coraggio – il Belano di Enrique Martín. Nel loro articolo “Un epitafio en el desierto”, Andrea Cobas Carral e Verónica Garibotto suggeriscono di leggere alcuni racconti di Chiamate telefoniche – Sensini , Un’avventura letteraria ed Enrique Martín – come le diverse opzioni dello scrittore di fronte al mercato e l’istituzione letteraria. In questo contesto, la scommessa di Bolaño sarebbe di fare come Sensini o Belano, “far parte dell’industria editoriale senza accettare del tutto le sue regole, civettare con essa, rompendo alcuni dei suoi codici”. Sono, diciamo, la versione contemporanea de “i marchingegni del debole”: siccome è impossibile affrontare un nemico potente e uscirne in piedi, la miglior cosa, allora, sarebbe, come strategia di sopravvivenza, dire contemporaneamente sì e no: far parte dell’industria culturale, ma cercare di sabotarla dal di dentro.

Ci sono pure degli antimodelli: lo scrittore che si adegua alle regole dell’industria culturale – che sembra cancellare ogni ricerca di autonomia, negli anni Novanta – e chi si lascia abbagliare dal potere. Nel primo caso, ci sono gli scrittori di Un’avventura letteraria e quelli che appaiono nell’episodio satirico de I detective selvaggi ambientato alla Fiera del libro di Madrid del 199. Nel secondo caso, si trova la maggior parte degli scrittori di La letteratura nazista in America, Ibacache in Notturno cileno, Wieder in Stella distante.

Nel racconto Incontro con Enrique Lihn, il narratore “Roberto Bolaño”, in un ambiente a metà strada tra la realtà e il sogno, parla della letteratura come di un “campo minato” nel quale la maggior parte degli scrittori sono cortigiani del potere, “hanno detto «sissignore», ripetutamente, (…) hanno adulato i mandarini della letteratura”. Nuovamente ritorna qui Il re borghese; il suonatore di organetto viene a cantare la ‘buona nuova dell’avvenire’, però si trasforma in un’altra delle tante possessioni del re borghese. L’artista, in Darío, ha aspirazioni da esaltato: si crede un visionario, un profeta. In Bolaño le aspirazioni sono più prosaiche: semplicemente, crearsi un posto nella corte. In entrambi i casi, tuttavia, il risultato è lo stesso: l’artista è disprezzato dal potere, che lo usa quando gli conviene.

In modo acido, Bolaño sostiene, ne I miti di Chtutlhu, che lo scrittore di oggi sembra più interessato al “successo, i soldi, la rispettabilità”. È stato divorato dall’ipermercato in cui la cultura contemporanea si è trasformata: vuole il trionfo sociale, grandi vendite, traduzioni, pezzi su riviste. Vuole “glamour”, lasciare “la casa piccola” di Lihn e arrivare alla casa “grande, smisurata” dello “scrittore del Terzo Mondo, dove il personale di servizio costa poco, e gli oggetti sono costosi e fragili”. A partire da questa critica, Bolaño mette mano, come indica Celina Manzoni, a un progetto ambizioso di “riformulazione del canone”.

Come ha suggerito la critica e scrittrice cilena Lina Meruane, la letteratura, in Bolaño, si deve intendere come una macchina da guerra testuale. Bisogna attaccare certi autori per rivendicarne altri (e en passant, nella riformulazione, proporsi come il nuovo paradigma del canone). Gli attacchi vengono sferrati in diversi spazi: all’interno del Cile, Isabel Allende, Luis Sepúlveda, Hernán Rivera Letelier, inclusi autori di prestigio come José Donoso e Diamela Eltit; si recupera l’avanguardista Juan Emar, si eleva Pedro Lemebel. Nella poesia ci sono ambiguità con Neruda – lo si rispetta con freddezza – ma il centro dell’universo di Bolaño è costituito da Parra ed Enrique Lihn.

Nel canone ispanoamericano si difendono autori già consacrati come Sergio Pitol, Fernando Vallejo, Ricardo Piglia; pure, naturalmente, Borges e Cortázar (la letteratura argentina occupa un posto centrale nella mappa di Bolaño, come dimostra in modo decisivo Gustavo Faverón nel suo articolo in questo libro). C’è un canone alternativo formato da Martin Adán, Rodolfo Wilcock, Osvaldo Lamborghini e Felisberto Hernández, tra i più marginali; Reinaldo Arenas, Ibargüengoitia, Manuel Puig, tra i conosciuti; Horacio Castellanos Moya, Carmen Boullosa, César Aira, Rodrigo Rey Rosa, Juan Villoro, Alan Pauls, tra gli scrittori della sua generazione. Nella poesia, i nomi centrali sono gli stridentisti messicani, Vallejo, Oquendo de Amat, Pablo de Rokha.

Inoltre bisogna dire che Bolaño intervenne anche nello spazio della letteratura spagnola, che vide come parte di un corpus indifferenziato con la letteratura ispanoamericana. Furono frequenti i suoi attacchi a Cela e Umbral, la difesa di Vila-Matas, Cercas, Marías, Tomeo, la sua ammirazione per Cernuda. Nella letteratura universale, i nomi sono legioni, ma ce ne sono alcuni che si ripetono costantemente: Catullo, Orazio, Stendhal, Mark Twain, Rimbaud, Perec, Kafka, Philip Dick.

Bolaño si presentò, sia nelle interviste che negli articoli e nelle sue narrazioni, come lo scrittore ribelle, anti-sistema. Ciò nonostante, c’erano contraddizioni nella sua posizione: dopotutto lo scrittore pubblicava con Anagrama, una delle case editrici più prestigiose della Spagna, e partecipava a concorsi e vinceva premi; alla fine della sua vita, aveva ottenuto un enorme riconoscimento simbolico, che significava buone critiche, buone vendite, traduzioni. Aveva acquisito una rispettabilità che rinnegava. Forse per questo nei suoi ultimi saggi il suo carattere di provocatore si era inasprito, finendo addirittura per attaccare scrittori come García Márquez e Vargas Llosa, dei quali in precedenza aveva detto che la loro opera era “gigantesca”, superiore a quella della sua generazione. Alcuni di questi attacchi non si devono prendere seriamente; in Bolaño molte volte c’era humour, il desiderio di conservare lo spirito contestatario degli infra-realisti, di seguire lo spirito di contraddizione di Nicanor Parra.

In altri casi si trattava di mantenere un necessario spazio di ribellione di fronte al riconoscimento. E in altri si dispiegava questa macchina da guerra per nulla innocente, disposta a continuare a distruggere opere incompatibili col progetto di Bolaño. C’era nello scrittore cileno un’intransigenza per niente trascurabile; tale intransigenza, al momento di accettare proposte estetiche differenti, era, nello stesso tempo, la sua grande virtù e la sua principale debolezza.

Bolaño era, a suo modo, uno scrittore impegnato con le cause politiche dell’America Latina: “tutto quello che ho scritto è una lettera d’amore o una lettera d’addio alla mia generazione, noi che siamo nati negli anni Cinquanta e che a un certo punto abbiamo scelto le armi (anche se in questo caso sarebbe più giusto parlare di “militanza”) e abbiamo dato il poco che avevamo, o la cosa più grande che avevamo, che era la nostra giovinezza, a una causa che credevamo la più generosa del mondo e che in un certo senso lo era, ma in realtà no (…)”. Per questo la sua scrittura non abbassò mai il livello di qualità, anche se non raggiunse mai l’ermetismo che preoccupava i lettori del Cortázar di Apocalisse a Solentiname. Nella sua opera si sviluppa una molteplicità di simboli e metafore complesse, della quale non abbiamo ancora sviscerato tutti i misteri, ma questo non impedisce una lettura divertente delle sue pagine, dovuta alla sua poderosa forza narrativa.

Lo scrittore non c’è più. Restano l’opera e la leggenda. Restano la letteratura e l’apocalisse.

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