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Albe e tramonti su orizzonti desolati: lo stato del western revisionista

Tobias Carroll BIGSUR

È il momento di tornare a parlare di letteratura western? Se ne occupa Tobias Carroll, in un articolo apparso originariamente su Electric Literature. Ringraziamo la rivista per l’autorizzazione a tradurre il testo.

di Tobias Carroll
traduzione di Fabio Zantomio

Siamo assistendo a una rinascita del romanzo western revisionista? Nel 2012 Arrivano i Sister di Patrick DeWitt si è guadagnato una discreta quantità di consensi, tra cui la vittoria nel torneo letterario del Morning News e un posto nella rosa finale del Man Booker Prize. Quest’anno, Haints Stay di Colin Winnette ha ricevuto recensioni entusiastiche; la storia surreale di due fratelli e della scia di violenza che si lasciano dietro di sé è incisiva ed efficace. Nel 2008 Rudolph Wurlitzer, non certo estraneo al western surreale e revisionista, ha pubblicato il suo primo romanzo da decenni, The Drop Edge of Yonder. E molti dei romanzi e dei racconti di Brian Evenson attingono a una fonte inesauribile di archetipi del western, trasferendoli in storie di ossessione, follia e isolamento.

Dev’essere lo spirito dei tempi, allora: i western revisionisti stanno vivendo il loro momento letterario. Soltanto che sono passati trent’anni dalla pubblicazione di Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, che ha un peso considerevole sulla nozione stessa di western revisionista. In altre parole: in questo momento uno scrittore nato il giorno in cui fu pubblicato Meridiano di sangue potrebbe benissimo esser chino sulla tastiera a lavorare sodo al suo fantastico western revisionista.

Anche se Meridiano di sangue occupa una posizione quasi divina in questo angolo di letteratura, di certo non è stato il primo a decostruire gli archetipi. Wurlitzer lo faceva già a fine anni Sessanta e inizio Settanta, con libri come Nog e Flats. E ancora prima, Warlock di Oakley Hall (1958) e Butcher’s Crossing di John Williams (1960) adottavano approcci meno sperimentali, ma già possedevano un’accorta consapevolezza di ciò che i lettori si aspettavano di preciso da un western, e facevano di tutto per sovvertire tali aspettative. In altre parole: i western revisionisti sono sulla scena da più di cinquant’anni. Quando, esattamente, i revisionisti canteranno vittoria?

Il romanzo del 1998 di Robert Coover Ghost Town è un indizio di dove può andare questa tendenza. Le frasi di apertura sono superbamente evocative e perfettamente consapevoli dell’immaginario con cui Coover sta per confrontarsi.

Orizzonte spoglio sotto un cielo di ghiaccio, deserto uniforme, macchie di salvia, piccoli arbusti, un colle piatto e isolato in lontananza, un cavaliere solitario. È una terra di sabbia, rocce aride, e cose morte. Terra di avvoltoi. E lui la sta attraversando.

Il protagonista everyman di Coover si ritrova in una città dove andrà a recitare vari ruoli, dal prototipo dell’uomo di legge a quello del fuorilegge. Non sorprende che si ritrovi anche sedotto da due donne che sembrano occupare ruoli analogamente eterogenei, la donna «buona» e quella «cattiva». Il romanzo continua così, ponendo il protagonista in una serie di tipiche situazioni in cui incontra criminali, normali cittadini e vicesceriffi, ognuno dei quali sembra un po’ più consapevole delle regole di base del genere di cui tutti sono attori.

Coover è consapevole del territorio narrativo a cui si richiama, ma lo è anche del fatto di scrivere per un pubblico che è consapevole dei luoghi comuni e degli espedienti del genere. È consapevole che i suoi lettori sanno cosa aspettarsi, e gli strizza l’occhio sorvolando su certi fatti. Una sezione si apre così: «Succedono un mucchio di cose e poi è di nuovo solo e abbandonato nel deserto…» Alcuni western revisionisti possono essere apprezzati anche da chi preferisce i western più tradizionali, ma Ghost Town fa più l’effetto di una parodia, un remix in cui il testo originale è virtualmente irriconoscibile. Nel corso del romanzo si trovano momenti di avventura, commedia e brutale violenza; il vice del protagonista in particolare subisce una sorte raccapricciante. Ma sono tutti messi al servizio di una parodia, come se tutti i trucchi e i topoi usati da centinaia di scrittori fossero messi a nudo, e poi riassemblati e messi in funzione per l’ultima volta, con tutti i componenti ben in vista.

Haints Stay di Colin Winnette produce una discreta quantità di attrito portando il genere in territori scomodi, pur senza mai diventare metanarrativo. Sulla carta, dovrebbe scorrere in modo non molto diverso da Arrivano i Sister: entrambi seguono le (dis)avventure di una coppia di fratelli che lavorano come sicari e si dedicano a vari atti di comportamento antieroico. Nel tono, tuttavia, sono estremamente diversi: il romanzo di DeWitt dà spazio a momenti di umorismo nero e autocoscienza; quello di Winnette è altrettanto avvincente, ma si ritrova su terreni inaspettati. Molto dipende da Brooke e Sugar – sia la loro dinamica attuale che la loro relazione col padre (mostrata tramite flashback), che va oltre il tipico concetto di «abuso da parte di un uomo violento» e lo spinge verso qualcosa di ancor più inquietante. È un tema che Winnette svela lentamente lungo il corso del libro; senza rivelare troppo, ci sono scene che fanno pensare a un western reimmaginato attraverso la lente trasgressiva di Dennis Cooper.

L’operazione di Winnette ha meno a che fare con il minare le convenzioni del western che con il portarle in direzioni inaspettate, inserendo personaggi non per forza compatibili con ciò che un lettore si aspetterebbe da un sicario in un western; in questo senso, è decisamente in armonia con il suo libro precedente, il romanzo breve Coyote, i cui personaggi, alle prese con una situazione letteraria familiare, portano la trama in una direzione radicalmente diversa. Ciò non significa però che Winnette sia al di sopra della critica al genere. Un riferimento ai «vini della casa» sembra volutamente anacronistico: anche se il romanzo sembra ambientato nel passato, non è mai del tutto chiaro in che periodo di preciso; si sentono qui echi del film di Alex Cox Walker, in cui elementi del presente sembrano essersi incastonati nella Storia. La sceneggiatura di Walker, bisogna ricordare, è scritta da un certo Rudolph Wurlitzer.

A volte l’esplorazione del genere da parte di Winnette assume un tono più filosofico. «A cosa servono i sicari in una città che già sta morendo?», chiede Sugar all’inizio del romanzo, e questo umore indagatore pervade buona parte di ciò che segue. Onirico nel tono fin dall’inizio, Haints Stay lo diventa sempre più avvicinandosi alla conclusione: vengono svelate identità nascoste; un senso di resa permea il romanzo a mano a mano che le nozioni di identità si confondono e svaniscono. E la parte finale del libro sposta le cose dall’ambito western a una deformazione ancora più profonda della letteratura americana, enfatizzando ancor più l’aspetto sovversivo mentre accenna nella direzione dell’iconica frase finale.

Questa è una mossa interessante da parte di Winnette: la pretesa di revisionismo di Haints Stay si estende oltre i confini di un genere e sembra voler pervadere un campo letterario più ampio. È una specie di ibridazione, un muoversi da un genere all’altro, o un atto di riabilitazione nei confronti di certe opere e stili. In ogni caso è un’intuizione affascinante, un tentativo di superare certe aspettative che i lettori potrebbero avere. E forse è un riconoscimento della natura ciclica dei western revisionisti: arrivano a ondate, mentre opere più tradizionali ambientate in paesaggi deserti e che narrano le frontiere del passato continuano a resistere.

Si potrebbe anche pensare che una certa corrente cinematografica dei primi anni Novanta abbia qui una certa influenza. In una manciata di anni i film Gli spietati e Balla coi lupi, ognuno dei quali faceva a pezzi certi archetipi del western, sono stati successi di pubblico e critica; meno popolari, ma non meno determinati a demolire le attese degli spettatori, sono stati Un mondo perfetto di Clint Eastwood e Posse di Mario Van Peebles. È stato un breve momento su cui molto si potrebbe scrivere, ma ha riecheggiato un momento culturale simile degli anni Settanta, quando film come I compari di Robert Altman, con il suo uso evocativo di canzoni di Leonard Cohen, si erano fatti strada nella mente di non pochi amanti del cinema. Forse ogni generazione sente il bisogno di demolire l’edificio del western, anche se a nessuno importa di ricostruirlo dall’ultima volta che è stato buttato giù.

Può darsi che sia questo ciclo a far sì che l’idea di western revisionista salti da un mezzo di espressione all’altro, esaurendosi in una forma e passando a un’altra. Si consideri «June 14, 1848» di Leigh Stein, probabilmente la migliore poesia che sia mai stata ispirata da un vecchio videogioco (nello specifico, Oregon Trail). L’ispirazione può trasportare l’ambientazione western in virtualmente qualsiasi mezzo di espressione; nelle mani di uno scrittore di talento, può produrre opere inquietanti e memorabili. L’opera revisionista più rara è forse quella che lavora sui livelli su cui lavorano rispettivamente Coover e Winnette: quello della struttura e quello della tradizione.

Difficile ma non impossibile. Si prenda ad esempio Sospetto di Percival Everett. È ambientato nel presente, ma il fatto che sia incentrato su un vicesceriffo del New Mexico lo colloca di diritto in ambito western. Ma ciò che rende questo libro – in teoria una raccolta di tre romanzi brevi – così straordinario è il modo in cui gioca a mosca cieca con le aspettative e gli archetipi. Ogden Walker, il protagonista, è descritto come una specie di sceriffo inflessibile, stanco di vivere e tormentato dal passato. E a poco a poco, tutte le aspettative del lettore su dove andrà questo personaggio vengono rovesciate. Tramite una prosa scrupolosamente precisa, Everett crea un mondo dove tutto quello su cui facciamo affidamento tende a venir meno. Alla fine del libro, ogni genere di fiducia riposta nella struttura del libro è crollata, e l’incertezza affrontata dal protagonista è rispecchiata dal vortice ossessivo e ululante che diventa l’esperienza della lettura. È sconcertante in modo superbo: un’opera che offre una storia familiare ma che rivela qualcosa di molto più atroce. Approcciarsi al western, si potrebbe dire, è come raschiare la vernice da una struttura conosciuta, per poi accorgersi che si è incavata ed è marcita. Puoi maledire il marciume o trasformarlo in qualcosa di stupefacente in quanto tale.

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