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L’una e l’altra, un estratto

Ali Smith Autori, BIGSUR

La prossima settimana esce per edizioni Beat Hotel world, il romanzo che ha fatto conoscere la scrittrice scozzese Ali Smith al pubblico italiano. Dell’autrice abbiamo parlato qui e qui in occasione dell’uscita di L’una e l’altra, di cui oggi di proponiamo un estratto. Buona lettura.

di Ali Smith
traduzione di Federica Aceto

Rifletti per un momento su questo dilemma morale, dice la madre di George a George che è seduta accanto a lei in macchina.

Non dice. Ha detto.

La madre di George è morta.

Quale dilemma morale?, dice George.

Il sedile del passeggero dell’auto a noleggio è in una posizione strana, perché sta sul lato in cui, nel loro paese, c’è il sedile del guidatore. Deve essere più o meno questo l’effetto che fa guidare, solo, vabbè, senza guidare veramente.

Allora. Tu sei un’artista, dice la madre.

Ah sì?, fa George. E da quando? Sarebbe un dilemma morale, questo?

Ah-ha, fa sua madre. Seguimi per un attimo. Prova a immaginare. Tu sei un’artista.

Questa conversazione si svolge lo scorso maggio, quando la madre di George è ancora viva, naturalmente. È morta a settembre. Adesso è gennaio, anzi, per la precisione è da poco passata la mezzanotte del primo dell’anno, il che vuol dire che è appena cominciato il primo anno dopo quello della morte della madre di George.

Il padre di George non c’è. Meglio così che quando è in casa, a piagnucolare in cucina oppure in giro per le stanze a spegnere e accendere interruttori. Henry dorme. George è appena andata a controllare. In effetti stava morendo di sonno, ma non morendo nel senso letterale, non nel senso di quando uno muore davvero, insomma.

Questo, dall’anno in cui è nata, sarà il primo anno in cui sua madre non è più viva. È una cosa talmente ovvia che è stupido anche solo pensarci, eppure è così terribile che non puoi non pensarci. L’una e l’altra cosa insieme.

Comunque, i primi minuti del nuovo anno George li sta passando a cercare il testo di una vecchia canzone. Let’s Twist Again. Testo di Kal Mann. Le parole fanno abbastanza schifo. Let’s twist again like we did last summer. Let’s twist again like we did last year. E poi c’è una rima veramente orrenda, una rima che, a voler essere precisi, non è neanche una rima.

Do you remember when

things were really hummin’.

Hummin’ non fa rima con summer, alla fine del verso non c’è un punto interrogativo, e cosa dovrebbe significare? Ti ricordi di quel tempo in cui tutto puzzava tantissimo? 

E poi continua Let’s twist again, twisting time is here. Oppure, come c’è scritto sui vari siti, twistin’ time.

Almeno ci hanno messo l’apostrofo, dice la George di quando sua madre non è ancora morta.

Non me ne frega un cazzo se un sito rispetta o no le regole ortografiche, dice la George di dopo la morte di sua madre.

Questa cosa del prima e del dopo è tipica dell’elaborazione del lutto, così continuano a dire tutti. Tutti continuano a dire che ci sono varie fasi. Quante siano queste fasi non è ben chiaro. C’è chi dice tre, chi cinque, chi addirittura sette.

È come se l’autore di questa canzone non avesse avuto voglia di perdere tempo dietro al testo. Forse anche l’autore della canzone stava attraversando una delle tre, cinque o sette fasi dell’elaborazione del lutto. Fase nove (o ventitré o centoventitré o all’infinito, perché non sarà mai più diverso da così): la fase in cui non te ne importa niente se le parole delle canzoni significano qualcosa o no. Anzi, è la fase in cui odi tutte le canzoni in genere.

Ma George deve trovare una canzone su cui si possa fare quel particolare ballo.

Il fatto che la canzone sia così palesemente contraddittoria e senza senso è indubbiamente un punto a suo favore. Proprio per questo ha venduto tante copie e ha riscosso tanto successo all’epoca. Alla gente piacciono le cose che non hanno senso.

D’accordo, sto immaginando la situazione, dice la George seduta in auto lo scorso maggio in Italia nell’istante esatto in cui la George a casa in Inghilterra il gennaio seguente contempla l’assenza di significato delle parole di una vecchia canzone. Fuori dal finestrino, l’Italia si srotola attorno e sopra a loro, così calda e gialla che dà l’impressione di essere stata sottoposta a sabbiatura. Henry è seduto dietro e russa piano; ha gli occhi chiusi, la bocca aperta. È talmente piccolo che la cintura di sicurezza gli passa sulla fronte.

Tu sei un’artista, dice la madre, e stai lavorando a un progetto con un sacco di altri artisti. E tutte le persone impegnate nel progetto ricevono la stessa cifra, come compenso. Però tu sei convinta che quello che stai facendo tu meriti un compenso più alto rispetto a quello che riceveranno tutte le persone coinvolte nel progetto, compresa te stessa. E così scrivi una lettera a chi ha commissionato il lavoro e gli chiedi di pagarti di più rispetto agli altri.

Valgo di più, allora?, dice George. Sono più brava degli altri artisti?

Ha importanza, questo?, chiede la madre. È questo che conta?

Sono io che valgo di più o è la mia opera?, dice George.

Bene. Va’ pure avanti, dice la madre.

È una cosa successa veramente?, chiede George. O è solo un’ipotesi?

Ha importanza?, dice la madre.

È una cosa per cui già esiste una risposta, e tu mi stai mettendo alla prova anche se hai già una tua opinione?, chiede George.

Può darsi, risponde la madre. Ma a me non interessa la mia opinione. Mi interessa la tua.

Di solito non ti interessano le mie opinioni, dice George.

Che sparata adolescenziale, George, dice la madre.

Ma io sono un’adolescente, dice George.

Be’, sì. Questo spiega tutto, allora, dice la madre.

C’è un breve silenzio, ancora sopportabile, ma se non cede un po’ e anche subito George sa che sua madre, che da settimane è particolarmente nervosa, imprevedibile e di cattivo umore per via di alcuni problemi in paradiso, vale a dire nella sua amicizia con quella tipa, Lisa Goliard, comincerà a diventare prima fredda e poi apertamente lunatica e scostante.

È una cosa del presente o del passato?, dice George. L’artista è maschio o femmina?

È uno di quei dettagli che conta?, le chiede la madre.

Che contano, dice George. La relativa è retta da dettagli.

Mea maxima, dice la madre.

Non capisco perché ti rifiuti di prendere posizione, sempre, dice George. E la frase che hai appena detto non significa quello che pensi tu. Se lo dici senza la parola culpa vuol dire io sono la più grande, o sono la migliore, o la più grande è mia, o la mia più grande.

Ma è così, dice la madre. Io sono la più grandissima. Ma la più grandissima cosa?

Passato o presente?, dice George. Maschio o femmina? Non può essere tutte e due le cose insieme. O è l’una o è l’altra.

E chi lo dice, questo? Perché deve essere per forza così?, ribatte la madre.

AUGH, dice George a voce troppo alta.

Piano, dice la madre indicando indietro con la testa. A meno che tu non voglia farlo svegliare, nel qual caso poi lo intrattieni tu.

Non. Posso. Rispondere. Al tuo. Quesito. Morale. Se. Non. Mi dai. Maggiori. Dettagli, dice George sottovoce.

La morale ha bisogno di dettagli?, le sussurra la madre.

Oddio, dice George.

La morale ha bisogno di Dio?, chiede la madre.

Parlare con te, dice George ancora sottovoce, è come parlare col muro.

Ah, brava, sai, sei proprio brava, dice la madre.

In che senso sono brava?, dice George.

Perché quest’opera, questo artista e questo dilemma hanno proprio a che fare con i muri, dice la madre. Ed è lì il punto dove ti voglio portare.

Sì, dice George. A dare testate a un muro.

© Ali Smith, 2014. Tutti i diritti riservati.  

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