Il boom: fu vera gloria?/5

Stefano Tedeschi SUR

Concludiamo con questa quinta “puntata” la pubblicazione del capitolo “Il boom: fu vera gloria?”, tratto dal volume All’inseguimento dell’ultima utopia. La letteratura ispanoamericana in Italia e la creazione del mito dell’America Latina del professor Stefano Tedeschi (Edizioni Nuova Cultura, 2005), che ringraziamo.
In quest’ultima parte si ripercorrono i giudizi dell’insigne ispanista Dario Puccini e del poeta e critico Mario Luzi sul fenomeno del boom.

Dunque una storia di pochi autori e di pochi editori (forse solo due veramente coinvolti, Feltrinelli ed Einaudi), con alcuni buoni successi e molti fallimenti, causati dalla fretta di rincorrere la moda, dallo scarso lavoro di cura dei testi, da una diffusa sottovalutazione di tipo culturale rispetto a quel mondo, e nonostante tutto il pubblico italiano riesce a costruirsi un’immagine di quel continente, un’idea che sembra venire offuscata dalla crisi della seconda metà degli anni settanta, ma che in realtà ha messo radici ben solide, come si vedrà poi nella tumultuosa ripresa di interesse degli anni ottanta e novanta. Il boom allora non fu probabilmente dal punto di vista della critica letteraria una gran fortuna, ma per l’immaginario collettivo funzionò benissimo, e non è possibile negarlo.

Già in quegli stessi anni d’altra parte se ne riconoscevano pregi e limiti: oltre a registrare le novità editoriali e a moltiplicare il numero delle recensioni, sulla stampa ci si interrogava anche sulle ragioni profonde del fenomeno e si chiamavano in causa gli stessi protagonisti, chiamati a spiegare il perché di un boom. Le ragioni proposte oscillavano tra quelle specificatamente letterarie, quelle generazionali ed altre legate alla situazione politica, in cui veniva esaltato il ruolo della Rivoluzione cubana. I due critici che ci hanno accompagnato nella rivisitazione di quegli anni non potevano certo sottrarsi a quella domanda, e le loro riflessioni segnano un punto cruciale nella riflessione italiana sulla relazione che si viene ad instaurare con la letteratura ispanoamericana.

Puccini, in Paese Sera Libri, inizia lamentando l’isolamento in cui si vuole rinchiudere quegli autori (“non possiamo non considerare con una certa perplessità, dal punto di vista culturale, una siffatta iniziativa, poiché ci sembra fondamentale anzi indispensabile inserire la narrativa dei paesi del centro e del sud America nella comune corrente della narrativa mondiale e non isolarla. Per troppo tempo, infatti, è durato tale isolamento, vuoi per generica ignoranza di quelle letterature, vuoi per trascuraggine dei critici…”), ma nei suoi numerosissimi interventi non azzarda mai una spiegazione globale, rimanendo anzi sempre fermamente convinto che ogni autore, si direbbe quasi ogni libro, portasse in sé le proprie diverse ragioni, e a quelle ci si dovesse sempre riferire. Se qua e là sembra emergere la sottolineatura di un legame privilegiato con la realtà sociale concreta di provenienza, tale idea non si impone mai con caratteri totalizzanti, e rimane una semplice notazione critica, peraltro limitata ad alcuni autori e ad alcuni testi.

Mario Luzi, sul Corriere della Sera, cerca invece di fornire ai suoi lettori qualche motivazione più generale, e dalle sue pagine viene fuori alla fine anche la percezione dei rischi insiti nell’esplosione del boom. Una prima sintesi la si ritrova già nel 1969, e gli elementi qui riassunti erano già stati proposti in maniera dispersa in altri articoli:

Forse l’ho già scritto, ma è bene ribattere che non si tratta di un fuoco d’artificio editoriale: la letteratura del continente si trova davvero in un periodo di manifesto rigoglio. Non tento neppure di spiegarne il perché, sapendo quanto il rapporto di causa ed effetto sia aleatorio se applicato a questo argomento. E vero che il forte di alcuni tipi di critica – non più soltanto dello storicismo – è appunto di fornire quelle spiegazioni; ma il fenomeno ricorrente delle stagioni creative rimane, tutto sommato, inesplicabile e perentorio. Mi limito così ad osservare che la letteratura latino-americana usufruisce di una condizione unica (non in tutto invidiabile, certo, ma indubbiamente vitale) determinata soprattutto dal coesistere di questi fattori: l’aprirsi e l’insorgere della coscienza alla tragedia sociale e politica del continente, la scoperta simultanea della realtà e del mito autoctoni, il trapianto vigoroso di tecniche artistiche europee e nordamericane. Per ultimo il più prezioso: l’integrità non corrosa dei sentimenti dell’uomo. Non mancano come si vede alimenti efficaci per la fertilità e la salute; e sono di una qualità che esercita una intensa attrattiva sulla stanchezza europea.

Un tale rigoglio creativo porta con sé elementi potenzialmente sovversivi per la “stanca” Europa, e si affaccia in quello stesso anno un termine che tornerà poi con frequenza negli interventi di Luzi:

Ora che l’Europa viene sempre più spesso in contatto con culture diverse, si trova continuamente sbalzata fuori dal suo sistema, sollecitata a uscire dall’ordine in cui sono maturati i suoi pensieri. Lo spaesamento che ne deriva dipende in primo luogo dalla modificazione di un fattore essenziale che è come la chiave di volta della nostra maniera di concepimento: e cioè il rapporto di spazio e di tempo. Qui sta dopo tutto la sostanza dell’esotismo, anche se la parola rimanda prevalentemente agli screditati accessori del costume tipico e del colore.

Se per esotismo intendiamo quel che si è detto, la pur rinnovata letteratura latino-americana (che certo non gioca con il folclore) non manca di stimolarlo: e non sarebbe dunque una sorpresa se si scoprisse che, nell’interesse da essa suscitato c’è oltre al resto una profonda componente esotica. Mi sembrerebbe anzi cosa del tutto naturale e legittima perfino nel caso di uno scrittore capace di trasfigurazione e di autonomia creativa com’è Gabriel García Márquez.

Quando poi, in un lavoro del 1973 Luzi disegna la peculiarità di una relazione tra due realtà culturali differenti e ben separate tra loro, giunge a individuare i rischi latenti nell’operazione del boom:

Intorno alla metà degli anni Sessanta il lettore europeo è stato colto di sorpresa dalla salutare invadenza della letteratura latino-americana, sostenuta con fortunata sincronia dalla vitalità sua propria e dall’avidità, in questo caso intelligente, della nostra industria editoriale. In questo modo egli è stato messo press’a poco come uno spettatore di prima fila nella condizione di assistere da vicino alle fasi incalzanti dello spettacolo mentre insieme a numerosi eventi immediati si producevano straordinarie riesumazioni.

Un mondo la cui attività era fino allora insospettata si rivelava e la rivelazione veniva ricevuta nell’unica forma a cui la mentalità del tempo era abituata, quella del boom: una parola che se indica sempre le stesse modalità ha sempre lo stesso contenuto. In questo caso si poteva attribuirgliene uno a colpo sicuro, anzi due concorrenti, cioè la sortita in forze, al momento dovuto, di capacità latenti e non divulgate e la disponibilità illimitata da parte del nostro continente a prestare l’attenzione e l’accoglienza desiderabili. Nulla del resto nella inventiva europea era tanto elettrizzante da opporsi a quella apertura come una polarità contraria, visto che la letteratura e le arti di qua dall’Atlantico si arrangiavano per lo più con i loro sofismi.

Il modo della rivelazione ha dato luogo a taluni inconvenienti, il primo dei quali è senza dubbio una certa deformazione concettuale a proposito dell’oggetto in sé e cioè della letteratura latino-americana come tale. L’aggettivo è andato oltre il lecito, arrogandosi un potere di definizione arbitraria quasi si trattasse di afferrare una sostanza omogenea e perciò separata, un prodotto tipico insomma e senza relazioni di continuità e di interdipendenza con nessun altro. Non è cosa nuova, è anzi l’effetto ovvio di simili operazioni-urto alle quali congiurano parecchi elementi, se è vero che al rigoglio reale dei frutti e alla regia che ne dispone abilmente rispondono varie forme di curiosità e di aspettativa non escluse le spurie, come l’esotismo.

Qui l’esotismo non è più un connotato positivo, ma rappresenta anzi l’incapacità di apprezzare con uno sguardo libero da pregiudizi quella realtà, nelle sue forme letterarie e non, e di coglierne con pienezza quello che Luzi definisce il “messaggio”. Solo che Luzi rischia anche lui di farsi coinvolgere da quel vortice quando, nella conclusione dello stesso articolo, cerca di riassumere “le forme che ci colpiscono”, proponendo una prima formulazione di un atlante di miti latinoamericani destinati a lunga fortuna:

Chiedersi qual è il messaggio di una letteratura è un arbitrio forse automatico quando la si riceve come rivelazione in blocco favorita ugualmente dalla distanza e dall’imprevisto. Non manca il sottinteso dell’esotismo in una domanda del genere: è comunque una delle forme che l’esotismo può assumere – sotto varie spoglie scientifiche o quasi, il nostro tempo ne è pieno. Si potrebbe a ogni buon conto rispondere in molti modi, sostanziando di contenuti le forme che ci colpiscono. L’innocenza e l’elementarità dei moti, la corruzione degli ambienti e dei nessi sociali, la religione e l’ipocrisia religiosa, la volontà di riscatto o di redenzione, il sogno e la frustrazione, l’onnipotenza della natura e la minima, nevrotica contorsione della storia e in definitiva la grande solitudine dell’uomo: tutto questo potrebbe, certo, essere evocato come un repertorio che la condizione latino-americana riverbera potentemente sul mondo contemporaneo. Ma abbiamo già detto che lo scrittore latino-americano è legato a codesta condizione di un rapporto vario e complesso. La letteratura dell’America Latina non è «primitiva», ma superadulta per avere macinato e assimilato tutti i frutti dell’esperienza e della sottigliezza prodotti da parecchie tradizioni. Investendo la sostanza caotica e immobile, ingenua e putrescente del mondo che la promuove essa spiega tutta la lucidità, l’ampiezza e la freschezza d’invenzione che occorrono per non tradirla e per scavarla in profondo, ma nello stesso tempo mostra una coscienza esperta della situazione dell’uomo illuso e sconfitto dagli inganni della storia e dai suoi propri limiti in ogni stagione, a ogni latitudine. Per quanto radicato in una realtà ben definita dal luogo e dal tempo, il suo linguaggio non è un idioma. E se proprio vogliamo tornare al suo possibile messaggio, questo è il messaggio di una letteratura in atto-non progettuale, non congetturale o ipotetica. Di una letteratura tout-court.

La volontà di distinguere e di interpretare del critico viene allora messa in scacco quando quella realtà di riferimento viene equiparata alla sua rappresentazione, quando un continente intero viene ridotto a una “sostanza caotica e immobile, ingenua e putrescente”, come se i romanzi del boom fossero davvero, e di nuovo, solo una descrizione realistica e non una interpretazione simbolica, da leggere e da capire con strumenti che superino una semplice sociologia di maniera.

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