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«La parete»: un racconto di Ricardo Piglia

Ricardo Piglia Autori, Racconti, Ricardo Piglia, SUR

Con dolore abbiamo appreso il 6 gennaio scorso la notizia della morte di Ricardo Piglia, scomparso a Buenos Aires all’età di settantacinque anni. Piglia lascia un grande vuoto nel mondo delle lettere: per ricordarlo, pubblichiamo oggi il suo racconto «La parete», tratto dalla raccolta L’invasione.

«La parete»
di Ricardo Piglia
traduzione di Enrico Leon

Hanno finito una settimana fa, più o meno. Stamattina uno dei vecchi ha scavato una specie di buco tra due mattoni, ma non è riuscito a vedere dall’altra parte. Ha grattato con il dito e poi con un ramo che aveva tagliato dal salice; fuori il cemento si è seccato, sembra, perché è rimasto mezz’ora a provare e riprovare, senza successo.

Poter vedere la strada è una gran cosa. La gente attraversa facendo gesti e ride e a volte saluta qualcuno e ogni tanto passano camion e autobus e una volta passò un fantino a cavallo di un sauro che era un incanto. In vita mia ho visto tanti fantini, ma mai nessuno come quello: con la giubba colorata e il berretto, in piedi sulle staffe corte, piegato su di un purosangue che attraversò la strada al trotto, come se fosse il riscaldamento prima della partenza. Non c’è nessun ippodromo da queste parti e nella zona di Turdera si facevano delle gare, ma anni fa, e in ogni caso un cavallo così, impossibile vederlo per strada, sull’asfalto. Che ci faceva il fantino da queste parti non l’ho mai saputo. Cavalcava tranquillo, al trotto, e quando mi vide mi sorrise, come se mi conoscesse, e mi disse qualcosa che non capii. Non mi ricordo se ero da solo e non mi ricordo nemmeno da dove spuntò fuori il cavallo. Subito dopo passò un camion pubblicitario, con gli altoparlanti sul tettuccio, forse il cavallo era una maniera di fare pubblicità, ma non lo so. Penso al fantino, piccolo come un bambino, a quanto fosse stato modificato il camion, che era stato un Ford 28, con una specie di torretta e un cartellone che reclamizzava un’offerta. Penso a questo e agli occhi del cavallo che guardava avanti, spaventato e come perso tra la gente.

Ma a volte mi viene da pensare che il fantino non è mai passato e che me lo sono sognato, come ogni due per tre sogno di guidare di nuovo la 239, una motrice nuova che ora sarà tutta arrugginita, sotterrata in qualche capannone a Escalada, vai a sapere.

Quello che voglio dire è che qui, seduto, a guardare la gente che passa o i camion o il vento che smuove le carte, il giorno scorre in fretta; quando vuoi ricordare, è già sera e non c’è più tempo per pensare a niente. Perché è questa la cosa migliore, dico io: non pensare, vedere quello che succede e nient’altro.

Fino a quando c’era la siepe di ligustro, le persone, i camion, e perfino il fantino se fosse passato in quel momento, erano tutte ombre, nient’altro che ombre, e ci si annoiava a guardarli, sempre uguali. Per riuscire a vedere qualcosa bisognava piazzarsi lì, chinarsi un po’ e osservare attraverso i rami un pezzo di strada della grandezza di una mattonella. E poi, nessuno resisteva per molto tempo fermo, con il viso graffiato dai rami e il dolore alla cintola.

Fino a quando arrivarono i muratori e si misero a tagliare la siepe. Non ci potevo credere: qui non fanno mai quello di cui c’è bisogno. I muratori scavarono una buca attorno alla recinzione, una specie di fossato che circondava tutto l’Ospizio. Poi la siepe venne giù e apparve la strada: si riusciva a vedere quasi mezzo isolato. Dall’angolo fino alla metà di una casa verde, di due piani, con una specie di giardino, due metri per uno a dir tanto, con un pino che pare che la casa ce l’hanno costruita attorno.

In quella casa vive un tipo che deve fare un lavoro strano. Esce quasi di notte, a quest’ora più o meno, e l’ho visto tornare di mattina. L’ho visto, due o tre volte, intorno alle sei, quando mi alzo prima che suoni la campanella. Perché io non riesco a rimanere a letto quando sono già sveglio; preferisco alzarmi anche se manca ancora un’ora alla campanella, e i corridoi e il cortile sono vuoti e oscuri. Gli altri litigano per restare coricati ancora un po’, come i bambini. Fanno finta di dormire e si lamentano ogni volta che li chiamano. Io per più di trent’anni mi sono alzato alle quattro per poter arrivare a Escalada prima delle sei. E se ti alzi tutti i giorni alla stessa ora ti abitui e non riesci a dormire di più, per quanto ti giri e rigiri nel letto. Per questo quando mi sveglio ci metto un po’ a capire dove mi trovo, e a volte mi sembra che devo alzarmi e uscire di corsa per prendere il treno delle 4.40, mentre i ragazzi sono già nella bottega a bere mate e le caldaie si scaldano. A volte sento il rumore delle macchine e una volta è venuto l’inglese e mi ha detto che potevo continuare a lavorare; allora io ho ricominciato con la 239, dai e dai, come se non l’avessi sfasciata del tutto addosso a quel treno carico di porcheria, nel quarantadue.

Eppure, questo mi sembra di averlo sognato. Come la storia del fantino.

Però ora che ci penso, stavo raccontando dei muratori. Lavoravano senza sosta fino a quando si faceva buio. E sembrava che non dovessero finire mai.

Io rimanevo fermo accanto alla recinzione, a parlare. Perché, a volte, si sente come il bisogno di parlare e con questi vecchi non ci si riesce. Passano tutto il giorno calmi, immobili, mezzo addormentati, a cercare il sole e parlano sempre delle stesse cose. Per questo passavo i pomeriggi a chiacchierare con i muratori; gli spiegavo come funzionava una 239, una 442. Gli raccontavo cosa si prova a stare sopra a una motrice che corre a manetta, dai e dai, con la caldaia che fa scintille, così piena di carbone che sembra che i vagoni da un momento all’altro escano dalle rotaie per mettersi a sfrecciare in mezzo ai campi. Un pomeriggio gli raccontai dell’incidente con la 239, del treno merci e di tutto il casino con gli inglesi, quando iniziarono a dire che ci vedevo male, che non avevo visto i segnali, che questo e che quest’altro, e alla fine mi fecero andare in pensione. I muratori ridevano come se gli stessi raccontando una barzelletta e continuavano a lavorare e a gridare cose alle donne. Anch’io dicevo cose alle ragazze che attraversavano la strada con le gonnelline al ginocchio e la camicetta attillata. Le guardavo, dicevo «che bella» per farmi ascoltare dai muratori, ma in realtà non sentivo niente.

Per farla breve, alla fine se ne sono andati e io sono rimasto senza nessuno con cui parlare. Solo come una mummia, a guardare i vecchi che passano il tempo girando per il cortile, come se non sapessero dove andare. Fatto sta che qui si sta meglio che in casa di mio figlio. Qui si può restare seduti quanto si vuole, dalla mattina alla sera, senza nessuno che ti gira attorno, che borbotta e che ti sposta da una parte all’altra come se fossi un mobile. È per questo che sono venuto qui. A me nessuno la manda a dire, e mio figlio è un pappamolle e la moglie di mio figlio è un’arpia. Per questo ho preso le mie cose, le ho messe nel portabagagli e sono venuto qui, all’Ospizio. Ho suonato il campanello. La siepe di ligustro c’era ancora: «Mio figlio è partito per un viaggio, vorrei restare qui per un periodo», iniziai a spiegare al tizio che mi ricevette, che però sembrava sordo e non faceva altro che gesti con la mano e una volta dentro dovetti ripetere le stesse cose all’addetto, che stava bevendo il mate. Un periodo, non come questi qui, che rimarranno fino a che non muoiono. Io voglio solo camminare un po’ meglio e che le mani smettano di tremarmi, per poter trovare un lavoretto. Che ne so, qualsiasi cosa. Sarebbe bello mettere su un chiosco. Un chiosco di lamiera, a un angolo della strada, dipinto di giallo…

Per tutti questi motivi, guardare la strada mi aiutava molto. Tra che guardi una cosa e l’altra, tra che osservi gli autobus e la gente, quando meno te l’aspetti passano i ragazzini della scuola facendo baccano e suonano le campane della chiesa che quasi non si sentono mischiate al rumore della strada. Per questo mi dà fastidio quello che hanno fatto. Soprattutto tardi, di notte, quando sono da solo nell’oscurità e ho la testa vuota perché per tutto il santo giorno non è successo nulla. Allora mi viene paura di dormire. Me ne sto fermo, fermo, con gli occhi aperti e ascolto i vecchi che respirano e si lamentano e a volte si sente un treno in lontananza e non voglio chiudere gli occhi perché se mi addormento non mi sveglio più…

È di questo che ho paura adesso, più di tutto. Prima, certe volte, mi ricordavo della curva e della sagoma nera del treno merci che ci veniva addosso, mi ricordavo dell’incidente e mi svegliavo tutto sudato. Allora mi mettevo a pensare a ciò che avevo visto durante il giorno, mi ricordavo di tutte le cose, una per una, ed era come rivederle in quel momento, fino a quando all’improvviso, senza rendermene conto, mi addormentavo. Ma ora non ho niente a cui pensare e dev’essere per questo che ogni tanto mi si presenta la vecchia tutta vestita di verde, identica al giorno in cui l’ho conosciuta. Mi ricordo di tutti i particolari che fanno ridere: aveva un nastro nei capelli che si era un po’ sciolto e le pendeva da un lato e per tutta la sera fui sul punto di dirle: «Ti si è disfatto lo chignon», ma non ne ebbi il coraggio. Di sicuro, se fosse ancora viva, risponderebbe di no, che era un altro giorno o che era un cappello e non uno chignon o qualsiasi altra trovata, pur di contraddirmi. Perché era una bastian contraria nata. Sicuramente, se fosse qui e le raccontassi che mi torna in mente sempre più spesso, non mi crederebbe. Ma è così. Ora, da quando se ne sono andati i muratori, mi ricordo sempre più spesso della vecchia e di tutte le cose che ho fatto prima. Dev’essere perché qui dentro non succede niente e quindi non c’è niente da fare. All’inizio, mal che andasse, se mi mettevo in punta di piedi riuscivo a vedere il tettuccio degli autobus e i cornicioni delle case, però una mattina attraversai il cortile, mi sedetti qui come tutti gli altri giorni e quando li vidi sistemare l’ultima fila di mattoni mi sembrò tutta una presa in giro, come se stessero per buttar giù tutto e mi dicessero: «Vede, vecchio, che era uno scherzo…» Invece finirono di stendere l’intonaco, pulirono fino all’ultima macchia rimasta per terra, raccolsero gli attrezzi e se ne andarono. A quel punto iniziai a ricordare tutto quanto, il pomeriggio in cui cominciai a lavorare alle ferrovie, il giorno in cui mi sposai e pioveva che Dio la mandava e la vecchia che per saltare le pozzanghere si alzava la gonna con una mano e con l’altra si reggeva il cappello, un cappello nero con le piume, che faceva ridere. E non mi piace. Non mi piace perché è come se non restasse nient’altro da fare che pensare alle cose fatte in passato. Non restasse nient’altro da fare che rimanere qui seduto, su questa panchina, fermo come una mummia, senza nulla attorno che si muova, se non le foglie degli alberi in alto quando c’è vento e i vecchi che girano da una parte all’altra, in cerca del sole. Passare i giorni senza fare niente, guardando la parete che conosco ormai a memoria, il buco tra i mattoni, tutte le fessurine e quella linea che sale lì tutta storta e sembra un binario visto da molto lontano, quando si sta ininterrottamente sulla motrice e i due binari si congiungono e sembrano essere uno solo, una lunga riga che sale e sale, tutta storta…

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