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Guillermo Fernández: antologia in memoriam

redazione SUR

a cura di Stefano Strazzabosco

Il poeta e traduttore Guillermo Fernández (1932-2012) è stato ammazzato da ignoti nella sua casa di Toluca, nello Stato del Messico. Secondo le notizie raccolte finora, Guillermo, che viveva da solo, è stato trovato morto la mattina del 31 marzo dai suoi vicini. Nella notte tra il 30 e il 31 marzo, dopo il consueto venerdì sera di festa con gli amici, il o i suoi assassini gli hanno legato mani e piedi col filo elettrico, gli hanno chiuso la bocca col nastro adesivo e l’hanno finito con un colpo alla nuca. Le autorità messicane, che scartano il movente del furto andato male (Guillermo non era ricco, e non sono stati portati via né computer né altri oggetti di qualche interesse), assicurano che stanno indagando sul caso.

Guillermo Fernández era nato a Guadalajara, nello Stato di Jalisco (Messico), il 2 ottobre 1932, ed ha vissuto principalmente a Città del Messico e a Toluca, la capitale dello Stato del Messico (il Messico è uno Stato federale e lo Stato del Messico non è il Messico). A Toluca ha passato gli ultimi vent’anni della sua vita, appartato dall’accademia e dal mondo culturale messicano, ma molto stimato da chi lo conosceva e altrettanto attivo sia nel lavoro di traduzione, sia nell’insegnamento. A Toluca, infatti, teneva regolarmente due seminari – uno di traduzione, l’altro di poesia – frequentati da numerosi partecipanti, soprattutto giovani. Molto spesso i seminari si prolungavano a casa del maestro, e parecchi dei suoi alunni erano divenuti, col tempo, suoi amici.

Arrivare a casa di Guillermo significava rendersi disponibili a viaggiare con lui in un poliedrico mondo di avventure letterarie e musicali: si discuteva di metrica, di etimi, di lingua popolare, di tecnicismi; si ascoltavano Mahler e Jordi Savall; si improvvisavano versi sui fatti del giorno o sui personaggi più noti; si chiacchierava di poesia italiana e universale, e naturalmente non si dormiva ma si passavano le notti a parlare, a ridere, a bere (moltissimo) e a mangiare (il minimo indispensabile). Si usciva all’alba frastornati e felici, sotto il Nevado di Toluca ancora tenue e azzurro come un ricordo o un bel presentimento.

Guillermo è stato il principe dei traduttori dall’italiano, tanto che nel ’97, per la quantità e la qualità del suo lavoro, ha ricevuto un’onorificenza al merito e il titolo di Cavaliere della Repubblica Italiana. La cerimonia si svolse all’Ambasciata di Città del Messico, e Guillermo non perse l’occasione per farsi beffe dell’ufficialità pomposamente vuota degli “attaccaticci culturali” e del Signor Ambasciatore: un’ufficialità da lui sempre temuta ed evitata come la peggior peste. Ma Guillermo ha reso ottimamente, con una sensibilità inimitabile, moltissimi autori della nostra letteratura di ogni tempo, da Boccaccio ai poeti del Novecento come Saba, Ungaretti, Campana, Montale, Pavese, Luzi, Rosselli, Magrelli, Merini. Aveva anche conosciuto personalmente vari di questi poeti, tra cui un Montale vacanziero a Forte dei Marmi, dove Guillermo si era fatto assumere come cameriere solo per poterlo avvicinare.

Come poeta ha esordito nel 1964 con Visitaciones (ristampato nel 1993), cui sono seguite le raccolte La palabra a solas (1965), La hora y el sitio (1973), El reino de los ojos (1983), Bajo llave (1983), Exutorio (1992). Nel 2005 è uscita l’antologia bilingue spagnolo-francese L’ombre de l’aube, sans étoile – La sombra del amanecer, sin estrella (Écrits des Forges-UNAM, traduzione di D. Soucy), mentre nel 2006 il prestigioso Fondo de Cultura Económico di Città del Messico ha pubblicato Exutorio. Poesía reunida 1964-2003. L’anno scorso, poi, il Ministero della Cultura dello Stato messicano di Jalisco gli ha pubblicato l’opera poetica completa: Arca. Obra reunida (SCJ, 2011).

Il lavoro poetico di Guillermo Fernández è cresciuto silenziosamente nel corso degli anni, appartato da mode e correnti, come una pianta succulenta e spinosa spuntata ai bordi del deserto. Partendo da un nucleo originario raccolto intorno ai temi dell’amare e dello scrivere, vale a dire da un fondo autobiografico presente e incalzante, ma anche trasceso e in parte dissimulato, lo stile di Guillermo Fernández ha saputo definirsi in modo chiaro e coerente, tanto da proporsi come modello per molti poeti messicani più giovani, che in lui hanno trovato un maestro e un sodale intelligente e paziente. La sua lingua miscela sapientemente i livelli colloquiali e gergali con quelli più alti e raffinati, creando un impasto allo stesso tempo nobile e cordiale. Molto spesso, nella sua poesia si celano allusioni, ammiccamenti e segreti che dialogano tanto con circostanze e destinatari precisi, quanto con i modelli adottati nel tempo, dall’amatissimo Luis Cernuda al suo maestro Carlos Pellicer, dagli italiani Penna, Montale e Luzi ai maestri come Rilke o Eliot. Ma è nell’alternanza di passione e disillusione, di ingenuità e disincanto che la poesia di Fernández trova il suo marchio più tipico: vale a dire nell’atteggiamento ironico e giocoso, irriverente e visionario che tende a sedurre il lettore con garbo e malizia, in un continuo andirivieni fra interno (tipicamente: la casa e le sue stanze) ed esterno (i paesaggi del Messico e d’Italia), nella distanza ora nulla, ora infinita che si crea fra l’anima, il mondo e la parola poetica. In questo spazio dilatato e minuscolo, insieme pubblico e privato, la sua poesia ha trovato il terreno adatto per esistere con forza, restituendo ai suoi lettori l’emozione che l’ha generata, trascritta in versi di un’eleganza cristallina.

Rendiamo omaggio a Guillermo Fernández proponendo una piccola antologia di sue poesie, tratte da tutte le raccolte edite.

Da La palabra a solas (La parola da sola),1965
Ahora este silencio
A Thelma Nava
I
¿En qué archipiélagos del día
anda la sombra de mi sombra?
¿Quién escribe el adiós,
quién ha partido de una ciudad que no conozco?
¿Quién pesa más en el agua:
tu nombre en el ala de un pájaro
o el pan de la tristeza?
Sucede que mi oído se desliza
por la curva infinita de la ausencia
como un rumor a la medida de tus pasos.
Estoy en el crucero de todos los caminos
plantando signos o árboles extraños,
escuchando el tatuaje del eco
que el viento trae como flor en los labios.
(Ya no sé si se ahoga la tarde o la espera;
si es tu paso el que cruza la llanura
o la sombra de una nube de verano.)
II
Bajo tu planta voy,
bajo tu planta miro un cielo de palomas,
el viaje hacia la fábula
durmiendo en las amarras de los muelles.
Ante mis ojos pasas con un aire de abismos inminentes,
lasca de soledad o herida ciega
de mis manos huyendo cuando el alba.
Se ha quedado una espina en la garganta
y resuena su lampo adormecido
en todo lo que digo o lo que callo.
Se cierran las ventanas de la espiga
que afiló su milagro de verdor ebrio,
en el itinerario del viento y sus naufragios.
III
Ahora este silencio; su esbeltez
de palomar en los desiertos del agua.
Se queda la hora hablando a solas.
La amplitud de la tarde gira y se ahonda
en coágulos de palidez inconstante.
Sólo tú estás aquí,
pisándole la sombra a mi tristeza;
presente en la afilada veladura
que media entre mis ojos y las cosas.
Y mi verdad se mueve a ciegas…
Perro sin dueño,
anda y desanda la llanura
en busca de otro cielo claro y justo.
La tarde resucita
un viaje de agua oscuro entre la hierba,
peso de palomas en el pecho,
tus ojos derramados en horizontes diminutos
y el equilibrio exacto de tu sangre
como una flor inclinada hacia el olvido.

Ora questo silenzio
A Thelma Nava
I
In che arcipelaghi del giorno
vaga l’ombra della mia ombra?

Chi scrive l’addio,
chi è partito da una città che ignoro?

Chi pesa più nell’acqua:
il tuo nome sull’ala di un uccello
o il pane della tristezza?

Succede che il mio udito se la svigna
per la curva infinita dell’assenza
come un rumore misurato sui tuoi passi.

Mi trovo al crocevia di ogni cammino
piantando segni o alberi straniti,
ascoltando il tatuaggio dell’eco
che il vento porta come un fiore ai labbri.

(Non so se più si affoga la sera o questa attesa;
se è il tuo passo che attraversa la pianura
oppure l’ombra di una nuvola d’estate.)

II
Sotto la tua pianta vado,
sotto la tua pianta guardo un cielo di colombe,
il viaggio per la favola
assopita negli ormeggi dei moli.

Davanti ai miei occhi passi con un’aria da abissi imminenti,
scheggia di solitudine o ferita cieca
delle mie mani che fuggono all’alba.

È rimasta una spina nella gola
e risuona il suo lampo addormentato
in tutto quello che dico e che taccio.

Si chiudono le finestre della spiga
che ha affilato il suo miracolo di un verde ubriaco,
nel percorso del vento e i suoi naufragi.

III
Ora questo silenzio: la sua snellezza
di colombaia nei deserti dell’acqua.

Resta l’ora a parlare da sola.
L’ampiezza della sera gira e affonda
in coaguli di pallore incostante.

Solo tu sei qui,
calpestando l’ombra della mia tristezza;
presente nell’affilato velame
che sta a metà tra i miei occhi e le cose.

E la mia verità si muove alla cieca…
Cane senza padrone,
percorre qua e là la pianura
cercando un altro cielo chiaro e giusto.

La sera resuscita
un viaggio d’acqua scuro in mezzo all’erba,
peso di colombe nel petto,
i tuoi occhi riversati in orizzonti minuti
e l’equilibrio esatto del tuo sangue
come un fiore piegato sull’oblio.

Da La hora y el sitio (L’ora e il sito), 1973
XII
Nada tengo qué ver con nuestras vidas
ni contigo a quien amo
ni con el depreciado
mito de la palabra
Nada tengo qué ver con la respuesta
que el espejo me da cada mañana
La cosa es muy simple
nada tengo qué ver con nada

XII
Non ho niente a che spartire con le nostre vite
né con te che amo
né con il deprezzato
mito della parola
Non ho niente a che spartire con la risposta
che lo specchio mi dà ogni mattina
la cosa è molto semplice
non ho niente a che spartire con niente

XVI
Simula que no ves este instante que pasa.
¡Zas!
Atrápalo en tu mano
como a mosca adormilada.
Aprieta el puño.
Espera y calla.
Reventará en tu mano el poderío
de la podrida eternidad.

XVI
Fingi di non vedere quest’istante che passa.
Zac!
Catturalo nella mano
come una mosca mezzo addormentata.
Stringi il pugno.
Aspetta e taci.
Ti scoppierà in mano la signoria
della marcita eternità.

XVIII
Siempre que las compuertas del coito
liberan los peces a la luz del estuario
escucho la voz de la virgen maría
diciendo a mi oído palabras de amor

XVIII
Ogni volta che le saracinesche del coito
liberano i pesci alla luce dell’estuario
ascolto la voce della vergine maria
che mi dice all’orecchio parole d’amore

XIX
¿No te ha tocado la sospecha
de que las flores sean vestigios
banderas o ventanas
de un mundo remotamente perdido?

XIX
Hai mai avuto il sospetto
che i fiori siano vestigia
bandiere o finestre
di un mondo remotamente perduto?

XXI
Soy el último resto del naufragio
Voy a esperarte diez minutos más
en esta esquina del Océano Atlántico

XXI
Sono l’ultimo resto del naufragio
Ti aspetterò altri dieci minuti
in quest’angolo dell’Oceano Atlantico

Sobre la pared inmóviles

Sobre la pared inmóviles
una sobre la otra
fornican a la vista de la eternidad
De pronto y enlazadas
las dos moscas vuelan
y el ritmo vuelve a darse
en círculos calientes de tristeza
En el espacio adormecido de la alcoba
flotan dos nombres
Paolo y Francesca

Sulla parete immobili

Sulla parete immobili
una sull’altra
fornicano in vista dell’eternità
Di colpo e allacciate
le due mosche volano
e il ritmo torna a darsi
in circoli accaldati di tristezza
Nello spazio intorpidito dell’alcova
fluttuano i nomi
Paolo e Francesca

Da Bajo llave (A chiave), 1983
Distancias elegantes

Antes que el agua del café
puse a entibiar unas palabras
que debían discurrir
como un rebaño de ovejas
en un calvero de montaña

Las peinó el entendimiento
con sagaz óleo de luz
rediles cordiales
naranjas persuasivas

Bebimos el café
entre distancias elegantes
– el mío estaba más que nunca
helado y sin azúcar

Te despediste
y me quedé con las palabras
como fotografías
volteadas contra el muro.

Distanze eleganti

Prima dell’acqua del caffè
ho messo a intiepidirsi le parole
che dovevano discorrere
come un gregge di pecore
su una radura di montagna

Le ha pettinate l’intesa
con olio sagace di luce
ovili cordiali
arance persuasive

Abbiamo bevuto il caffè
a distanze eleganti
– il mio era più che mai
gelato e senza zucchero

Sei andato via
e sono rimasto con le parole
come fotografie
voltate contro il muro.

Bajo llave

Desapareces
y agrietas el espacio

El tiempo pasa por las cosas
lamiendo la existencia
con su lengua de polvo

¿Adónde llamarte?
¿Adónde ir sin que tu ausencia
me haga caer de nuevo en su emboscada
y me ahogue en esa lluvia de ceniza?

Tras la ventana
me llaman los trabajos y los días
Corro cortinas y los dejo en blanco
y te aguardo en casa
masticando un pan de lágrimas
oyendo al mismo Mahler
o yendo por los libros
como desiertos hospitales

Cuando te vas
se amotinan en casa las palabras
me encierren bajo llave
afilan las cucharas
me miran con tus ojos
carcomen mis oídos
con las mismas patrañas

Tú sí sabes ahorcar
la luz bajo tu puño.

A chiave

Sparisci
e screpoli lo spazio

Il tempo passa per le cose
leccando l’esistenza
con la sua lingua di polvere

Dove chiamarti?
Dove andare senza che la tua assenza
mi faccia cadere di nuovo nella sua imboscata
e mi soffochi in una pioggia di cenere?

Da dietro la finestra
mi chiamano le opere e i giorni
Chiudo le tende e li lascio in bianco
e ti attendo in casa
masticando un pane di lacrime
sentendo lo stesso Mahler
o andando per i libri
come attraverso un deserto ospitale

Quando vai via
si ammutinano a casa le parole
mi chiudono a chiave
affilano i cucchiai
mi guardano coi tuoi occhi
mi rodono gli orecchi
con i medesimi imbrogli

Tu sì che sai impiccare
la luce al tuo pugno.

La tomba bianca

Questo foglio di carta mi domanda
ed io non so cosa rispondere.

La hoja blanca

Ojo de ciego mirando la eternidad.

La pagina bianca

Occhio di cieco che guarda l’eterno.

Hablando con Penna
A Elías Nandino
Yo no lo veo mal
Pero si hemos de hablar

con la pura verdad
¿por qué el vespasiano
que se halla junto al Arno
está desinfectado
con un intenso aroma
demócrata-cristiano?

Parlando con Penna
A Elías Nandino
A me non pare male
Ma se vogliamo dire
la pura verità
perché quel vespasiano
che sta vicino all’Arno
viene disinfettato
con un intenso aroma
così democristiano?

da Exutorio (Esutorio) (1992)
Lascia stare mi dico

Lascia stare mi dico.
Lascia stare le nuvole
e il vento che funesta
questo azzurro di marzo,
le sue idi
nascoste dappertutto
dove il piede calca.

Lo sai che il vento
mai è stato
né servo né padrone
coltello sulle lande
della disperazione.

Lascia stare mi dico
ma in fondo attendo
inerme ormai,
distrutto.

Entreabro los ojos

Entreabro los ojos.
La mañana de marzo
desparrama una luz
corrosiva. Las cosas
que viven en el cuarto
se agazapan y temen
disolverse en la luz.
Quién pudiera diluirse
completamente en ella,
entrar por tu ventana
y mirarte dormir
mientras sueñas rebaños
de motores que cantan
sus distantes monodias,
sorprender a hurtadillas
la primera mirada
con que miras el día.

Socchiudo gli occhi

Socchiudo piano gli occhi.
La mattina di marzo
arrovescia una luce
corrosiva. Le cose
viventi della stanza
si acquattano temendo
dissolversi alla luce.
Si potesse diluirsi
completamente in lei,
entrare dalla tua finestra
e guardarti dormire
mentre sogni le greggi
di motori che cantano
le loro distanti monodie,
sorprendere alla chetichella
il primo sguardo
con cui tu guardi il giorno.

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