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Una sigaretta e un premio letterario

redazione Ritratti, SUR

L’11 giugno del 2005 moriva lo scrittore argentino Juan José Saer. Lo ricordiamo oggi con un pezzo di Juan Martini, scritto a sei anni dalla morte dell’autore, in occasione della pubblicazione del romanzo postumo La grande. L’articolo è tratto dal blog di Eterna Cadencia, che ringraziamo.

«Juan José Saer»
di Juan Martini
traduzione di Giulia Zavagna

Ci siamo conosciuti nei primi anni Sessanta. A quel tempo l’indignazione giovanile non era riformista ma rivoluzionaria: non chiedevamo lavoro, integrazione sociale né democrazia incorrotta; sognavamo un cambiamento dello status quo, con pari opportunità e con la dittatura del proletariato. Non sapevamo dove saremmo finiti, ma questo era ciò che volevamo. Juan José Saer aveva pubblicato i racconti di En la zona nel 1960, quando aveva ventitré anni. E a quel tempo apparvero Responso, Palo y hueso e La vuelta completa. Io gestivo a Rosario una rivista letteraria con Carlos Schork e Nicolás Rosa. Saer viveva ancora a Colastiné e ogni tanto passava diretto a Buenos Aires. Arrivava con delle poesie, che pubblicavamo sulla rivista:

El que ve en las mañanas
de mayo corromper
el otoño las uvas finales
tiembla y vacila.

E a volte con qualche traduzione. Pubblicammo, così, un racconto di Alain Robbe-Grillet, La spiaggia:

A la derecha, del lado del agua inmóvil y lisa, rompe, siempre en el mismo lugar, la misma pequeña ola.

Robbe-Grillet tradotto da Saer. Allora stavamo giorno e notte a leggere i nostri testi, a parlare di romanzi, a mangiare, bere gin, camminare per Rosario, sempre vicino al fiume, o ad arenarci al bar dell’hotel Savoy, dove facevamo anche le riunioni della rivista. Nel 1968 Saer mi chiese gli originali di una dozzina di racconti e li portò alla casa editrice, a Buenos Aires, dove aveva appena pubblicato Unidad de lugar. Così uscì il mio primo libro, El último de los onas, per Galerna e nel 1969, lo stesso anno in cui si pubblicò Cicatrici, il migliore dei suoi romanzi iniziali. Pochi mesi prima Saer era partito per la Francia e io non l’avrei rivisto fino al dicembre 1974.

Ci incontrammo a Parigi. Cenammo a casa sua e poi uscimmo a camminare. Non troppo lontano da La Closerie des Lilas, di fronte ai Jardines de Luxembourg, ci fermammo, nonostante il freddo, e continuammo a parlare. Saer aveva letto L’angelo dell’abisso, di Sabato, e annichilò con un discorso fiammeggiante quel libro che condensava una delle concezioni della letteratura che Saer aborriva. Poi parlò di El agua en los pulmones, il mio primo romanzo, e proprio lì, nell’intemperie del boulevard Saint Michel, mi raccontò stralci della trama di Nadie nada nunca, il romanzo che stava scrivendo.

Alla fine del 1975 anche io me ne andai dall’Argentina. Arrivai a Barcellona con mille dollari, due o tre numeri di telefono e una lettera di presentazione di Jordi Estrada firmata da Saer. Così cominciai a fare schede di lettura di libri che quest’anno aspiravano al Premio Planeta, casa editrice con cui Saer aveva pubblicato El limonero real, un romanzo centrale nella sua opera. Iniziai subito a fare il lettore per altre case editrici, e mi misi a scrivere schede per enciclopedie e libretti su incarico. Una nuova lettera di presentazione, in questo caso di Franco Basaglia, mi condusse a Beatriz de Moura e fu così che tradussi dall’italiano un libro di antipsichiatria per Tusquets. Poco dopo, sempre su incarico, curai una collana di romanzi polizieschi, e poi altre collane, e senza rendermene conto andò a finire che ero riuscito a restare a Barcellona.

Tre anni più tardi, nel 1979, quando lavoravo fisso per Bruguera, un brutto giorno arrivò l’originale di Nadie nada nunca. Il direttore lo considerò «un libro molto ben scritto, ma parecchio noioso». Non riuscii a convincerlo che dovevamo pubblicare quel romanzo. Credo che non dimenticherò mai l’immagine della cartellina grigia con il titolo manoscritto che conteneva Nadie nada nunca e che un altro brutto giorno fu restituita a Saer senza tante spiegazioni.

Nel marzo del 1987, di nuovo in Argentina, lessi Glosa. Ne scrissi una recensione e dedicai a quel libro – che come una ripetuta dichiarazione poetica, così chiara e così bella, stabilisce nuovamente le frontiere dell’opera di Saer – la pagina culturale della rivista Humor con un titolo trionfante: È arrivata l’ora di Juan José Saer. Nel mese di novembre dello stesso anno ci rincontrammo. Fu nella piccola città di Eichstätt (Baviera, Germania), invitati da Karl Kohut e Andrea Pagni, dell’Universidad Católica, a un congresso di scrittori argentini. Allora camminammo, di nuovo, ad Eichstätt, parlando di libri, viaggi, del caso e delle donne, che sono le cose di cui parlano gli scrittori ai congressi.

Eravamo diversi: Andrés Avellaneda, Ernesto Garzón Valdés, Horacio Salas, Ricardo Piglia, Juan José Saer, Martha Mercader, Gerardo Mario Goloboff, Juan Martini, Daniel Moyano, Noé Jitrik, Rosalba Campra, Noemí Ulla, Vlady Kociancich, Reina Roffé, Jaime Alazraki, David Lagmanovich, Mempo Giardinelli e Susana Zanetti… 18 senza contare tedeschi e altri invitati. Il che complicava seriamente le cose al momento di mangiare tutti insieme nelle birrerie di Eichstätt. Andrea Pagni, argentina, e qualche suo assistente fecero meraviglie per ordinare tutte le diverse qualità di birra e di piatti di cui avevamo voglia, senza scordarne neanche uno.

Passammo delle belle giornate in quel paesino minuscolo incastonato tra le montagne. Le sessioni del congresso erano lunghe e accese. Ma riuscivamo anche a fare giri nei dintorni. Fu così che durante un’escursione, una mattina, di fronte a filo d’acqua che scorreva, Horacio Salas esclamò: «Così questo è il famoso Danubio!» Ma anche la sera c’erano delle soprese. Di ritorno da un ristorante greco dove nessuno capì cosa avevamo bevuto vedemmo un uomo nudo, a terra, all’ingresso di una gioielleria. Arrivò subito la polizia. Era strano vedere quel corpo per strada in un paesino che sembrava deserto accanto a una vetrina piena di catenine e croci d’oro. «Nessuno gli chiede se ha bisogno di qualcosa?», chiese Vlady Kociancich. Per limitare i rischi gastronomici con ordinazioni al buio, qualche sera cenammo alla mensa universitaria. Dopo cena Mempo Giardinelli, che aveva portato una chitarra e un poncho colorato, cantava A desalambrar di Victor Jara. E poco dopo Noemí Ulla e Ricardo Piglia ballavano il tango.

Un giorno, durante una passeggiata, Saer, Piglia e io salimmo al castello. Non c’era molto da vedere. O forse preferivamo parlare, immaginare storie o inventare cose. Così nacque L’abito del fantasma, una rivista letteraria inesistente che, dicevamo, sarebbe stata diretta da noi e stampata a Parigi e che si sarebbe venduta solo su abbonamenti, di cui si sarebbe occupata Flammarion, la casa editrice francese di Saer. Passammo tutto il percorso d’andata a immaginare il sommario: articoli molto accademici e retorici su scrittori argentini per i quali non provavamo molta simpatia…

Nel modesto ristorante del castello di Eichstätt dalle cui finestre si vede, in basso, il torrente che attraversa il paese, di fronte alle nostre salsicce con kartoffeln salad e ai nostri boccali di birra, Saer raccontò che stava finendo La ocasión, un libro, disse, che sperava gli desse un po’ di respiro. Quando Saer faceva discorsi di quel tipo si pensava sempre quasi invariabilmente ai suoi debiti. In questo caso si riferiva alla solitudine che sembrava circondarlo, lui e i suoi libri. Nel 1988 La ocasión vinse il Premio Nadal, a Barcellona, e una discreta manciata di dollari. Saer aveva cinquant’anni. E aveva resistito senza crisi l’olimpico disprezzo con cui la sua opera era stata quasi ignorata in Argentina al di là di un gruppetto di lettori incondizionati. «Una sigaretta e un premio letterario non si negano a nessuno», scherzava Saer.

Negli ultimi anni della sua vita un costante riconoscimento accompagnò Juan José Saer. Presto, l’11 giugno, si compiranno sei anni dalla sua morte. La pubblicazione postuma di La grande, il suo ultimo romanzo inconcluso, sembra riordinare la sua vita e la sua opera. I suoi libri sono ora lì, visibili e consacrati, a combattere l’oblio che tutto copre in questi anni sregolati.

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