Tennis

Non porta la maschera del giocatore: String Theory di David Foster Wallace

Stephen Phillips BIGSUR, Recensioni, Scrittura

È recentemente uscito negli Stati Uniti, per Library of America, String Theory, un volume che raccoglie cinque saggi di David Foster Wallace sul tennis. Stephen Phillips ne approfitta per una riflessione sul rapporto fra questo scrittore e il suo sport preferito. Il pezzo è uscito originariamente su The Millions e viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore e della rivista.

di Stephen Phillips
traduzione di Sara Reggiani

Non è difficile immaginare che genere di attrattiva possa esercitare il tennis su uno scrittore. È uno sport solitario (almeno il singolo) in cui il successo dipende dall’azione individuale. C’è l’aspetto estetico – lo sfoggio di flessuosità atletica unita a un’eleganza sfrontata – e c’è il fatto che rappresenta un ottimo espediente letterario: un’arena perfetta per lo studio ravvicinato di un personaggio, in cui il modo di giocare spalanca una finestra sulla personalità del giocatore. È così che solitamente il tennis viene trattato in letteratura. In L’informazione, Martin Amis, lui stesso devoto tennista amatoriale, mette a confronto due scrittori rivali; il virtuosismo agile ma esibizionista di Richard Tull contro l’ingegnosa capacità di recupero di Gwynn Barry. È questa anche la premessa su cui si fonda forse la miglior opera mai scritta sull’argomento, Tennis, in cui John McPhee affianca una cronaca della semifinale degli U.S. Open del 1968 (tra Arthur Ashe e Clark Graebner) a un’analisi delle dicotomie sociopolitiche della nazione, sintetizzate negli stili opposti dei due giocatori. Oltre ad Amis, tra i fan del tennis nel mondo letterario si annoverano Vladimir Nabokov (abile con la racchetta quasi quanto con il retino per le farfalle), Anne Lamott, J.M. Coetzee, fervente ammiratore di Federer, Ellen Gilchrist, Abraham Verghese e Geoff Dyer, assiduo frequentatore di campi in terra rossa.

Tutto questo per dire che David Foster Wallace non è il solo a essere stato sedotto dal tennis. Ma è forse l’unico autore di seria reputazione letteraria ad aver personalmente brandito una racchetta in una competizione semiprofessionistica. Ai tempi in cui ancora considerava la lettura dei romanzi perlopiù come un modo divertente di assorbire informazioni, Wallace era, a sua detta, «un tennista juniores quasi eccelso», dotato di uno stile burbero, grintoso che a soli quattordici anni l’aveva portato al diciassettesimo posto nel ranking del Midwest per la sua fascia di età. Seguì una fase di stallo – tra pubertà tardiva e campi salubri da country club – che soffocò l’aspetto che più lo avvantaggiava: il dominio degli elementi sui campi municipali battuti dal vento in cui normalmente si disputano i tornei minori. Tuttavia il tennis come passione lo accompagnò per tutta la vita: fu il punto di riferimento personale che, più di altri cui accenna nella sua narrativa, gli fornì lo sfondo per Infinite Jest. Era inoltre un soggetto cui ritornava spesso nella saggistica. Nell’arco della sua carriera fu probabilmente «il tema più ricorrente a livello superficiale», osserva John Jeremiah Sullivan nell’introduzione a String Theory, la nuova raccolta di saggi di Wallace sul tennis edita da Library of America.

Wallace conosceva Tennis – una copia con le sue annotazioni si trova fra gli effetti personali dell’archivio conservato presso l’Università del Texas a Austin – ed è noto che stimasse McPhee come scrittore. Ma il suo approccio allo sport è nel complesso più tecnico, nonché più indisciplinato e libero. Questa tendenza trova conferma nel titolo del pezzo più notevole tra quelli contenuti in String Theory, apparso originariamente su Esquire nel 1996, «L’abilità professionistica del tennista Michael Joyce come paradigma di una serie di cose tipo la scelta, la libertà, i limiti, la gioia, l’assurdità e la completezza dell’essere umano» [l’edizione italiana è contenuta nel volume Tennis, tv, trigonometria, tornado, minimum fax 1999, n.d.t.]. E salta all’occhio anche nelle righe di apertura del saggio con cui, come osserva Sullivan, Wallace emula i limpidi passaggi iniziali di Tennis – «Arthur Ashe, con le gambe divaricate, le ginocchia leggermente piegate, lancia in aria una pallina da tennis…» – sia pur calcando la mano a livello di «densità» descrittiva:

Quando Michael Joyce di Los Angeles effettua un servizio, quando lancia la palla e il suo viso si alza a seguirla, sembra che sorrida, ma non sta davvero sorridendo – i muscoli circumorali della sua faccia si stanno tendendo insieme al resto del corpo, per raggiungere la palla nell’apice della parabola.

A differenza di Ashe, Joyce non è un membro dell’élite che insegue il titolo degli U.S. Open, ma «il settantanovesimo miglior tennista del pianeta Terra», che gareggia nei turni di qualificazione all’evento con cui i tennisti si «scaldano» per gli U.S. Open, ossia gli Open canadesi. Come McPhee, Wallace è interessato a questi livelli del gioco, ma in maniera più letterale, perché lo affascinano i mille scaglioni della gerarchia tennistica. L’ex talento juniores resta un avido giocatore. Al momento di partire per Montreal infila la racchetta in valigia, fantasticando di potersi confrontare sul campo con alcuni «giovani professionisti americani», per poi registrare «stupore e sconforto» alla vista di Joyce in azione:

È un uomo che, in piena corsa, riesce a spedire una palla da tennis a tutta velocità in un’area di trenta centimetri quadrati a più di venti metri di distanza sopra una rete alta 90 centimetri, e con potenza. Riesce a far questo più del 90% delle volte.

La differenza di qualità è tale da diventare una differenza di tipologia. «Non gioco e non ho mai giocato allo stesso gioco di questi professionisti di bassa classifica».

E tuttavia persino questo livello vertiginoso non è nulla in confronto a quello dei vertici del ranking. Wallace documenta i piccoli difetti che aprivano un baratro fra Joyce (che arrivò al secondo round del torneo di Montreal e che, qualche mese dopo, raggiunse il sessantaduesimo posto nel ranking mondiale, l’apice della sua carriera) e l’allora inarrivabile Andre Agassi: i piedi piatti che gli rallentavano seppur di poco il passo, il tempismo sbagliato di un soffio, il leggero inceppo nel rovescio in confronto al colpo fluido di Agassi.

In questo saggio Wallace dà fondo a tutto il suo repertorio migliore. L’espressione paziente che Joyce mostra dinanzi ai capricci di un tennista che sta stracciando gli ricorda quella dei «croupier di Las Vegas quando un giocatore che stanno ripulendo per bene diventa maleducato o offensivo». Scorge un «pallottoliere di gocce di sudore» sulla fronte di un altro giocatore e rievoca la peculiare grazia dei riti del tennis: «I raccattapalle scattano verso la palla e tornano a sistemarsi al loro posto con un’elaborata coreografia». Trova particolare ispirazione nelle idiosincrasie dei precedenti campioni del tennis – «Lo strano movimento da sindrome di Tourette con cui [Vitas] Gerulaitis scuoteva la testa da destra a sinistra mentre faceva rimbalzare la palla prima del lancio», e la rassomiglianza di John McEnroe, al momento del servizio, con «una figura su un fregio egizio» (chiunque dubiti dell’acutezza di queste osservazioni può verificare qui e qui). Usa anche la satira: passando dal tono pseudo-adorante usato per Joyce – «Soltanto a vedertelo là davanti, già diresti che è un tipo assolutamente simpatico e in gamba» – a uno quasi epigrammatico: «La realtà del tennis professionistico maschile assomiglia alle raffinate finali che si vedono in tv più o meno quanto un macello somiglia a un filetto elegantemente presentato». Ma, in ultima analisi, è stimolato dalla grandeur e «grottescheria» di Joyce:

[L]a radicale compressione della sua capacità di concentrazione e della sua personalità gli ha permesso di praticare un’arte a un livello di trascendenza – qualcosa a cui pochi di noi arrivano. Gli ha permesso di visitare e mettere alla prova luoghi della sua psiche che la maggior parte di noi non è nemmeno sicura di possedere, e di manifestare concretamente virtù come coraggio, resistenza al dolore e alla fatica e capacità di rendimento in condizioni di continua osservazione e di pressione schiacciante.

Il pezzo più noto della raccolta, «Federer come esperienza religiosa» (apparso sul New York Times nel 2006) [l’edizione italiana è contenuta nel volume Il tennis come esperienza religiosa, Einaudi 2012, n.d.t.], si apre con la pura estasi da fan che Wallace prova davanti a vari passaggi sublimi della partita («Momenti Federer»), creati dal talento del campione svizzero, e poi analizza l’effetto nefasto della corsa agli armamenti, sul piano dell’attrezzatura, che molti ritengono abbia ridotto il tennis a una pura dimostrazione di forza. Come si spiega allora il caso isolato di Roger Federer, la sua superiorità sull’odierno tennis dei muscoli grazie a un antico gioco basato sul tocco e la raffinatezza? Tra i vantaggi apportati dalle racchette più larghe e leggere c’è principalmente la possibilità di maneggiarle con maggior vigore per impartire alla palla una traiettoria a effetto, osserva Wallace. Questo permette di giocare con una potenza superiore: dando alla palla un micidiale effetto di topspin per farle descrivere una parabola più tesa sopra la rete, il giocatore è in grado di colpirla più forte e allo stesso tempo di farla atterrare entro le linee. Ma ci sono anche altri vantaggi: la capacità di giocare palle molto angolate – un tempo possibili solo a rete – restando sul fondo. Federer, già esperto di potenza, traiettoria e angolazione, attinge all’intero arsenale dei benefici offerti dal progresso tecnologico in materia di racchette. È un movimento sovversivo incarnato in un solo uomo, qualcosa che rivoluziona lo sport «dall’interno […] e dimostra che la velocità e la potenza del gioco professionistico odierno sono semplicemente lo scheletro, non la carne».

Detto così sembrerebbe un saggio meramente tecnico. Ma Wallace sta raccogliendo argomenti per arrivare a una considerazione più generale sull’effetto trascendente della bravura eccezionale, in qualunque campo. Osservando il torneo juniores di Wimbledon, vede un «variegato balletto […] Volée corte e mix di effetti, servizi rallentati e stratagemmi orditi tre tiri prima».

«Il genio non è riproducibile», conclude. «L’ispirazione, però, è contagiosa, e multiforme, e anche soltanto vedere, da vicino, la potenza e l’aggressività rese vulnerabili dalla bellezza significa sentirsi ispirati e (in un modo fugace, mortale) riconciliati».

Wallace sembra meno interessato a Federer di per sé. Per tutta la raccolta gravita attorno a figure con cui è più semplice identificarsi – un campione mancato come Joyce e, nel saggio più toccante del libro [l’edizione italiana è contenuta in Considera l’aragosta, Einaudi 2005, n.d.t.], «la prima vera bambina prodigio del tennis femminile», Tracy Austin. La sua recensione di Beyond Center Court: My Story non suggerisce di primo acchito troppa simpatia verso la tennista da parte dello scrittore, che se la prende con le insulsaggini della tipica autobiografia di un ex fenomeno sportivo uscita dalla penna di un ghost writer. Ma vuole portarci a capire qualcosa di ben più profondo. All’età di sedici anni la Austin era campionessa degli U.S. Open, numero uno del mondo a diciassette, finché a quel punto il suo corpo non si ribellò. Costantemente infortunata, si ritirò di fatto a ventun anni, per poi tentare un ritorno cinque anni dopo, subito stroncato da un incidente in cui un furgone speronò la sua auto fracassandole un ginocchio.

«I fatti e la traiettoria della vita di Tracy Austin sono quasi classicamente tragici», scrive Wallace.

[La] virtù più lampante di Tracy Austin, un perfezionismo instancabile e maniacale che, combinato al suo puro talento, le portò un successo tanto prodigioso, alla lunga è stata anche la sua pecca e rovina […]. La sola cosa che abbia mai saputo fare, la sua arte […] le fu tolta a un’età in cui molti di noi cominciano appena a riflettere seriamente su cosa vogliono fare.

Era un’autobiografia sportiva che, grazie alla «carriera […] trascendentalmente interessante» del suo soggetto, avrebbe potuto mantenere le promesse strillate in bandella, costituendo un racconto «davvero ispirante» sulle avversità del destino e lo spirito umano. Ma Wallace guarda oltre i luoghi comuni del libro: e se quel resoconto superficiale della vita di Austin rivelasse in realtà l’«essenza» dei grandi atleti, spiegasse come fanno ad agire in modo «così semplice e superbo» nei momenti critici?

E se, quando Tracy Austin scrive che dopo l’incidente d’auto del 1989: «Accettai rapidamente il fatto che non potevo farci nulla», la frase non fosse solo vera ma esaurientemente descrittiva del suo intero percorso di accettazione? Una persona è forse stupida o superficiale perché dice a sé stessa che non c’è niente che possa fare rispetto a una disgrazia e che quindi le conviene accettarla, e da lì in poi la accetta senza ulteriori lotte interne? O quella persona è in qualche modo istintivamente saggia e profonda […]?

«La sola certezza pare essere che una persona del genere non produce una bella autobiografia in prosa», conclude.

Per la mente ingarbugliata di Wallace, la cosa non rappresentava un problema. In questi pezzi non porta la maschera del giocatore. Leggendoli si intuisce che è in atto un processo di scoperta, in cui l’autore procede frase per frase, a tentoni, verso la comprensione; un obiettivo cui si dedica con tutto sé stesso, irriverente, incasinato e intellettualmente onnivoro com’è.

Una raccolta di pezzi commissionati separatamente da diverse riviste nell’arco di quindici lunghi anni e poi riuniti insieme potrebbe facilmente risultare disorganica. Invece String Theory brilla per coesione e continuità con le principali ossessioni che Wallace esprime nella sua narrativa. L’idea di una sottomissione alla noia come portale per l’illuminazione è uno dei temi chiave della sua ultima opera incompleta, Il re pallido, sostiene il suo biografo D.T. Max. Anticipando tutto ciò di più di una decina d’anni, nel primo pezzo di questa raccolta, risalente al 1991 [l’edizione italiana è contenuta in Tennis, tv, trigonometria, tornado, cit., n.d.t.], Wallace scrive del senso di beatitudine che lui e il suo compagno di gioco provavano in seguito a un allenamento particolarmente impegnativo e l’impulso che stava dietro al suo innato amore per il tennis:

[E]ravamo tutti e due nello stato di fuga mentale che l’esaurimento da ripetizione porta con sé, uno stato di fuga che, ho deciso, era quello di cui andavo in cerca per tutto il tempo che passavo a giocare a tennis, […] uno stato ipnotico, monotono e insieme inebriante, che intontiva e al tempo stesso dava sensazioni squisite.

Wallace giocava a questo sport con tutto sé stesso. La stessa ricerca intellettuale, lo stesso spirito sensorialmente affamato sono presenti nel momento in cui ne scrive. Il risultato è un libro straordinario su un’attività umana e sulla vita al di fuori delle linee che la delimitano.

© Stephen Phillips, 2016. Tutti i diritti riservati.

 

 

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