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Ricordo di Cortázar

redazione Julio Cortázar, SUR

Cortázar, Fuentes, e il pittore Alberto Gironella

In occasione dell’uscita di Carta carbone, presentiamo oggi un testo scritto da Carlos Fuentes in occasione della presentazione della Cattedra Latinoamericana Julio Cortázar (inaugurata presso l’Università messicana di Guadalajara nel 1994). Il testo venne pubblicato sull’inserto culturale del quotidiano argentino «La Nación».

di Carlos Fuentes

Traduzione di Erica Farsetti

Come spesso capita, lo conobbi ancora prima di conoscerlo. Nel 1955, dirigevo la «Revista Mexicana de Literatura», insieme allo scrittore Emmanuel Carballo. Proprio lì fu pubblicato, per la prima volta in Messico, un racconto di Gabriel García Márquez, il Monologo di Isabel mentre vede piovere su Macondo.

Grazie anche alle nostre amiche Emma Susana Separatti e Ana María Barrenechea, riuscimmo a ottenere la collaborazione di Julio Cortázar.

I buoni servigi e Il persecutore apparvero per la prima volta su quella nostra rivista innovatrice, attenta, insistente, persino un po’ insolente. Più tardi, come se si trattasse di una cospirazione, Emma Susana mi fece leggere il manoscritto di un romanzo di Cortázar, incentrato sulla decomposizione del cadavere di una donna seppellita con i più alti onori ai piedi dell’obelisco della Avenida 9 de Julio, a Buenos Aires. Da lì, in onde concentriche, la peste, la follia e il mistero si estendevano al resto della Repubblica Argentina.

Alla fine, Julio non volle pubblicare il romanzo; ebbe paura che fosse giudicato un luogo comune. L’importante, ora, è ricordare che fu un uomo che conservò sempre qualche mistero.

Quante pagine magistrali bruciò, sfigurò, scaraventò in un cestino o in un archivio cieco?

In seguito, ancora non ci conoscevamo, mi mandò la lettera più stimolante che ricevetti quando, nel 1958, pubblicai il mio primo romanzo, La regione più trasparente. La mia carriera letteraria deve a Julio questo impulso iniziale, dove intelligenza e zelo, rigore e simpatia andavano di pari passo e delineavano, già, quell’essere umano che mi dava del lei e del quale desideravo ardentemente diventare amico.

Nella sua corrispondenza c’era tutto l’uomo, più questo mistero, questo enigma, questo desiderio di ricevere la conferma che l’uomo era, davvero, eccellente come i suoi libri e questi eccellenti come l’uomo che li scriveva.

Finalmente, nel 1960, arrivai in una piazzetta ombrosa di Parigi, piena di botteghe artigiane e di caffè, non lontana dalla metropolitana sopraelevata. Passando attraverso un garage, entrai in un cortile vetusto. In fondo, un’antica scuderia era stata trasformata in uno studio alto e stretto, su tre piani, con scale che ci obbligavano a salire scendendo, secondo una formula segreta di Cortázar.

Vederlo sarebbe stata una sorpresa. Allora, serbavo nella memoria solo una vecchia foto pubblicata in un numero commemorativo della rivista «Sur». Un signore anziano, con gli occhiali spessi, la faccia magra, i capelli completamente schiacciati con la brillantina, vestito di nero e con un aspetto proibitivo, simile a quello del personaggio dei fumetti chiamato Fulmine.

Il ragazzo che uscì a ricevermi doveva sicuramente essere il figlio di quel cupo collaboratore di «Sur»: un giovane capellone, con le lentiggini, imberbe, maldestro, con un paio di pantaloni di fustagno e una camicia a maniche corte, aperta sul collo; un volto, allora, a cui non avrei dato più di vent’anni, animato da una risata profonda, uno sguardo acerbo, innocente, dagli occhi infinitamente grandi, distanti, e due sopracciglia sagaci, unite tra loro, disposte a lanciare una maledizione cervantina a chiunque si azzardasse a violare la purezza del suo sguardo.

«Ragazzo, devo vedere il papà».

«Sono io».

Con lui c’era una donna brillante, minuta, sollecita, maliarda e ammaliatrice, attenta a tutto quello che succedeva in casa, Aurora Bernárdez.

Quei due erano una coppia di alchimisti della parola, di maghi, falegnami e scribi, di quelli che durante la notte costruiscono cose invisibili e il cui lavoro si percepisce solo allo spuntare del sole.

Questo era Cortázar, allora, e Fernando Benítez, che accompagnai a visitare la piazza del generale Beuret, si trovò d’accordo con la mia descrizione, però aggiunse che quel volto da ragazzo, quando rideva, quando si chiudeva in se stesso, quando si avvicinava o si allontanava troppo (poiché Julio era una marea, insensibile come i movimenti della piena e della risacca che tanto inseguì), iniziava a riempirsi di minuscole rughe, reti del tempo, segnali di un’esistenza precedente, parallela o continuazione della propria.

Così nacque la leggenda secondo cui Cortázar era la versione sorridente di Dorian Gray. Sapeva tutto. Era il latinoamericano in Europa che sapeva qualcosa in più degli europei stessi. E questo qualcosa in più – il nuovo mondo americano – erano stati proprio gli europei a inventarlo, ma non erano stati in grado di immaginarlo: l’uomo ha due sogni, non c’è un solo paradiso.

Cortázar giunse tardi in Messico. Dopo il suo viaggio, nel 1975, mi disse che Oaxaca, Monte Albán, Palenque erano luoghi metafisici dove conveniva trascorrere ore di quiete, in silenzio, approfittando di ciò che Henry James chiamava «un’apparizione».

Il silenzio si imponeva; la contemplazione era la realtà. Un giorno, arrivai a Palenque pensando a Cortázar. La presenza dell’amico argentino nella giungla del Chiapas si trasformò nella visualizzazione concreta dell’istante in cui la natura cede il posto alla cultura; però, allo stesso tempo, la cultura sta per essere recuperata dalla natura.

Paura dell’abbandono, che può essere un’espulsione, ma anche del rifugio, che può essere una prigione. Immagino Cortázar sul filo del rasoio, in bilico tra una natura e una cultura contigue e tuttavia separate, mentre invita lo spettatore a votarsi alle intemperie dell’una o alla protezione dell’altra. Mi tornò in mente una frase di Roger Caillois, amico mio e di Cortázar: «L’arte fantastica è un duello fra due paure».

Ovviamente, Cortázar era stato in Messico ancora prima di andarci. Era stato nel Messico dell’axolotl dal volto umano, che guarda uno spettatore identico dal fondo dell’acquario.

Era stato anche nel Messico sognato da un europeo sul tavolo operatorio, che si immagina steso sulla pietra sacrificale di una piramide azteca, solo perché, simultaneamente, un azteco viene sacrificato nella piramide e per questo può immaginarsi nel mondo bianco di un ospedale che non ha mai visto, nell’attimo in cui sta per essere aperto dal bisturi.

«Lo spirito umano ha paura di se stesso», lessi una volta in Bataille con Cortázar: le entrate e le uscite dell’universo cortazariano, i suoi centri commerciali che iniziano a Parigi e finiscono a Buenos Aires; le sue città combinatorie di Vienna, Milano e Londra; le sue tavole tese tra due finestre di un manicomio porteño; le sue grandi case occupate in modo implacabile e meticoloso dall’ignoto; i palcoscenici dei teatri invasi dall’entusiasmo degli spettatori o dalla solitudine di uno solo di essi, John Howells, coinvolto in una storia che non è la sua.

Per Cortázar, la realtà era mitica in questo senso: si trovava anche nell’altra faccia delle cose, appena al di là dei sensi, in una posizione invisibile solo perché non abbiamo saputo allungare la mano abbastanza in fretta per toccare la presenza che contiene.

Per questo gli occhi di Cortázar erano così grandi: guardavano la realtà parallela, dietro l’angolo; il vasto universo latente e i suoi pazienti tesori, la contiguità degli esseri, l’imminenza di forme che attendono di essere convocate con una parola, con un tocco di pennello, con una melodia canticchiata tra sé e sé, con un sogno.

Il fuori e il dentro. Tutta questa realtà sul punto di manifestarsi era la realtà rivoluzionaria di Cortázar. Le sue posizioni politiche e la sua arte poetica prendevano la forma di una convinzione secondo cui l’immaginazione, l’arte, la forma estetica sono rivoluzionarie, distruggono le convinzioni morte, ci insegnano a guardare, a pensare o a sentire di nuovo.

Cortázar era un surrealista nel suo tenace tentativo di mantenere unite quelle che lui chiamava «la rivoluzione di fuori e la rivoluzione di dentro».

Se a volte si sbagliò nella ricerca di questa fraternità instancabile, peggio sarebbe stato se si fosse arreso. Come un nuovo Tommaso Moro sull’onda di un rinascimento oscuro che poteva condurci alla distruzione della natura o al trionfo di un’utopia macabra e sorridente. Cortázar visse un conflitto a cui pochi nel nostro tempo sfuggirono: il conflitto tra il fuori e il dentro di ogni realtà, inclusa quella politica. Politicamente, ci trovavamo d’accordo su molte cose, ma non su tutto. Le nostre differenze, tuttavia, non fecero altro che aumentare l’amicizia e il rispetto reciproco, come deve accadere nei rapporti intelligenti, che non ammettono l’ambizione, l’intolleranza o la meschinità. Non può esserci vera amicizia quando questi difetti infastidiscono colui che si dichiara nostro amico.

Con Cortázar succedeva tutto il contrario: la sua amicizia aveva come sinonimi modestia, immaginazione e generosità. Era un uomo felice perché la sua cultura era felice. Gabriel García Márquez e io lo ricordiamo sempre mentre, durante un lungo viaggio da Parigi a Praga, nel 1968, dava fondo alle sue conoscenze sul romanzo poliziesco, cercando con tutta la buona volontà di salvare l’insalvabile: la primavera del socialismo dal volto umano. Seduti nel vagone ristorante, mangiavamo salsicce con mostarda e bevevamo birra, mentre lui ricordava le origini dei misteri sui treni, da Sherlock Holmes ad Agatha Christie, a Graham Greene, ad Alfred Hitchcock… lo ricordo. Nei locali di Malá Strana dove gruppi di giovani cechi suonavano jazz e Cortázar si lanciava in straordinarie rievocazioni dei grandi momenti di Thelonius Monk, Charlie Parker o Louis Armstrong. Lo ricordo. Il brutto tiro che mi giocarono Gabo e Julio, invitati da Milan Kundera a un concerto di musica di Janáček, mentre io venni mandato, in rappresentanza dei miei amici, a parlare dell’America Latina agli operai metallurgici e agli studenti trotskisti.

«Dai, Carlos, a te non costa parlare in pubblico; fallo per l’America Latina…».

Qualcosa guadagnai, dal punto di vista musicale. Scoprii che nelle fabbriche ceche, per alleviare la noia stacanovista dei lavoratori, gli altoparlanti diffondevano per tutto il giorno un disco di Lola Beltrán che cantava Cucurrucucú, paloma.

Lo ricordo.

Lo ricordo nelle camminate per il quartiere latino a caccia del film che non avevamo visto, ossia un film nuovo o vecchio e già visto dieci volte, che Cortazár avrebbe guardato sempre come se fosse la prima. Adorava ciò che insegnava a guardare, tutto ciò che lo aiutasse a riempire i pozzi chiari di quello sguardo da gatto sacro, smanioso di vedere, semplicemente perché il suo sguardo era molto grande. Antonioni o Buñuel, Cuevas o Alechinsky, Matta o Silva: Cortázar come un cieco, a volte, sorretto dai suoi amici vedenti, dalle sue guide artistiche.

Lo ricordo: lo sguardo innocente in attesa del regalo visuale incomparabile. Un giorno lo chiamai il Bolívar della letteratura latinoamericana. Liberandosi, ci liberò, con un linguaggio nuovo, arioso, capace di qualsiasi avventura: Rayuela (Il gioco del mondo) rappresenta uno dei grandi manifesti della modernità latinoamericana, in cui possiamo vedere tutte le nostre grandezze e le nostre miserie, i nostri debiti e le nostre opportunità, attraverso una costruzione verbale libera, incompiuta, che non cessa mai di richiamare i lettori di cui ha bisogno per continuare a vivere e non finire mai.

Perché l’opera di Julio Cortázar è una domanda vibrante sul possibile ruolo del romanzo futuro: dialogo fecondo non solo di personaggi, ma anche di lingue, di forze sociali, di generi, di momenti storici che, altrimenti, mai si sarebbero incontrati se non in un romanzo.

Dialogo di umori, aggiungerei, poiché senza il senso dell’umorismo è impossibile capire Cortázar: con lui sopportiamo il mondo fino al punto in cui lo vediamo migliore, però anche il mondo deve sopportarci fintanto che non saremo migliori.

In mezzo a queste due speranze, che non sono rassegnazione, si inserisce l’umorismo dell’opera di Cortázar. Nel suo personalissimo elogio della follia, anche Julio fu cittadino del mondo, come Erasmo in un altro Rinascimento: compatriota di tutti ma anche, misteriosamente, per tutti straniero.

Dette senso alla nostra modernità perché la rese critica e inclusiva, mai soddisfatta o esclusiva, permettendoci di continuare a vivere l’avventura del nuovo quando tutto sembrava indicare che, al di fuori dell’arte e, forse, anche per l’arte stessa, non esistesse novità possibile perché il progresso aveva smesso di progredire.

Cortázar ci parlò di qualcos’altro: del carattere insostituibile del momento vissuto, del piacere pieno di un corpo unito a un altro corpo, della memoria indispensabile per avere un futuro e dell’immaginazione necessaria per avere un passato.

Quando Julio morì, una parte del nostro specchio si ruppe e tutti vedemmo la notte supina.

Adesso, a Guadalajara, dove abbiamo istituito la Cattedra Julio Cortázar, io e García Márquez vogliamo che il Gran Cronopio si accerti, come disse allora Gabo, che la sua morte fu solo un’invenzione incredibile dei giornali e che lo scrittore che ci insegnò a vedere la nostra civiltà, a dirla e a viverla, oggi è qui, invisibile solo a coloro che non hanno fede nei cronopios.

Desideriamo che questa Cattedra rifletta gli interessi di Julio – letteratura, arte, società, politica –, che serva da stimolo alla splendida gioventù universitaria a cui si rivolge e che adesso convochiamo anche attraverso le pagine di questo quotidiano.

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