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Gli Smiths in 8 canzoni raccontate da Johnny Marr

redazione Autori, BIGSUR

Esce in questi giorni nella collana BIG SUR Set the Boy Free, l’autobiografia di Johnny Marr. Proponiamo qui un piccolo percorso di ascolto attraverso le parole (e la musica) del chitarrista e fondatore degli Smiths.

  1. The Hand That Rocks the Cradle

Il nostro secondo incontro fu nella mia stanza da Shelley. Morrissey venne nel pomeriggio e salimmo le scale fino alla mansarda passando davanti ai ritratti incorniciati dei divi anni Sessanta di Shelley. Era di nuovo una bella giornata e dalla finestra aperta si sentivano i bambini che giocavano nel cortile della scuola. Morrissey tirò fuori qualche altra canzone per farmici lavorare. Appena presi le pagine vidi il titolo «The Hand That Rocks the Cradle» e senza pensarci iniziai a suonare un giro di accordi sulla falsariga di «Kimberly» di Patti Smith. Aveva una scansione che sembrava adattarsi perfettamente al testo e mi suggerì una linea di basso, che suonai contemporaneamente. Continuai a suonare, poi Morrissey cominciò a cantare le parole, e nel giro di pochi minuti il brano era nato. Dopo aver riso molto e averla provata un paio di volte, registrai quello che avevamo sul mio multitraccia, quindi ci sovraincisi una parte squillante di chitarra: io e il mio nuovo amico avevamo la nostra prima canzone.

 

  1. Suffer Little Children

Guardai il testo successivo, una canzone intitolata «Suffer Little Children»; mi sedetti per terra a gambe incrociate con la chitarra e i due fogli di carta ai miei piedi e schiacciai il tasto «rec». Mentre guardavo di nuovo le parole, le mie mani cominciarono a suonare una melodia. Stava succedendo qualcosa: la canzone si era materializzata nell’etere. Continuai con la strofa e Morrissey cominciò a cantarci sopra: le parole e la storia mi apparvero davanti agli occhi e in testa. Seguii lo slancio mentre la chitarra forniva la musica per la voce e improvvisamente la canzone era tutta pronta, una canzone che non somigliava a nient’altro e dava sensazioni che nessun altro gruppo dava, una canzone che parlava dei Moors Murders. Non riuscivo a capirla. Sapevo solo che sensazione dava: quella di una strana autenticità. Le mie emozioni erano sospese in aria e mi limitai a cogliere l’attimo. Presi un piccolo carillon che avevo in camera, lo caricai e andai alla finestra. Tenni il carillon fuori dalla finestra mentre suonava la sua melodia; nell’altra mano avevo un microfono e la registrai insieme al suono dei bambini che giocavano. A parte la sorpresa di un testo tanto inaspettato, in quella seconda canzone c’era un senso forte dell’identità di inglesi del nord che attirò la mia attenzione più di ogni altra cosa e definì una nostra caratteristica fin da quel primo giorno di prove insieme. Sembrava significare: «Noi facciamo le cose in modo diverso».

 

  1. Hand in Glove

Ero a casa dei miei con Angie, e strimpellavo distrattamente una vecchia chitarra acustica che avevo lasciato lì. In un primo momento il riff che suonavo assomigliava a qualcosa che avrebbe potuto fare Nile Rodgers con gli Chic, ma poi si adattò rapidamente al mio stile, finché non trovai quella che mi sembrò ispirazione pura. In casa non avevo la possibilità di registrare il pezzo e l’unico modo per farlo sentire a Morrissey era andare a casa sua con la chitarra e suonargliela prima di dimenticarmela. Supplicai Angie che mi accompagnasse con il Maggiolino e partimmo subito; intanto io continuavo a suonare la melodia con la chitarra, facendo del mio meglio per non cambiarla o dimenticarla. Durante il viaggio Angie mi diede un suggerimento, cosa che non faceva quasi mai. «Suonala come se fosse un pezzo di Iggy», disse.

«Eh?», le chiesi.

«Suonala alla Iggy», ripeté, e ora sembrava un ordine più che una richiesta.

Adattai l’approccio ritmico veloce e secco che stavo usando e cambiai il riff in una fantastica strimpellata sugli accordi aperti che pensavo somigliasse di più a un pezzo di Raw Power, e nel giro di pochi secondi era davvero perfetto. Continuai a suonare il riff e quando arrivai da Morrissey pregai che non fosse una delle rare occasioni in cui usciva di casa. Aprì la porta e trovò me che strimpellavo e gli parlavo balbettando di una nuova canzone; così, mentre gli suonavo la serenata sulla soglia di casa, lui corse a prendere il registratore. Non vedevo l’ora di far sentire la nuova canzone a Mike e Andy e un paio di giorni dopo, quando ci trovammo per provare, ottenemmo subito un buon suono. Poi Morrissey prese il microfono con in mano un foglio di carta, ci lanciammo tutti nella canzone per la prima volta insieme e bam! Si intitolava «Hand in Glove» ed era la cosa migliore che avevamo scritto. Lo spirito del cantato era lo stesso di quello della chitarra. La canzone ci definiva e descriveva la devozione e la solidarietà di un’amicizia forte. Era una dichiarazione e il nostro manifesto. Il testo era perfetto, la musica era perfetta, la mia vita era perfetta.

 

  1. This Charming Man

Una mattina mi svegliai con l’idea di scrivere qualcosa che avesse un tono ottimistico. Avevo notato che gli Aztec Camera, nostri compagni di etichetta, venivano trasmessi molto alla radio e mi chiesi se fosse perché le loro canzoni erano più vivaci e spensierate delle nostre. Il sole entrava dalla finestra; presi la chitarra e strimpellai una sequenza di accordi che evocava la sensazione che cercavo. Dopo un minuto, un’altra sequenza mi apparve dal nulla sotto le dita, e dopo averla seguita per un po’ mi sembrò di avere tra le mani una canzone. Senza bisogno di rifinirla, registrai quello che avevo e poi sovraincisi la prima cosa che mi venne in mente. La riascoltai, pensai che il brano aveva un buon feeling che sembrava essere venuto fuori come per magia; portai la cassetta nell’ufficio di Joe e la diedi a Morrissey. Un paio di giorni dopo provammo e ci divertimmo subito molto a suonarla, poi Morrissey ci cantò sopra il suo testo e la canzone diventò «This Charming Man». Quando la musica nasce in modo spontaneo, per quanto sia complessa o emotiva, mentre la si crea si prova una sensazione incredibile.

 

  1. Meat Is Murder

Verso la fine delle registrazioni, mentre eravamo seduti nella cabina di regia, Morrissey mi chiese che ne pensavo di intitolare l’album Meat Is Murder. Lo trovai un titolo fantastico: era forte e affermava un principio. Era perfetto per noi. Poi decidemmo che dovevamo scrivere anche un brano con lo stesso titolo. Il vegetarianismo era un ideale tutt’altro che estraneo per me. Quando ho conosciuto Angie era vegetariana, e quando ho conosciuto Morrissey e ho scoperto che era vegetariano non ho avuto niente da ridire. Restavo sempre stupito quando la gente diceva che era una scelta troppo drastica. Prima di incidere l’lp Meat Is Murder mangiavo carne per abitudine, ma nel momento in cui abbiamo avuto una canzone intitolata «Meat Is Murder» ho smesso di farlo e non ne ho più mangiata.

[…] Nel comporre la musica per la canzone «Meat Is Murder» partii dall’idea di scrivere qualcosa di melodrammatico e lugubre, ma non tanto da non poterci cantare sopra. Facendo esperimenti con accordature di chitarra che mi mettevano di umore cupo, alla fine venni fuori con alcune sequenze di accordi. Pensai ai film horror che a volte usano il motivo di una nenia infantile per trasmettere un senso di terrore, o di minaccia all’innocenza, e trovai un paio di note sul pianoforte che si adattavano alla perfezione all’atmosfera che cercavo. In pratica composi la colonna sonora dell’orrore che un animale innocente vive sulla sua pelle. Morrissey ascoltò la musica per un giorno, poi arrivò con il testo finito e registrò la voce solista in una sola ripresa.

 

  1. There Is a Light That Never Goes Out

Lavoravo alla canzone successiva solo da un paio di giorni: aveva una sequenza ariosa di accordi minori che portava a un ritornello allegro; avevo inserito un cambio di ritmo preso dai Velvet Underground come tocco sbarazzino, dato che loro lo avevano copiato a loro volta dagli Stones. In un primo momento pensai che la canzone poteva essere un lato b, perché mi era venuta fuori con tanta facilità, ma mentre la suonavo ne sentivo la sicurezza, quella qualità indefinibile che viene fuori da chissà dove. Avevamo la sensazione di avere per le mani qualcosa di valido.

[…] Una mattina ci trovammo per registrare il nuovo pezzo appena composto, «There Is a Light That Never Goes Out». Decisi di registrarla con l’acustica Martin con cui l’avevo composta, per rendere quella qualità ariosa, e provai gli accordi con Andy e Mike, che la sentivano per la prima volta, mentre Stephen Street faceva alcuni aggiustamenti al suono. La musica si amalgamò in fretta, e questo di solito è il segnale che si ha a che fare con una bella canzone. Per me quando scrivevamo qualcosa di nuovo era sempre un momento importante, ma con «There Is a Light» fu palese che stavamo creando una magia: sembrava che la musica si suonasse da sola. Quando Morrissey si mise al microfono e suonammo la canzone con il gruppo per la prima volta, però, tutte le mie aspettative furono superate. Ogni verso era perfetto mentre il testo e la musica ci trascinavano nel nostro nuovo inno. Eravamo esaltati e dopo solo poche registrazioni avevamo finito una delle nostre migliori canzoni di tutti i tempi, e un pezzo che allora sembrava trascendere la musica pop.

 

  1. The Queen Is Dead

All’inizio dell’anno era uscito un nuovo album di pezzi inediti dei Velvet Underground, VU. Tutti i miei amici di Manchester avevano divorato ogni singola nota disponibile dei Velvet, quindi la scoperta di materiale inedito era paragonabile a quella di dieci nuovi comandamenti. Mi infatuai della canzone «I Can’t Stand It». Adoravo il cantato di Lou Reed e rimasi particolarmente colpito da quei pochi secondi di chitarra ritmica graffiante di Sterling Morrison che viene appena prima del cantato. Sterling Morrison mi era stato di grande ispirazione ai miei inizi e il suo stile di chitarra mi faceva impazzire. Entrai in fissa con «I Can’t Stand It»: la sua semplicità e il suo ritmo mi conquistarono con la stessa immediatezza di quando avevo sentito Bohannon e Bo Diddley per la prima volta. Spesso la gente resta colpita dai chitarristi che esibiscono la loro abilità tecnica, ma io ho sempre preferito una chitarra che fa «ta-ta-ta-ta-ta». È primordiale e umana, ed evita la trappola dell’ego che è d’intralcio quando si deve esprimere qualcosa di semplice. Integrai lo stile scabro di Sterling Morrison in una progressione di accordi su cui stavo lavorando e da quell’ispirazione mi ritrovai con un brano di sei minuti e mezzo ululato e spacca tutto, «The Queen Is Dead», che avrebbe dato il titolo al nostro nuovo album. Quando incidemmo la canzone suonai con un pedale wah-wah e, nel rimettere la chitarra sul cavalletto, partì un forte feedback nella stessa tonalità del brano. Chiesi a Stephen di accendere il registratore a bobine e tenni la chitarra in feedback sul cavalletto premendo il piede avanti e indietro sul wah-wah per creare un ululato spettrale. Mentre il brano scorreva io continuavo a pensare: «Ti prego, feedback, non fermarti. Non mollarmi adesso» e quello continuava: fu un colpo di fortuna fenomenale. Quando arrivai alla fine entrai in cabina di regia e il gruppo applaudì. Un paio di giorni dopo Morrissey registrò la voce: fu una delle nostre esecuzioni migliori. Aveva un testo geniale ed era una composizione fantastica, che dava ai musicisti del gruppo lo spazio per mostrare esattamente quello di cui erano capaci. In alcuni ambienti gli Smiths erano stati liquidati come una sorta di indie pop stravagante. La title track del nostro nuovo album avrebbe rivelato quanto era sbagliata quella valutazione.

 

  1. Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me

Il gruppo andò in uno studio con alloggi annessi, il Wool Hall di Bath, a incidere Strangeways, Here We Come; finalmente ero nel mio elemento. Non avevo bisogno di sapere cosa stava succedendo nel mondo esterno o vedere chiunque non fosse il gruppo e Angie, e avevo tutto il necessario. Adoravo le nuove canzoni. «Unhappy Birthday», «Stop Me If You Think You’ve Heard This One Before» e «Death of a Disco Dancer» erano delle performance fantastiche del gruppo e avevano uno spirito spensierato che mi ricordava il nostro primo album con Troy Tate; e con «A Rush and a Push and the Land Is Ours» avevo il mio pezzo composto interamente alle tastiere in apertura di album. Il momento migliore di Strangeways era «Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me». Era costruita intorno a un riff che mi venne fuori mentre ero seduto in fondo al tour bus un giorno in cui mi sentivo solo, e quando lo finimmo pensai che avevamo raggiunto un livello di emozione insuperabile. La canzone incarnava tutto quello che era unico nel nostro gruppo. Sembrava la rappresentazione della nostra vita.

 

Le citazioni dell’articolo sono tratte da Set the Boy Free, tradotto in italiano da Anna Mioni.

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