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La lunga risata di tutti questi anni / 1

Diego Erlan Rodolfo Fogwill, SUR

Rodolfo Fogwill è stato, senza dubbio, l’ultimo maledetto della letteratura argentina. I suoi archivi privati, ai quali la rivista «Ň» ha avuto accesso in esclusiva, permettono di intromettersi nelle sue liti, sogni, romanzi inediti, e in un disperato diario intimo scritto a fine anni ’80. L’illustrazione è di Maximiliano Chimuris.

di Diego Erlan
traduzione di Cintia Scianna e Fabrizio Gabrielli

Quando Vera aprì la porta dell’appartamento di suo padre a Palermo, Buenos Aires, si trovò di fronte a uno scenario catastrofico: libri ammucchiati su ognuno dei gradini della scala che portava alla camera da letto, uno o due o tre computer, cavi in disordine, una scrivania piena di scartoffie, matite, penne, pennarelli, quaderni, bussole, orologi e una calcolatrice. Un disordine schiacciante. Su quella scrivania dove suo padre lavorava trovò anche un foglio stampato, senza titolo, che richiamò particolarmente la sua attenzione. Era una specie di poesia: “Non ci sei / io sono qui con te / anche se siamo lontani / tu sei sempre nel mio cuore / non sei sola”. Vera realizzò che si trattava di You are not alone, una canzone di Michael Jackson che suo padre aveva tradotto per sua sorella minore. Però era anche, in qualche modo, una lettera di addio.

Fogwill era morto.

Dopo quel 21 agosto 2010 i figli maggiori, Vera e Andy, dovettero combattere con l’universo che gravitava attorno alla morte del padre: pratiche, debiti, ricordi, amici che chiamavano per avvertirli che il sito web era offline. Dovettero cercare tutti i documenti, il certificato di nascita, avvertire tutte le banche dove Fogwill aveva un conto (e i cui saldi erano a zero) che non avrebbe mai più potuto pagare i prestiti che aveva chiesto. Un figlio non è mai pronto per il giorno in cui muore suo padre. Anche se in questo caso Fogwill l’aveva lasciata, qualche chiave. Perché nella sua particolare retorica, lo scrittore credeva che il posto dei morti è uno spazio che attraverso la storia è stato al centro di una disputa tra le istituzioni religiose, familiari e politiche. Diceva che lo Stato moderno e la sua complessa trama di regolamentazioni sanitarie, statistiche e forensi hanno rappresentato il trionfo della politica sugli altri ambiti in lizza solo in maniera apparente. Perché a metà del ventesimo secolo – spiegava – l’impresa capitalista e il sistema finanziario si sono intromessi con successo nella disputa, e dal ruolo di meri fornitori e appaltatori di uno Stato onnivoro sono passati a quello di offerenti e titolari della poderosa industria dell’amministrazione privata della morte e del trattamento – conservazione o riduzione a polvere – del cadavere umano. Un Fogwill duro e puro. Per questo la famiglia non sapeva che fare: cremarlo, dargli sepoltura in un cimitero privato o forse cercarne un altro a Quilmes. Vera ricordava che una volta suo padre le aveva detto che quando fosse morto l’avrebbero potuto gettare nella spazzatura e fine della storia; però in pochi erano pronti a disfarsi così facilmente di lui, e alla fine decisero di inumarlo in un cimitero di Ezpeleta, a Quilmes, vicino a una cantina di famiglia. Era di lunedì. Il giorno precedente, nel funerale nella Biblioteca Nazionale, Vera aveva reincontrato un’amica archivista, Verónica Rossi; era stato allora che aveva capito cosa avrebbe dovuto fare.

“Non sono adatto al matrimonio: non c’è persona viva che abbia perso tante cose, case, mobili, armi, macchine fotografiche, vestiti, floppy disk, dischi e libri come me. Venti anni fa mi sono rassegnato a vivere senza libreria, il che mi preserva da qualsiasi compromesso con simulacri critici e accademici. Scrivere mi sembra più facile che evitare la sensazione di nonsense di non farlo. Ho navigato molto, piantato qualche albero e cresciuto cinque figli. Pensare al sole, navigare e generare figli e servirli sono le attività che più mi si confanno: confido nel continuare a ripeterle”, diceva lo scrittore nel 1998 quando pubblicò quel meraviglioso pezzo di autobiografia che incluse nell’edizione spagnola della sua opera omnia. “Quel che ha lasciato qui lo ha lasciato per un motivo”, dissero i figli entrando nell’appartamento. C’erano cose che Fogwill aveva conservato per settant’anni. Le lettere, ad esempio. “Sono circa quattrocento lettere divise per destinatario, nascoste in buste del supermercato”. Non si capiva che avessero un valore. “Lettere importanti, almeno per lui, messe dentro una busta del supermercato sistemata in una valigia che era sotto un altra valigia sotto i pesi della palestra”, racconta Vera. Ad esempio: sette bustine con lettere di Osvaldo Lamborghini scritte su fogli di quaderno Rivadavia. [Marchio storico di cancelleria che ha accompagnato generazioni di argentini in età scolare; ndt]

Vera ricorda quel che suo padre le diceva da piccola: questo non si tocca. “Ma ho bisogno di una bustina per mettere il costume bagnato”, diceva Vera. E lui ripeteva: non-si-tocca.

Adesso, due volte a settimana, Verónica Rossi arriva al Malba [Museo de Arte Latinoamericano de Buenos Aires], dove Soledad Costantini le ha concesso uno spazio in cui decifrare le carte segrete di Fogwill. È già da quasi un anno e mezzo che  ha iniziato a riordinare questo archivio, con la collaborazione di Magdalena Arrupe del dipartimento di letteratura del museo, e le resta ancora un altro anno per dedicarsi al materiale digitale: le email che spediva o riceveva, la musica che ascoltava, i file persi nel suo computer. “Questo è patrimonio letterario di un paese”, dice Vera. “C’è tutta una serie di aspetti che fanno sì che sia, nel bene o nel male, un personaggio rilevante per nostra cultura”, dice. E anche se non ci sono risorse sente che salvaguardarlo è un obbligo. “Una delle cose più grandiose di mio padre è che non dava lezioni di letteratura: perché per lui l’arte non poteva essere insegnata”, conclude Vera, che è attrice, drammaturga e regista di cinema.

Tra i documenti classificati finora è stato possibile identificare lettere di César Aira, Juan José Saer, Héctor Viel Temperley, Alberto Laiseca, Leónidas e Osvaldo Lamborghini e Leonardo Favio. Altre, che non sono firmate né riportano una data, dovranno essere analizzate da un calligrafo. Per fortuna, dice Vera, Verónica è in grado di interpretare la grafia. E questo perché ha studiato calligrafia nel suo corso di studi in Storia, specializzandosi in Italia come archivista e lavorando per la Fondazione Rockefeller e il MoMA. In parte, questa corrispondenza permette di approfondire i rapporti tra quella costellazione di autori che cominciarono a gravitare nella letteratura argentina negli anni ’70, ’80 e ’90. “Mio padre documentava pure le dispute”, dice Vera. Contro Coca-Cola, quando gli conferirono il premio per il racconto Muchacha punk; contro Juan Forn e Planeta per il finale – che gli era stato modificato – di uno dei suoi romanzi; contro un cane che l’aveva morso contagiandolo con la rabbia. E poi c’è del materiale interessante: tutte le discussioni estetiche che Fogwill mantenne con le case editrici sull’edizione e il taglio della sua opera. “Quella è una delle cose che voglio preservare: il modo in qui mio padre difendeva i suoi testi”, conclude Vera.

“Si tratta di un lavoro lungo, perché bisogna capire la sua logica e rispettarla”, aggiunge Verónica.

Ordinare l’archivio nel suo disordine. O, come dice la specialista, “recuperare gli archivi mantenendo l’anima della persona”. Fogwill studiò medicina fino al terzo anno laureandosi però in sociologia a 23 anni; fu ricercatore di mercato e esperto in marketing e pubblicità e in una delle sue imprese, Ad-Hoc, si tolse perfino lo sfizio di mettere sotto contratto (almeno per un certo periodo) poeti come Osvaldo Lamborghini e Néstor Perlongher.

Bancarotta assicurata.

Il 15 gennaio 1980, ad esempio, Fogwill scrive una lettera a Germán García in cui riconosce gli insegnamenti che gli aveva impartito in alcune lezioni nel bar La Paz [a partire degli anni ’60 e fino al 1976, luogo di ritrovo della boheme porteña; ndt]. C’è traccia di uno stile letterario, il modo in cui i suoni si inanellano nella loro varietà, scivolano, si legano, si sorpassano, trionfano in una continua proiezione, “anche nei momenti di totale disordine nella sua prosecuzione”, come diceva William Carlos Williams. Quello è il “corpo ritmico unico” della scrittura fogwilliana, come ha osservato Arturo Carrera. E in quello stesso stile sono scritte lettere in cui non mancano punzecchiature personali e osservazioni taglienti sulla politica nazionale. Dice Fogwill a Germán García: “le cose più lucide che ho letto sulla politica in Argentina, oltre a Terragno e qualche articolo mio, sono in Literal 1. Literal è un covo di tonti, ex-fidanzate, leccapiedi, cattivi scrittori. Un giornalaccio. Le cose migliori che ha pubblicato in letteratura sono quelle di Lamborghini. Sulla psicoanalisi non mi intrometto. La Scuola Freudiana è un’entità inutile come l’Associazione Argentina dei Dirigenti di Impresa. Neanche a dire che è l’Istituto Di Tella [L’Instituto di Tella è un centro di ricerca culturale che tra il 1960 e 1975 fu il “tempio delle avanguardie artistiche”; ndt] dell’analisi, che quello casomai era più elegante. Preferisco i lacaniani ai kleiniani perché sono più marginali. La psicoanalisi deve essere una cosa marginale, ma è poca cosa in confronto alla filosofia e alla letteratura, è per questo che io non sono né psicanalista né analiticologo. Né simpatizzante di Lacan, né amico di lacana [la cana è la polizia in gergo; ndt]. È un vero peccato che tanta gente sprechi tempo dietro a queste cose. Sono in terapia per ragioni psicoanalitiche, non perché non mi viene duro né perché guadagno poco né per insonnia né perché sono psicosomatico. Casomai psicopsichico. La letteratura, la filosofia, la grana, sono le tre cose più simili al vero potere, e a volte ci si possono confondere. Io me ne resto con il piacere della verosimiglianza e spero intensamente che la corrente là mi conduca. Altrimenti sarà un peccato”. La lettera continua e nella seconda pagina (hanno tutte un’intestazione personalizzata) Fogwill suggerisce a Germán García: “Dovresti leggere i miei ultimi romanzi per vedere la differenza tra la letteratura scritta con piacere per il gusto di leggere di quelli che sanno, e quella scritta con malavena per la sofferenza di quelli che credono, di leggere, e non sanno che esiste il piacere”.

Ammirazione dimostra pure una lettera di Fogwill a Osvaldo Lamborghini spedita al Gran Hotel América Larre dove l’autore di El fiord era riuscito a trovare sosta. Dice Fogwill: “come già ti dissi, rileggendo il Sebregondi [uscito nel 1973 col titolo di Sebregondi retrocede; ndt] dopo diversi anni ho scoperto che non c’è nulla nella mia opera post 1973 che valga due soldi che non sia stato un prodotto della tua, di opera. C’è qua è la del plagio che si infiltra inavvertitamente. Involontariamente.” Nondimeno, Ricardo Strafacce ha documentato nella sulla biografia di Lamborghini la “guerriglia” postale che i due intrattennero a causa degli errata quando le poesie di Lamborghini stavano per essere pubblicate dalla casa editrice Tierra Baldía.

Questa lettera, forse ironica di Fogwill, è successiva: “Ho giusto letto la bella edizione della tua opera che ha appena presentato Tierra Baldía. Questa nuova lettura è diversa. Ora quelle stesse poesie, che se prima solo la smuovevano adesso finiscono per appiccarla, l’odiosa fiamma del senso, sembrano più vive. Un corso di letteratura da due spicci. Ecco cos’è. Però hai azzeccato i miei auspici: la tua opera dovrebbe rimanere relegata ancora per altri quindici o venti anni. Chi si metterà a scrivere senza terrore dopo di te? Rimane qualcosa da dire?”.

La lettera che Fogwill riceve da Aira segue la stessa linea. Sebbene non sia datata e si possa supporre che sia stata scritta sul finire degli anni ’70, fa luce sul modo in cui questi autori si leggevano, criticavano e rispettavano fin dal inizio delle rispettive carriere. Aira ringrazia per gli apprezzamenti su Ema, la cautiva [romanzo allora inedito, poi uscito nel 1981 e tradotto anche da noi con il titolo Ema, la prigioniera; ndt] e confessa che gli serviva proprio una cosa del genere, anche se in quel momento lo considera un romanzo fallito. Inoltre gli confessa che nessun editore vuole pubblicarlo e lui, a sua volta, non ha la forza né “una certa dose di insistenza” per farli cedere. Al contempo, crede che il romanzo che Fogwill gli ha sottoposto (è possibile che sia La buena nueva, che fu pubblicato solo nel 1990?) è un grande meccanismo di ambiguità nel suo genere, tra il libro di viaggio e il romanzo familiare, “una specie di Tristram Shandy postcapitalista e soprattutto postpsicologista, quasi troppo buonista, quasi come se volesse negare che gran apprendistato è, il fallimento”.

Fogwill sognava i cimiteri

Fogwill aveva sei indirizzi email. Una pagina web. E Vera ha trascorso varie settimane a tentare di recuperare il materiale già uscito sul sito. Ma non è stato facile, perché suo padre non aveva un contratto con un server di quelli classici. Aveva conosciuto un hacker a Córdoba, che viveva in un posto in cui non arrivava il segnale di Internet, e che tutti i martedì se ne andava in un emporio, unico posto in cui era possibile rintracciarlo. Dopo qualche tempo è riuscita a recuperare il materiale, l’infinità di mail di giovani scrittori, case editrici, direttori di banca. Tra quelle ce n’era una del poeta, critico ed editore de La Voz del Interior, Carlos Schilling, nella quale diceva che aveva letto i suoi “testi sui sogni” e che gli erano sembrati della giusta forma in cui i sogni, casomai, risultano interessanti: “tra l’introspezione psicologica, il saggio e il semplice racconto mattiniero di chi si risveglia ancora illuminato da ciò che ha appena visto con gli occhi chiusi”.

Già in un’intervista concessa a Leila Guerriero nel 2008 Fogwill faceva riferimento a una cartellina in cui conservava pagine manoscritte. “Sono tutti i miei sogni – spiegava – che ho annotato nel 1971. Qua che dice? Non lo so. Perché si produce il degradé? Ecco. Lo leggo, e di colpo c’è una parola chiave che mi permette di ricostruire il sogno”, le aveva confessato. E la giornalista aveva descritto delle pagine in cui non c’erano lettere, né parole, ma qualcosa di illeggibile, “qualcosa di liquefatto, qualcosa che non sembra scritto da mano umana”. Quei sogni, scritti per anni in quaderni di appunti, Verónica li ha ritrovati tra gli scatoloni dell’archivio. La gran ventana de los sueños, titolo che Fogwill aveva scelto per il libro che aveva lasciato bell’e pronto e che probabilmente verrà pubblicato il prossimo anno, raccoglie le sue visioni oniriche ed è, per il lettore, come una visita guidata alla sua mente: sono le memorie del suo inconscio. Forse una mappa (o una delle chiavi) per comprendere parte della sua logica. Ci sono elementi ricorrenti: il mare, gli scrittori celebri, le regressioni all’infanzia, i cimiteri-bosco. Lo stesso Fogwill spiega, in quell’intervista, che i sogni sui cimiteri sono “ricchissimi di sensazioni visuali e tattili, nei quali non uso l’udito che per le parole – mai sentito né il rumore delle foglie, né quello dei rami mossi dal vento – né registro, come in tutti i miei sogni del resto, alcuna sensazione olfattiva”. Fogwill riflette poi sul fatto che forse è proprio così, che viviamo noialtri umani: come coscienze piene di odori percepiti, “eppure memorie svuotate dall’odore, e sogni privi di odori, e di logica, e poi – quasi senza eccezione – di colori”. E termina così: “Sebbene sacrificati sull’altare di una trama, e raggruppati tra loro da uno sforzo classificatorio senza senso, continuano a conservare qualcosa della loro verità, per chi li narra. Io contemplo quei sogni come i personaggi di quei sogni contemplano i morti”.

© Diego Erlan, 2012. Tutti i diritti riservati.

[Leggi qui la seconda parte]

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