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La freschezza del mondo moderno

Shehryar Fazli BIGSUR, Scrittura

A novant’anni dalla pubblicazione di Fiesta (1926), un saggio appena uscito negli Stati Uniti ripercorre la genesi del capolavoro di Hemingway. Questo pezzo è uscito originariamente sulla Los Angeles Review of Books e viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore e della testata.

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di Shehryar Fazli
traduzione di Tessa Bernardi

Leggere o rileggere Hemingway significa sempre, almeno in parte, indagare il mistero della sua importanza. Gli ideali che incarnava – la mascolinità e la «dissipazione eroica», per citare Edmund Wilson nella raccolta di saggi La ferita e l’arco – sono datati, mentre il fascino del suo stile solo apparentemente spoglio sembra essere sfuggito alle numerose generazioni di romanzieri americani che preferivano l’eccesso all’omissione. Comunque, anche se non ne sappiamo spiegare il motivo, non si può nemmeno negare che Ernest Hemingway continui a suscitare interesse.

Everybody Behaves Badly: The True Story Behind Hemingway’s Masterpiece “The Sun Also Rises” di Lesley M.M. Blume offre l’opportunità di affrontare di nuovo la questione. Non è soltanto una ricostruzione della genesi della prima opera maggiore di Hemingway, ma anche di un momento importante nella storia della letteratura, quando il modernismo stava maturando in botte e Hemingway si preparava a versarne il primo boccale agli Stati Uniti. Il libro di Blume, un po’ come l’opera postuma di Hemingway Festa mobile, tratta la ricerca da parte dell’autore tanto di uno stile quanto di un soggetto che fossero sia del tutto moderni che in grado di catturare l’immaginazione di un pubblico più vasto.

Pubblicato nel 1926, Fiesta [The Sun Also Rises] deve parte del proprio successo a una buona operazione di marketing. Gli sforzi della Charles Scribner’s Sons per promuovere il libro erano la norma per una casa editrice che, in quel periodo, si stava facendo una reputazione come curatrice della letteratura più moderna e attuale, chiaramente bollando in modo implicito (o persino esplicito) come non al passo coi tempi chiunque non abbracciasse i suoi titoli. Se mai ci fu un momento per insistere con questa strategia, fu con Fiesta. Hemingway lo definisce prima ancora delle battute d’apertura del romanzo, con un’epigrafe in cui Gertrude Stein si riferisce a lui e ai suoi compagni del dopoguerra come a una «generazione perduta».

La generazione della Grande guerra ha consegnato ai suoi successori un mondo distrutto, plasmato dall’estremismo e pieno di incertezze, menzogne smascherate, istituzioni screditate, codici d’onore rinnegati. Le convenzioni artistiche contemporanee non riuscivano a esprimere il modo in cui i giovani scrittori come Hemingway, che era stato sui campi di battaglia di una guerra immane e insensata, percepivano questa nuova realtà. Come scriveva Alfred Kazin: «Finirono con un solo balzo dal mondo della loro infanzia nel Midwest a quello di Caporetto, Dada, Picasso e Gertrude Stein, e il distacco dalle tradizioni natie divenne la loro prima nuova tradizione». Questo avrebbe posto nuova enfasi sulla volontà individuale. Nelle arti, l’originalità e la soggettività sarebbero diventate centrali, ribaltando le norme vigenti che avevano concesso fin troppo alle verità «oggettive».

L’esordio letterario di Hemingway, come dice Blume, ebbe luogo all’interno di un «piccolo movimento di scrittori […] che stavano cercando di spingere la letteratura fuori dagli ammuffiti corridoi edwardiani, verso la freschezza del mondo moderno». Ma le ambizioni di Hemingway erano ancora più grandi. Non sarebbe diventato un modernista sperimentale come Stein, sua prima sostenitrice, o E.E. Cummings, che incontravano solo un pubblico ristretto. Hemingway era determinato a non diventare soltanto un autore ammirato, ma anche molto letto, e a coltivare una voce che penetrasse direttamente la trama della vita. Picasso lo stava già facendo con la pittura; Hemingway, secondo Blume, stava «tentando un approccio simile, tra il raffinato e il popolare, nel regno della letteratura». Il primo passo era rifiutare la ricercatezza di Henry James ed Edith Wharton, i cui aggettivi barocchi, riflettendo la mentalità vittoriana, nascondevano più di quanto rivelassero e offrivano un senso di rassicurazione. Ma un mondo che aveva appena cercato di autodistruggersi non aveva niente per cui sentirsi rassicurato. Ciò che doveva essere messo in mostra erano le basi terrificanti della vita moderna, senza la falsa consolazione della bellezza; le linee dure di Picasso, le frasi spoglie di Hemingway – ciò che Blume descrive come «un contenuto nudo e crudo reso con uno stile nudo e crudo».

La prima frase del romanzo avrebbe potuto essere quella di un libro qualsiasi del secolo precedente: «Robert Cohn era stato un tempo campione di pugilato di Princeton, categoria pesi medi». Ma la frase successiva sovverte l’era vittoriana e la scalza con una traslazione intensamente personale e idiosincratica degli eventi: «Non crediate che questo, come titolo pugilistico, a me faccia una grande impressione, ma per Cohn significava molto». Concedendo autorevolezza a un singolo piuttosto che a una voce collettiva, il romanzo si preannuncia come un’opera modernista.

Nonostante alcuni sporadici flussi di coscienza splendidamente nevrotici, Fiesta non era affatto astratto – né una sovversione ai livelli di Ulisse, pubblicato quattro anni prima. Inoltre, seppur controversi per quei tempi, è ovvio che gli elementi scandalosi del romanzo siano trascurabili per gli standard odierni: allora le parolacce, una protagonista femminile promiscua come Lady Brett Ashley e la decadenza delle classi bevitrici potevano anche spingersi oltre il limite, ma oggi non si qualificano come un oggetto di studio particolarmente avvincente. Joyce fece molto di più per scuotere le convenzioni puritane, provocando roghi di libri, messe al bando e battaglie che alla fine condussero a una vittoria non soltanto sua e dei suoi editori, ma anche della letteratura sulla repressione dello Stato. Da questo punto di vista, Ulisse resta indubbiamente significativo, e gliene viene dato atto nello splendido lavoro del 2014 di Kevin Birmingham, The Most Dangerous Book: The Battle for James Joyce’s Ulysses. Ma perché un libro dedicato al romanzo di Hemingway?

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Gran parte del percorso biografico che conduce a Fiesta ci è familiare. Agli inizi degli anni Venti, Hemingway lascia gli Stati Uniti e si trasferisce con la moglie Hadley a Parigi – nelle parole di Blume, l’ufficioso «laboratorio di scrittura innovativa e il presunto centro creativo dell’universo» – per un incarico giornalistico. Lì, armato di un avallo scritto di Sherwood Anderson, l’ambizioso ventenne viene ammesso alla cerchia di letterati espatriati, la cui matriarca, Stein, ne incoraggia le ambizioni e il talento e gli permette di conoscere persone come F. Scott Fitzgerald, Ezra Pound, Picasso e molti altri. Oltre agli articoli di giornale, pubblica racconti, bozzetti e parodie, mentre continua a cercare un soggetto per il suo primo romanzo. Una visita a Pamplona, in Spagna, gli fa conoscere la corrida, una passione che si lega intimamente alla sua ambizione letteraria, che è quella non soltanto di unirsi alle file dei maestri, ma addirittura di superarli. (Blume suggerisce che la prima visita di Hemingway a Pamplona sia stata quella che ha ispirato Fiesta, ma si ritiene che in precedenza ci fosse già stato almeno una volta insieme a Hadley.)

Rielaborando questo aspetto trito e ritrito, Blume ci presenta il vivido ritratto di un giovane nessuno disperato, a volte malizioso, che cerca di diventare un grande – se non il grande – scrittore dei suoi tempi. Col senno di poi, le conseguenze appaiono inevitabili: era forse possibile che una forza come Hemingway non diventasse una stella? Blume, comunque, ne scompone il processo laborioso, e chiarisce l’importanza di mentori come il dinamico editor di Scribner, Max Perkins, che si oppose alle obiezioni di quei colleghi che trovavano Fiesta moralmente deplorevole.

Il risultato è una descrizione vivace di un’età vivace, in cui gli scrittori videro l’opportunità di cambiare la cultura – anche se solo pochi di questi aspiranti rivoluzionari si trovarono a competere per un pubblico di massa. Il primo tra loro fu F. Scott Fitzgerald con il best seller Il grande Gatsby (1925), romanzo tragico sull’oscurità insita nello scintillio dell’età del jazz. Ciononostante, Gatsby era una storia raccontata in modo tradizionale e, come scrive Blume: «Uno scrittore non poteva semplicemente scrivere della vita moderna; doveva farlo in un modo completamente moderno e rivoluzionario. Gatsby non ci riuscì […]. Ciò significava che il primo premio doveva ancora essere assegnato: la paternità di un romanzo portavoce di una generazione che avesse sia un soggetto moderno che uno stile innovativo».

È un po’ come leggere di quell’ultimo biglietto ancora in circolazione per la fabbrica di Willy Wonka. In questo caso, il premio da assegnare non sarebbe stato avvolto attorno a una barretta di cioccolato, quanto piuttosto a una musa, e Hemingway sembrava averla trovata in Lady Duff Twysden, un’espatriata inglese a Parigi che gli avrebbe fornito l’ispirazione per Lady Ashley. Blume la descrive come una «aristocratica inglese sensuale e dissoluta, con una predilezione per i borsalini da uomo e gli amanti occasionali». Un’altra visita a Pamplona, stavolta con Twysden, il suo compagno Pat Guthrie, un secondo amante (lo scrittore Harold Loeb) e altri espatriati, fornisce i tropi e i temi del romanzo: l’alcol, la gelosia, la rabbia, la contesa a volte violenta per le attenzioni di una donna, sullo sfondo delle fiestas e delle corride.

La trama di Fiesta è davvero scarna. Un piccolo gruppetto di stranieri va da Parigi a Pamplona, beve, prova amore, lussuria e gelosia, combatte e dimentica l’amore e la lussuria, e poi beve ancora. Tutto questo nel bel mezzo delle morti cruente e insensate dei tori e degli spettatori. Niente ordine o lezioni morali, perché quali lezioni sono mai possibili quando le nobili istituzioni della moralità non hanno più alcuna centralità? Il narratore è Jake Barnes, che si descrive come un «cattivo cattolico», la cui impotenza, causata da una ferita di guerra, impone alcune limitazioni essenziali alla sua depravazione, nonché alla sua storia d’amore (dolcemente non consumata) con Lady Ashley. È pertanto l’osservatore ideale, e angoscia e dannazione attraversano ogni aspetto del suo resoconto. In uno degli occasionali flussi di coscienza, si inginocchia in una cattedrale per chiedere «che le corride fossero buone e la fiesta bella e perché riuscissimo a pescare qualcosa», e altre cosucce di poco conto. Mentre i suoi pensieri divagano, l’abisso spirituale tra Jake e la chiesa si espande. Alla fine raggiunge un’assoluta consapevolezza di sé stesso, e il suo è più un atto parodico che una preghiera. L’ultimo pensiero prima di uscire è dedicato alla grandezza del cattolicesimo. «Avrei solo voluto sentirmi religioso», riflette, «e forse lo sarei stato la prossima volta».

La Grande guerra aveva fatto nascere un nuovo senso di grandezza nei rapporti umani. All’indomani, nel profondo degli uomini restava un residuo, una fame di esperienze estreme. Per l’impotente Jack, che almeno fino a un certo punto vive in modo indiretto, la corrida prende il posto della battaglia: dice a Cohn che «Nessuno vive mai tutta la propria vita, tranne i toreri». La guerra ha fornito a Hemingway (e a Jake) gli strumenti interpretativi per contemplare a pieno questo sport, e anche le descrizioni della fiesta sono ricche di immagini di guerra: il caffè è «come una corazzata pronta a entrare in azione», e il razzo che inaugura ufficialmente la celebrazione lascia una «grigia palla di fumo» che «rimase sospesa in cielo come un shrapnel appena esploso».

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Come tante altre pietre miliari, Fiesta ebbe i suoi detrattori. Il libro venne criticato, ci racconta Blume, per essersi avvicinato troppo agli eventi reali, niente meno che dagli (ex) amici di Hemingway, uno dei quali ebbe da obiettare definendolo come un «resoconto volgare». Gli esperti della critica simpatizzarono con questo punto di vista, come in un pezzo del Saturday Review of Literature, che «informava i lettori che nessuno dei personaggi di Hemingway poteva essere riconosciuto come il prodotto della fantasia dell’autore […], lasciando intendere che il libro era più un esempio di documentazione incisiva che un’opera di finzione».

Ma per quanto siano state fedeli le ricostruzioni di Hemingway, è proprio questa sensibilità dello «straordinariamente maledetto», per prendere in prestito la descrizione di Kazin, a rendere Fiesta un testo letterario duraturo. Ci vuole un acuto occhio artistico per riconoscere il potenziale letterario negli eventi della vita reale, per estrarne strutture che dicano qualcosa a proposito dell’esperienza umana, e per inserirle in una rappresentazione illuminante. È in questo che Hemingway ha trionfato. Il suo secondo talento fu quello di essere l’autore della propria vita così come delle proprie storie, plasmando con consapevolezza eventi che l’arte avrebbe poi potuto imitare, accostando le persone e provocando relazioni e conflitti tra loro e attorno a loro.

Il suo prodigioso appetito per la vita, se da un lato viene spesso celebrato, spiega anche cos’è che rende inquietante il libro di Blume. L’insistenza di Hemingway nell’imporre agli altri i propri gusti («mostrarsi meno che riverenti nei confronti delle corride è uno dei modi più sicuri per mettersi contro Hemingway», dice Blume), la gioia apparente con cui tradiva e si allontanava da amici e sostenitori come Anderson, Stein e Ford Madox Ford (al pari di conoscenti meno famosi descritti in modo poco lusinghiero in Fiesta o in una parodia precedente, Torrenti di primavera) e la presunta indifferenza per i sentimenti di chi gli era vicino, soprattutto della futura ex moglie Hadley (che non ha una controparte letteraria nel romanzo), rispecchiano una presenza oscura, addirittura totalitaria.

E anche ossessionante; correttamente, Blume fornisce un epilogo che ripercorre nel dettaglio le vite di tutti coloro che vengono descritti in Fiesta, e così facendo cattura il lascito più infelice del romanzo. Loeb, per esempio, «non riuscì mai a uscire dall’ombra di Robert Cohn», la sua controparte romanzesca; Twysden dovette affrontare «le ripercussioni che l’intrusione nella sua vita di Lady Brett Ashleyebbe sui suoi rapporti privati», tra cui l’ostracizzazione da parte della propria famiglia.

Anche il lascito puramente letterario del libro è eterogeneo. Secondo alcuni dei maggiori critici, il tentativo di Hemingway di catturare lo Zeitgeist causa uno dei più grandi fallimenti del romanzo. Persino chi ne ammira la scrittura lamenta la mancanza di autenticità dei personaggi, perché le loro personalità sono secondarie rispetto al ruolo che hanno nel servire la tesi più ampia dell’autore. In La ferita e l’arco, Wilson scrive del «paradosso per cui Hemingway, che possiede un talento mimetico veramente notevole nel carpire il tono delle tipologie sociali e nazionali e nel far parlare i suoi personaggi in modo appropriato, non ha mostrato alcun vero e proprio senso della caratterizzazione, o meglio, nessun vero interesse in merito», una critica che muove sia a Fiesta che al successivo Addio alle armi. Kazin scrive: «I simboli usati da Hemingway per trasmettere la propria idea sulla futilità e l’orrore del mondo sono sempre più importanti dei personaggi che li impersonano», e aggiunge che la «galleria di espatriati di Fiesta è sempre ausiliaria al tema a cui obbediscono le loro vite».

Hemingway sembrava particolarmente sensibile a questo genere di ragionamento, e si lamentava dicendo che si era parlato fin troppo delle sue descrizioni della «generazione perduta» e che la citazione di Stein aveva eclissato la seconda epigrafe del romanzo, un passo della Bibbia da cui aveva preso il titolo originale: «Una generazione se ne va e un’altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa… Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce».

L’enfasi non viene posta su queste persone o su questo tempo e le sue tante sventure, ma sull’eternità. E tuttavia, l’efficacia con cui Hemingway è riuscito a trasmettere il momento postbellico significa, come dice Blume, che «[lui] resterà ammantato in perpetuo nei drappi di seta della Generazione Perduta – che gli piaccia o meno».

In ogni caso, nonostante la pila traballante di libri su Hemingway, sembra che non si possa fare a meno di tornare a parlare di lui, e autori come Blume fanno sì che ne valga la pena. Ma non è la semplice nostaglia ad attirarci verso un tempo in cui uno scrittore aveva il potere di plasmare la consapevolezza di una generazione. Ciò che ci tocca del giovane autore di Fiesta, a dispetto delle sue colpe, è la sincerità con cui si era dedicato a quel nobile compito: creare un nuovo tipo di letteratura. Più di ogni altra cosa, descrizioni come quella di Blume sono intriganti perché ci ricordano il nostro costante bisogno che la lingua si rigeneri affinché continui a rispecchiare il modo in cui stiamo al mondo.

© Shehryar Fazli, 2016. Tutti i diritti riservati.

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