lossietelocos

La scrittura di Roberto Arlt

redazione Recensioni, Roberto Arlt, SUR

Pubblichiamo oggi due recensioni a I sette pazzi di Roberto Arlt, di Stefano Gallerani, già uscita su «Alias», e di Raul Schenardi, già uscita su «Pulp». Altre recensioni si possono leggere qui.

I sette pazzi

di Stefano Gallerani

Ogni qual volta salta fuori il nome di Roberto Arlt si finisce sempre per incappare nella definizione di “più grande scrittore argentino sconosciuto del Novecento”, tanto grande da non sfigurare affatto accanto ai soliti noti Cortázar, Borges, Bioy Casares e Sabato; di conseguenza, periodicamente lo scrittore bonaerense viene affrontato – e  mai risolto – alla stregua di un “caso”: qualcosa, cioè, che impone, a chi apre i suoi libri, di ridisegnare i termini della propria coscienza letteraria. Ma la letteratura, come avrebbe scritto Giuseppe Raimondi, non è un caso, bensì un fatto umano che va, anche, oltre l’umano; ovvero agisce là dove Arlt (nato all’alba del XX secolo e morto poco più che quarantenne, nel 1942) si è sempre mosso: nel solco di una tradizione inedita ed eccentrica che come un fiume carsico scorre al fondo di molte delle pagine migliori che dopo di lui sono state scritte da artisti che all’esempio della sua vitalità hanno deciso di votarsi.

Non stupisce, dunque, che la sua bibliografia critica vanti nomi tanto altisonanti di colleghi che vanno dallo stesso Cortázar a Ricardo Piglia, da Abelardo Castillo a Juan Carlos Onetti. E proprio uno scritto dell’uruguayano presentava al pubblico italiano (nel 1971 e per Bompiani) Los siete locos, romanzo del 1929 che, dopo El juguete rabioso (1926), forma con Los lanzallamas (1931) una sorta di dittico selvaggio e monstre in cui Dostoevskij si fonde con l’universo notturno, umiliato ed offeso dei bassifondi della capitale argentina. Disegnando il ritratto di Roberto Arlt, Onetti ne rievocava la biografia incerta d’origine austriaca, la formazione eterodossa, i mestieri più disparati e l’insopprimibile forza della sua vocazione: “Per quel che ne so […] Arlt ebbe sempre gran fiducia nelle parti della sua fantasia inventrice e vi lavorò attorno con una serietà e una metodicità tipicamente germaniche. Ma era nato per scrivere delle sue disgrazie infantili, adolescenziali, adulte. Lo fece con rabbia e genialità: cose di cui disponeva fin troppo”.

Adesso, I sette pazzi viene riproposto (dopo che lo stesso avevano fatto le edizioni e/o) nella medesima versione di allora (a firma di Luigi Pellisari) e con una prefazione di Julio Cortázar (Edizioni SUR, pp. 329, € 15,00). Figlia delle acqueforti portegne composte da Arlt per “El Mundo”, la sua prosa, a tratti scomposta e irregolare, non sembra aver perso affatto lo smalto degli anni Trenta: l’Astrologo, Erdosain, il Ruffiano Melanconico, Barsut, l’assassino detto l’Uomo che vide la Levatrice, il mistico Ergueta e altri leggendari personaggi sono gli improbabili congiurati di un piano escogitato per farsi beffe di una società decaduta ed allo stremo; ma, più di qualsiasi altra cosa, le loro gesta sono la stura per una fantasia visionaria in cui tutto – descrizioni, fatti ed azioni – è, a un tempo, fuori e dentro la realtà, su un piano che può essere descritto in molti modi, il più efficace dei quali resta, però, un sintetico ed inequivoco aggettivo: “arltistico”.

I sette pazzi

di Raul Schenardi

Perché è ancora maledettamente attuale e universale un romanzo così datato e assolutamente portegno? Forse perché il ‘29, anno della sua pubblicazione, scoppiava una crisi economica il cui fantasma viene spesso evocato anche oggi? Perché il suo protagonista, Erdosain, come molti ai nostri giorni, guadagna una miseria ed è sempre al verde? Perché i suoi sogni di piacere con le prostitute si sono generalizzati e ampliati enormemente, dai viali di periferia ai palazzi del potere? Perché le sue frustrazioni e angosce somigliano a quelle di tanti uomini dei nostri tempi? “Gli era indifferente lavorare come sguattero in un’osteria o come cameriere in un bordello. Che poteva importagli?”

Nei primi episodi del romanzo Erdosain subisce esperienze annichilenti: allo zuccherificio dove lavora scoprono il suo furto e gli impongono di restituire il maltolto, pena la galera, il farmacista a cui chiede in prestito la somma lo caccia offendendolo in malo modo (“Smamma, stronzetto, smamma”), e quando rientra a casa la moglie gli comunica che se ne va con un altro. Lui accoglie tutte queste pessime notizie con una sorprendente impassibilità, che gli deriva da una totale assenza di speranze: “All’improvviso ebbe la sensazione di camminare sulla sua stessa angoscia trasformatasi in tappeto”. E l’unica via d’uscita dalla sua situazione la vede negli strampalati progetti delle sue assurde invenzioni e nei folli discorsi di palingenesi sociale dell’Astrologo, del Ruffiano Melanconico, dell’ebreo Bromberg e del gruppo di scriteriati che comincia a frequentare, più mostri che pazzi (“Da dove saranno sbucati così tanti mostri?”). Costoro sognano di organizzare una società segreta e di prendere il potere con una rivoluzione che sarà finanziata da una rete di bordelli su scala nazionale: “Saremo bolscevichi, cattolici, fascisti, atei, militaristi, a seconda dei diversi gradi d’iniziazione”, e progettano di allestire fabbriche di gas asfissianti, di sfruttare miniere d’oro… Uno dei capi della setta, il Maggiore, ha le idee ben chiare: “Il nostro paese potrebbe essere terreno prospero per una dittatura”. (Passeranno solo pochi mesi dalla pubblicazione del libro per vedere avverarsi in Argentina questa sinistra profezia.)

Per il resto, nei Sette pazzi c’è tutto Arlt: la solitudine e la crudele introspezione del protagonista insieme alle sue fantasie più stravaganti, la violenza dei rapporti sociali imperniati sul denaro e sulla sua mancanza, le pulsioni contraddittorie verso amori idealizzati o verso il sesso a pagamento, le metafore prese dal mondo industriale, la marca espressionista, le stimmate autobiografiche.

Negli ultimi decenni, soprattutto in seguito alla strenua difesa e rivalutazione di Arlt da parte di Ricardo Piglia, la critica ha affrontato il romanzo da varie angolazioni, e così si sono succedute letture politiche, filosofiche, psicanalitiche, e ciascuna ha messo in luce in modo incontrovertibile alcuni aspetti essenziali. I sette pazzi in effetti è un testo politico che affronta i temi della crisi economica con le armi di un’impietosa critica sociale, così come è indubbio che risenta dell’influenza di Dostoevskij, soprattutto dei Demoni, e che anticipi di un ventennio le elucubrazioni filosofiche esistenzialiste: non riecheggia forse in queste parole – “Si sentiva come agganciato a un masso enorme dal quale non sarebbe mai riuscito a liberarsi” – il mito di Sisifo rivisitato da Camus? Arlt del resto ha anticipato anche il disincanto di fronte alla politica; come scriveva in una delle sue acqueforti: “Mi dice un candidato a deputato: ‘Bisogna lavorare per la salvezza del paese. La patria è sull’orlo della bancarotta.’ ‘Ehi, fammi un favore, va’ a incantare qualcun altro… non venire da me con questa storia… Di’ la verità. Quanti affari pensi di combinare?’

Un’avvertenza per il lettore: I sette pazzi è solo la prima parte di un unico romanzo che comprende anche I lanciafiamme, Arlt ce lo ripete in varie occasioni, nelle “note del cronista” al testo e nel celebre prologo del secondo volume: “Con I lanciafiamme si conclude il romanzo I sette pazzi”. Ne tengano conto gli editori.

Condividi