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Intervista ad Alberto Laiseca

redazione Interviste, SUR

Ha definito il suo stile «realismo delirante» ed è autore di un’opera ampia e alquanto diversificata, che comprende racconti, romanzi, saggi e poesia. Alberto Laiseca, nato a Rosario (Argentina) nel 1941, ha esordito nel 1976 con il romanzo Su turno para morir, e ha poi proseguito ininterrottamente con Aventuras de un novelista atonal, La hija de Kheops, La mujer en la muralla, El jardín de las máquinas parlantes, El gusano máximo de la vida misma, Las aventuras del profesor Eusebio Filigranati e Beber en rojo, e con le raccolte di racconti En sueños he llorado, Gracias Chanchúbelo e Matando enanos a garrotazos. I suoi racconti sono stati riuniti e pubblicati nel 2011 dalla casa editrice Simurg (Cuentos completos). Ha inoltre pubblicato il saggio Por favor, ¡plágienme! e nel 1998 (poi rieditato nel 1995) il romanzo-fiume Los Sorias (1345 pagine).

Pubblichiamo di seguito una lunga intervista uscita per la Revista de Cultura Ñ a cura di Gabriela Cabezon Camara e ripresa dal blog minima & moralia.

traduzione di Gianluca Cataldo

Interno. Luce artificiale. Scrittorio con una quantità smisurata di fogli. Voce grave, mediamente rauca e però dolce, di una melodia sottile che non viene da Buenos Aires. Dice “Attento”. È Alberto Laiseca, che in qualche modo si arrangia ogni giorno della sua vita per scrivere, a mano, perché così scrive, su questo tavolo, dove inoltre, quasi sempre, c’è una bottiglia di birra, una tazza di birra coperta da un panno e un posacenere ricolmo: “è un tavolo vaticano, tutto si perde per 700 anni, il tuo registratore si può perdere per 700 anni”, avverte e si siede al suo scrittoio. Un istante prima dell’impressione che la sua testa colpisca la lampada: è una montagna Laiseca. Una montagna con dei baffoni alla Nietzsche che emette fumo tutto il giorno. Il resto della scena: due gatte dormono sul letto, che è attaccato allo scrittoio. Fuori dalla finestra, due cani di impronta giapponese vivacchiano in un cortile coperto. Circondando il letto, una biblioteca conosciuta perché tutti i suoi libri hanno le copertine foderate.

Lasieca è magro, cenerino, stanco. Una polmonite lo ha colpito poco più di un mese fa, fino al ricovero all’ospedale. Qualche settimana dopo, quando stava un po’ meglio, furono messi in vendita i suoi Cuentos completos (ed. Simurg), e la coppia di registi Cohn e Duprat [Laiseca ha anche recitato nel film El artista, pellicola tratta da un suo romanzo, e diretta dai due registi argentini; ndr] licenziarono Querida, voy a comprar cigarrillos y vuelvo, film basato su un suo racconto e attraversato dalla sua voce e dal suo istrionismo.
Dovrebbe essere un buon momento della sua vita, però la mancanza di denaro, la necessità di trovare una casa per trasferirsi con tutta la sua fauna e l’eccessivo lavoro, “quasi non sto scrivendo né studiando” affaticano questo scrittore, padrone di un’opera tanto originale che sembra non avere tradizione né eredi, così figlia delle opere di Wagner, l’archeologia egizia, le filosofie orientali, l’opera di Shakespeare e i racconti di Edgar Allan Poe come della “Billiken” [“Billiken” è una rivista infantile argentina. Dal 1919 continua a uscire, oggi, con cadenza settimanale; ndr] degli anni Quaranta, i libri di avventura, i film horror e il porno di serie z.

La lingua di Laiseca è fatta di registro scientifico, formula esoterica, racconto di fate e delirio paranoico, triturati fino a raggiungere una polvere che, innaffiata con birra, gli servì per costruire la propria piramide, un monumento attorno al potere nei suoi versanti più tortuosi e tormentosi: il dittatore onnipotente, arbitrario e folle, e l’amore sadomasochista.
Può trattarsi di un libro come il leggendario Los Sorias, che tardò dieci anni a scrivere e altri sedici a pubblicare. O di racconti di due pagine. Possono svolgersi, come nel racconto del 1971 che apre i suoi Cuentos completos, “nell’anno 200 della Egira in un remoto paese arabo”, dove gli autobus hanno un motore a combustione umana: i galeotti morti sono scambiati alle stazioni di servizio. O una decade fa, nel cimitero della Recoleta [El cementerio de La Recoleta è uno storico cimitero di Buenos Aires situato nell’omonimo quartiere; ndr], dove un nobile parla con la sua amata defunta, come nella “Verdadera historia de la mujer de Blanco”, il racconto che terminò qualche mese fa e che chiude lo stesso libro. Possono essere molto diverse. Però sono variazioni dell’identico: Laiseca è riuscito a fare alta poesia con le frattaglie più putride e gli artigli più affilati del potere, in buona parte della sua opera.

Una produzione che quasi lo uccide, e che anche gli salvò la vita, una vita che fu difficile, e però “il cammino più duro è il più facile”, dirà lui. E tutto iniziò così:
“A papà capitò una tragedia, era profondamente innamorato di mamma e mamma morì molto giovane. Papà impazzì, impazzì del tutto.

– Doppia tragedia per te.
– Sì, ho vissuto agli ordini contraddittori di un pazzo, povero papà. Castighi, lasciarmi solo di fronte a una domestica prepotente, sadica: così come ebbi buone domestiche, ne ho avute di cattive, e dovetti soffrirle. Mio padre evitava di agire, mai ci mise la faccia per me. Le domestiche avevano il potere totale e assoluto, soffrii abbastanza.
– E questo ti portò alla lettura.
– Io sostengo che la lettura, i libri furono ciò che mi salvò la vita, altrimenti impazzisci come tuo padre o ti suicidi, ci sono bambini che si suicidano, lo sapevi?
– Non lo sapevo.
– Non ne hai mai sentito parlare?
– No.
– Sì, ci sono bambini che si suicidano.
– Che disastro.
– Sì, bimbi che si impiccano.
– Avevi paura.
– Sì, avevo paura del mostro che viveva sotto il letto. Era un mostro in abstractum, che stava sotto il letto, non ne dubito, però non sbavava dalla bocca, neanche aveva una bocca o zanne, non faceva rumore. Passai decadi prima di capire che questo mostro era mio padre, e siccome gli volevo bene, non riuscivo a capire, cadevo in contraddizione.
– Scrivesti in quel periodo il tuo primo racconto?
– No. Da bambino provai a scrivere una cosa e non la terminai mai. Era totalmente autobiografica: un bambino che aveva perso sua madre e uscì a cercarla per la strada, e sembra che si accorse che non riusciva a trovarla. Quindi l’autore preferì abbandonare il racconto. Dopo tornai a scrivere, da grande, suppongo che avessi venti anni, e scrivevo molto male.
– Lo racconti sempre.
– Ed è la verità.
– Studiavi ingegneria?
– Cominciai a migliorare come scrittore quando cambiai vita.
– Ti aveva iscritto tuo padre?
– Sì, e anche il piano lo studiai perché lo voleva papà, già.
– Nella tua opera si nota che hai nozioni di matematica, meccanica.
Negra querida, vediamo se ci capiamo, io amo la scienza ma non pretendere che io sia ingegnere, perché non fa per me. Studiai fisica teorica fuori dall’università perché mi piaceva, perché avevo voglia, e feci abbastanza progressi.
– E il tuo amore per Wagner risale a quando studiavi musica?
– Fu dopo. Dovetti conoscerlo da solo, perché in primo luogo a nessuno della mia famiglia piaceva Wagner, a nessuno. Papà era innamorato di Beethoven e devo confessarti, querida negra, che all’inizio a me non piaceva per rabbia nei confronti del mio vecchio. Però Beethoven è un genio.
– Come mai hai abbandonato l’ingegneria e la vita da studente?
– Hai letto la frase che disse Mijail Sergueivich (Gorbachov), l’ultimo presidente sovietico quando impose la Perestroika? “Adesso non abbiamo un luogo al quale tornare, o cambiamo o cadiamo”. Bene, loro caddero. Però io inventai la frase o l’ho vissuta prima. E per fortuna, mi andò meglio che all’Unione Sovietica.
– La Russia è un paese sfortunato.
– Dai tempi più lontani: i poveri russi prima dovettero beccarsi lo zarismo, una cosa orrenda, quindi i sovietici e adesso i gangsters.
– E tu non potevi tornare indietro.
– Chiaro, malgrado scrivessi così male, dovevo essere scrittore perché era l’unica possibilità che mi restava, e per fortuna lo sono diventato. Avevo un piano B: essere ricco, andare a lavorare in Africa del sud, in una piantagione o che so io quale merda, cominciare come operaio e terminare comprando la terra al proprietario. Fantasia, però anche lo scrittore vive di fantasie.
– Con questa fantasia andasti a lavorare come vendemmiatore?
– No. Andai per rompere con le mie abitudini.
– E che rottura.
– Sì. Come disse qualcuno, non è una mia frase, ricordati negrita per favore di chiarirlo o mi accusano di plagio: “il cammino duro è il più facile”. Ne feci la legge della mia vita. È per questo che mollai ingegneria, smisi di ricevere il mio stipendio mensile e seguii il cammino duro che fu il più facile.
– Perché?
– Perché se avessi continuato in quel modo sarei morto.
– Cosa hai imparato coi i vendemmiatori?
– Imparai a osservare gli altri, imparai quanto è dura la vita nel campo, le ingiustizie che vi si commettono.
– Sono grandi.
– Enormi. C’è una frase che appresi dai capisquadra e che ho dovuto ascoltare anche fuori dalle cuadrillas [squadra di operai; ndr]: “Se non le piace se ne vada”.
– Lo dicono quasi tutti i cattivi capi del mondo.
– Io lo appresi con i capisquadra delle cuadrillas.
– E quanto tempo sei rimasto?
– Due anni, due stagioni. E dopo andai a Buenos Aires e feci il netturbino per quattro anni e mezzo. Dopo, ero già stufo, una zia molto in gamba, che poveretta morì, mi trovò un lavoro nell’ ENTel [Empresa Nacional de Telecomunicaciones, ex compagnia statale che deteneva il monopolio delle telecomunicazioni pubbliche, privatizzata nel 1990; ndr], ti ricordi?
– Sì, ho ancora un cospel [Tipo di gettone simile ai nostri gettoni telefonici; ndr].
– Erano simpatici, di alluminio.
– Sembravano di rame.
– Hai ragione. Sono un coglione, mi sono confuso con quelli del subte, che erano sì di alluminio.
– Hai cominciato a scrivere con i vendemmiatori?
– Sì. Scrivevo molto male, però meno di prima.
– Sarai stato stanco.
– Non era questa la ragione. Scrivevo male perché non conoscevo niente della vita e dell’arte, e perché vivevo schiavizzato eseguendo ordini. Allora un giorno ti liberi, ma non è da un giorno all’altro che cominci a scrivere bene.
– E come sei riuscito a introdurti nel mondo intellettuale di Buenos Aires pur essendo un netturbino?
– Guarda, fu una di quelle cose ingenue che a volte portano dei risultati. Stavo lavorando quando vidi un uomo barbuto, “deve essere un intellettuale”, pensai. Gli parlai, “senti, vengo da fuori, sto a Buenos Aires da poco, non c’è un luogo dove si riuniscono gli scrittori?”. E curiosamente il tipo non mi derise e mi rispose: “Sì, c’è un luogo dove si riuniscono pittori, scrittori, poeti, è il Bar Moderno, all’800 e qualcosa di calle Maipù”. E lì andai, cominciai a conoscere gente, leggevo le mie cose, i miei manoscritti, sempre con una vita molto underground. Che può arrivare a essere una perfetta maledizione.
– È stato un prima e un dopo.
– Il Moderno mi cambiò la vita, non esiste più, poveretto, che disgrazia. Sai cosa c’è dove c’era Il Moderno? Un enorme buco, un pozzo.
– Perché?
– Perché adesso in questo luogo ci hanno messo un parcheggio sotterraneo; a volte vado non so perché, da masochista, questa cosa impossibile dei bambini, spero di trovare il locale, sapendo che non c’è più. Ritrovo sempre il grande buco.
– Come nel tuo racconto da bambino.
– Sì, qualcosa così, hai ragione.
– Chi ricordi con più affetto di quell’epoca?
– Molta gente, Sergio Mulet per esempio, un tipo che mi ha protetto abbastanza. Marcelo Fox – si riferisce a due scrittori del gruppo Opium, che si definivano come “satiri-cinici-ubriachi-innamorati figli della decadenza dell’occidente”.
– Dicono che Marcelo Fox fosse un genio. E non c’è niente di suo.
– Non c’è, si è perso nell’oblio più assoluto. Scrisse un libro di racconti che si chiama Invitaciòn al masacro. Io dico sempre che Fox non aveva nessun talento: aveva esclusivamente genio, niente più che genio, solo genio.
– Dicono che scrisse della sua morte.
– Ti dico come comincia il primo dei suoi racconti: “è ora di morire, tutto finisce, l’immondizia la allontanano, allontanano me. La ghigliottina cadrà lucida e esatta”. Sai come morì Fox? Decapitato, lo decapitò un treno a Belgrano R, così immagina tu se scrisse della propria morte.
– Chi altri hai conosciuto?
– Molta gente, non voglio ricordarmi di nessuno.
– Raccontami dei “buoni”.
– Conobbi Reynaldo Mariani, un poeta tremendo, lo cito in Los Sorias, cito una delle sue poesie. Poeta geniale Mariani, sì.
– Che anno era più o meno?
– Quando passai per Il Moreno avrò avuto venticinque anni, sarà stato il 1966.
– Che scrivevi in quell’epoca?
– Quelli che chiamavo “Testi caotici”. C’era un argomento a volte, però senza inizio né fine, erano il medium dell’argomento, e dopo frasi, riflessioni, questo.
– Sarà stato strano.
– Era stranissimo, attirò molto l’attenzione, c’era gente che voleva pubblicarmi, io non volevo pubblicare perché ero impazzito, avevo una questione che non c’entra niente. Una questione con i sindacati.
– Come con in sindacati?
– Ah, non farmelo spiegare. Scrissi un romanzo in quel periodo che si chiama Sindacalia, la fuente de la eterna anti-juventud. Ora mi hanno offerto di pubblicarla, dirò di sì. Però la semplice pubblicazione di questo romanzo sarà in contraddizione con quello che dice: che non si deve pubblicare.
– Perché pensavi che non si doveva pubblicare?
– Perché ero pazzo: pensavo “pubblicherò soltanto in un luogo dove ci sia libertà corporativa”.
– E come arrivasti a pubblicare?
– Bene, mi passò questa follia. Penso di lasciare il romanzo com’è, non traviserò la sua essenza, anche se devo fare un prologo esplicativo. I venti libri che pubblicai esistettero perché non continuai a pensarla così. C’è una frase in questo romanzo che è incredibile: “Chi scrisse questo libro, è già morto”, ed è la pura verità, io stesso ero molto vicino al suicidio.
– Come ti sei salvato?
– Vuoi che ti dica la verità? Mi aiutò il cielo. Voglio dire che il cielo e la terra, come ti direbbe un cinese, perché i cinesi non menzionano solamente il cielo, ma anche la terra, il ying e lo yang. Mi hanno protetto il cielo e la terra. Sì, perché senza aiuto celeste e materiale, per un tipo nella mia situazione l’unica via d’uscita era il suicidio, così che hai bisogno di molto aiuto terreno e celeste. Io sono credente, come saprai.
– L’esoterico è molto presente nei tuoi libri.
– Sono pagano, eterodosso diciamo, non ho religione particolare. Sì, sono pagano.
– Non vuoi parlare di politica, me lo hai detto e non ti chiedo di raccontarmi del tuo anticomunismo. Però quando seppi che avevi spedito una lettera al presidente Johnson chiedendo di arruolarti all’esercito degli Stati Uniti pensai: pensa se gli dicevano di sì.
– No, piuttosto cosa provai quando mi dissero che non mi avrebbero mandato in Vietnam.
– Sollievo.
– No. Orrore: e ora che faccio, perché adesso il suicidio sì che era più vicino che mai, e io non volevo uccidermi. Sono sempre stato molto pauroso. Pensavo che andando in Vietnam sarei tornato dentro un sacco verde con una bandiera piegata sopra, o che mi sarebbe passata la paura. Io non sono un indovino, tesoro, tra le mie molte doti non si annovera questa, però sì credo che mi avrebbero ammazzato. E c’è qualcosa di molto peggio, gli atei bolscevichi avevano bombe molto buone.
– Lo credo che vinsero.
– Avevano qualcosa chiamato “La Betty salterina”, che era una mina che saltava fino a quest’altezza e ti mozzava le braccia, ti lasciava cieco, cosette così. C’erano anche lattine di Coca-Cola interrate e piene di pallini da caccia o di pietruzze, con polvere da sparo e una specie di miccia, restavi castrato.
– Molto…
– Sfortunati furono quelli che morirono. Ah, un dato che conosce poca gente: tutti sanno che morirono 58 mila ragazzi in Vietnam, 58 mila soldati nordamericani, però poca gente sa che dei ragazzi che tornarono se ne suicidarono 50 mila. Così che abbiamo 108 mila caduti.
– Sono contento che Lyndon Johnson non ti abbia arruolato.
– Che vuoi che ti dica negra, anch’io sono contento. E ti dichiaro che se dovessi cominciare di nuovo non invierei la lettera a Johnson, farei quello che feci molto dopo: andare in un dojo a imparare il karate. Non se ne va la paura però sì, hai un po’ più di fiducia, controllo sul tuo corpo e ti aiuta con la salute. Se avessi continuato con il karate, dubito molto che mi sarei beccato questa merda di polmonite.
– Ti tranquillizzerebbe anche.
– Ti aiuta anche a livello di testa. Il karate, sia giapponese o cinese, è qualcosa di più di un’arte marziale, è un’arte integrale che fa in modo che tu non sia tanto aggressivo, curiosamente. La prima cosa che ti dice il tuo maestro è: “Non deve litigare con la gente, lei litiga fuori dal dojo, non serve, fuori”. Il karate cinese è il kung fu.
– Sono bellissimi i film di kung fu.
– Alcune cose sono fantasiose.
– Ho visto un documentario di monaci, e sembravano maghi.
– Sì. Vidi una foto di un karateka giapponese, un vecchietto, l’istantanea presa nel momento esatto di un colpo, con la sua mano destra tagliò la testa a un toro. L’ho visto, ci credo.
– Sanno cose che noi non sappiamo.
– Sì, chiaro.
– Come quel monaco che si diede fuoco in posa da loto.
– Ah, sì, in Vietnam, a Saigon. Però gli faceva male, gli fece male.
– Ma lo dominò.
– Lo dominò, ma gli fece male.
– Si bruciarono in circa 64.
– Non so quanti, però ti dico che era un governo pessimo quello che c’era nel Vietnam del sud.
– Che perseguitava i religiosi per qualunque sciocchezza.
– Ngo Dihn Diem, un dittatore tremendo. Non ho niente contro i cattolici se non contro i cattolici fanatici, tutto il gabinetto di questo governo era fanatico-cattolico e i buddisti erano perseguitati  in un paese a maggioranza buddista. Come se qui io fossi dittatore, mi faccio buddista e perseguito i cattolici, sono pazzo, sto perseguitando la maggioranza del paese, un pazzo. Ci tengo a dirti che non si giustifica nemmeno la persecuzione a una minoranza, fai che fosse una minoranza, nemmeno.
– Il Vietnam era un manicomio.
– Diem era un uomo molto cattivo e molto pazzo. Era sposato con una donna, la signora Nu, che era molto bella come alcune vitnamite, anche lei cattolica fanatica e quella che realmente comandava, al punto che per il golpe, dove uccisero Diem, aspettarono che lei fosse a fare shopping a Parigi, ti giuro.
– Questi personaggi ti affascinano.
– Ah, sì, chiaro. Il potere deve esistere, però che fare allora con il potere, perché questo, ti dico,  mi tocca molto da vicino; devi sapere che ero anarchico, ero contro lo Stato. Anarchico fino alla morte e da lì passai a rispettare il potere, lo Stato deve esistere. Ossia; abbandonai l’anarchia. Molto bene: secondo Laiseca lo Stato e il potere devono esistere, che facciamo allora con loro?
– Può essere mostruoso.
– Bene, però cara amica, ben scrissi Los Sorias per parlare di tutto questo.
– Tutto chiaro.
– E che te ne pare, se avessi continuato a essere anarchico Los Sorias non sarebbe esistito, avrei scritto un altro romanzo ma non Los Sorias. Ero anarchico, sì, per questo il mio odio verso i sindacati unici.
– Veniva dall’anarchia.
– Dal mio periodo anarchico. Però i miei amici anarchici, che erano meno pazzi di me, dicevano “sì, Laiseca, però devi pubblicare, non ha senso, così non combatti i sindacati unici”. Chiamavamo sindacati unici i sindacati monolitici di una CGT unica [Confederación General del Trabajo della Repubblica Argentina; ndr].
– Bene, avevi una qualche ragione.
– Sì, ad ogni modo, piccola, i miei amici, gli anarchici avevano ragione, io dovevo pubblicare. Loro non erano pazzi.
– Eri nichilista.
– No. Ero folle. Perché vuoi chiamarlo in un altro modo? Vuoi che ti dica che ero orticoltore? No, ero un pazzo.
– E quando vivevi a Escobar eri orticoltore?
– No. A quei tempi viaggiavo tutti i giorni per andare all’atro lavoro che avevo, fui correttore nel giornale La Razòn, a Barracas.
– Avresti viaggiato 4 ore…
– Sì, un sacrificio enorme. Ma fu l’unica volta che ebbi una casa mia, una casa molto umile, però era magico, entravo a casa e dicevo vado a scrivere. E questo che stavo quasi per sdraiarmi senza togliermi i vestiti. Però no, accendevo la luce, chiudevo la porta a chiave, guardo i miei passerotti e passava la stanchezza. Mi preparavo una tazzona di acqua bollente e un sacchettino di te ben forte, lasciavo quasi un dito e aggiungevo rum Negrita, allo scopo di scrivere. Ma la stanchezza non se ne andava con questa bibita, se ne andava in maniera magica una volta entrato.
– Ti piaceva.
– Sì. Fui molto felice e fui molto sfortunato in quella casa, certamente fui molto felice quando ebbi ragazze che mi amavano, e fui molto sfortunato quando mi abbandonarono.
– Succede in tutte le case.
– Chiaro, però io sto parlando dell’unica casa che ho avuto, anche qui mi hanno abbandonato però questa è una casa affittata, mi viene adesso in mente che è più grave che ti abbandonino in casa tua. Mi viene in mente proprio adesso, hai una primizia per il giornale.
– E perché?
– Sei del tutto tu in casa tua. Che ti lascino in casa tua è morire integralmente. È sempre terribile che ti abbandonino, ma è più facile che ti abbandonino in una casa affittata.
– Non ci avevo mai pensato.
– Nemmeno io ci avevo mai pensato, per questo ti dico che è una primizia.
– Ti ho sentito dire che la letteratura ti fu molto cara.
– Ti sembra poco tutto quello che ti ho raccontato?
– Beh, però dici che ti salvò dalla pazzia e dalla morte.
– Sì, però dovetti pagare un prezzo molto alto, non sai quanto fu dura lavorare alla vendemmia, lavorare come netturbino. Abbandonare tutto quello che conoscevo, mettermi a nuotare senza sapere nuotare. Sapevo così poco delle mie capacità che a Mendoza, durante una vendemmia, nel mio primo giorno di lavoro avevo una paura enorme, cosa se muoio dopo il lavoro perché il mio corpo non resiste. No, non mi successe un cazzo. Terminò il lavoro, ero morto di sete, l’unica acqua che c’era era quella del canale, e se muoio avvelenato? Ah, ma la sete era troppa. Ho bevuto tantissimo e pensa che non morii, no.
– A volte dici che anche le donne ti salvarono. Nei tuoi testi i personaggi maschili sono molto crudeli e a volte…
– Sono totalmente sottomessi alla donna.
– Come mai?
– è una contraddizione, però è così. Senza le donne non sarei stato neanche la metà di un uomo, il tuo genere mi ha fatto crescere, essere uomo. Mi ha anche fatto diventare scrittore, essere davvero uno scrittore lo devo alle donne.
– Perché?
– Signora, lei che è donna mi fa questa domanda, mi sorprende.
– Ma perché ti fecero diventare scrittore, ti domando.
– Bene, perché mi dedicai alla letteratura e mi fecero crescere come essere umano, sì. Non ho debiti, attenta, da saldare con alcuna donna, neanche con quelle che mi fecero soffrire. Sai perché?
– Perché ne scrivesti?
– No, perché gliene sono grato. Voglio dire: tu, non tu, qualche mia ragazza dico, mi avrai fatto soffrire molto quando mi hai abbandonato, d’accordo, ma tutta la felicità che mi hai dato quando stavamo insieme non si può dimenticare. Sai come si chiamo questo nel mio paese? Essere grato. E mai sarò ingrato. Mai mi sentirai parlare male delle donne, no, non sono misogino.
– Me ne rallegro. Un’ultima domanda e terminiamo.
– Per favore, cara, che la polmonite mi ha sfinito.
– Cosa consiglieresti a uno scrittore principiante, oltre a venire al tuo workshop.
– Che venga al mio workshop, di sicuro. Stephen King, che molti guardano dall’alto in basso per invidia, suppongo, perché guadagna tantissimo, è un gran maestro, e però te lo citavo perché lui quasi muore in un incidente, e convalescente scrisse un libro che si chiama On writing: Autobiografia di un mestiere, uno scritto nel quale parla dei problemi dello scrittore; dice King: “Non c’è nessuna isola segreta piena di idee”. E anche che “l’unico consiglio che io posso dare a chi vuole essere scrittore è leggere di più e scrivere di più”, e mi sorprese perché sono due dei tre consiglio che do io. Io aggiungo: vivere di più. Ho sempre detto queste tre cose.

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