Santa Evita

Santa Evita: una farfalla che vola all’indietro

redazione SUR, Tomás Eloy Martínez

Pubblichiamo la prefazione di Fabio Stassi a Santa Evita di Tomás Eloy Martínez.

L’urna di cristallo

Il primo odore che filtra dalle pagine di Santa Evita è un aroma di mandorle e lavanda. Il corpo imbalsamato di Eva Duarte pende dal soffitto in una lastra di cristallo sostenuta da corde trasparenti. Uno specchio di vetro, circondato da fiori e candele, al centro di una sala smisurata e rivestita di nero.

Evita è morta da poco e il generale Perón ha dato l’ordine di mummificarla, contravvenendo per primo all’ultimo desiderio di sua moglie: «Non lasciare che nessuno mi tocchi». Da quel momento, un galiziano superbo e insolente, il dottor Pedro Ara, inizia a manipolare il cadavere, a trattarlo con formaldeide, paraffina e cloruro di zinco, a iniettargli soluzioni di timolo nell’arteria femorale, a inondarlo con fiumi di gas, di mercurio, di ghiaccio secco. Nella scommessa di eternare l’illusione di uno sguardo enigmatico e perfetto e una via lattea di vene e capillari sul suo collo traslucido, di alabastro, perché gli uomini continuino a innamorarsene anche da morta.

È un’altra delle sue metamorfosi.

Evita. La figlia illegittima che a Los Toldos giocava ai trapezi sugli alberi del paradiso, allevava bachi da seta nelle foglie di gelso, si ustionava con una padella d’olio bollente ma senza conseguenze. La sgraziata e pallida quindicenne che sbarcò a Buenos Aires nel 1935 per fare l’attrice. La cenerentola che posava da modella, si dipingeva calze di seta sulle gambe e si imbottiva il corpetto. La voce sgrammaticata e rauca di un radiodramma degli anni Quaranta, che viveva tra pensioncine, impresari e teatri d’ultimo ordine. La donna meno sensuale della terra che sapeva quanto fosse scandalosa, e vera, e impietosa la sua nudità. L’umiliata e l’offesa che sedusse il potere nei panni di un colonnello debole e vuoto, divorandolo con la violenza del suo amore. La Prima Dama in spolverino e tacchi che trovò se stessa sui balconi presidenziali, e venne ricevuta dal papa, e si guadagnò le copertine di Life. La demagoga veemente e spettacolare, temeraria e irresponsabile, che parlava con una brutalità infantile, ma fece votare le donne e conosceva la lingua dei dannati. La redentrice di tutti gli oppressi e postulanti, la regina dei descamisados e dei grasitas, la protettrice degli ultimi. La giovane anemica che nel 1952, a trentatré anni, muore in seguito alle emorragie vaginali provocate da un tumore. La defunta pietrificata che andrà errante per il mondo, insepolta, senza identità.

Molti furono i suoi nomi, quante le sue trasformazioni. La Ballerina, la Cavalla, la Puledra, la Serpe, la Cucaracha, la Milonguita, la puttana, la cameriera, la pazza, la iena. Ma anche la Benefattrice degli Umili, la Dama della Speranza, la Guida Spirituale della Nazione, la Mammina dei Poveri.

Perón la chiamava Chinita, sua madre Cholita.

Ma è dentro quell’urna di cristallo che il miracolo viene portato a termine: la sua nudità si fa ancora più fluorescente e si espande fino a contenere l’intera Argentina e a impersonificarla. «Quel cadavere siamo tutti noi. È l’intero paese», fa dire Martínez a un presidente della Repubblica. Un corpo enorme, di enormi dimensioni e contraddizioni, pieno di tutto: segatura, pianto, ira, che diviene la carta geografica del paese. Il crittogramma della nazione.

Tomás Eloy Martínez – che si è conquistato il suo posto nell’Olimpo della letteratura sudamericana grazie all’abilità funambolica di camminare sul filo tra storia e finzione, racconto e giornalismo d’inchiesta, contribuendo a creare quel genere che fu definito «ficción verdadera» di cui sono testimonianza le sue cinque sceneggiature cinematografiche, una dozzina di libri di periodismo, le moltissime testate fondate e dirette, e i suoi sette romanzi – indaga il mito di Evita attraverso macchie di rossetto, ciuffi di capelli, vestaglie bianche. Seguendo con ostinazione i suoi vagabondaggi e interrogando gli uomini di fronte alla luce liquida della sua immortalità. Colleziona il racconto dei doni di Evita, che si ripetono in ogni casa, la rete di predizioni e scongiuri, i segni del feticismo.

È intorno a questa statua perenne e trasparente che si sgomitola la Storia e si muovono tutti i personaggi del romanzo: il colonnello dell’Intelligence Service Moori Koenig, a cui viene delegato il compito di far sparire il cadavere, un uomo pedante che precipiterà progressivamente nell’ossessione, nella furia del sacrilegio, nell’alcol e in un sorriso spettrale e senza denti; la madre, doña Juana, che non le somiglia, «come se la figlia si fosse partorita da sola»; il parrucchiere che aveva creato per Evita le acconciature sobrie e quelle con lo chignon doppio, delle grandi occasioni; il dottor Ara che sostiene che l’arte dell’imbalsamatore è quella del biografo…

Sarà una danza necrofila e scatenata, alla quale solo Perón non partecipa: resta sullo sfondo, come una luce debole, «un paesaggio vuoto, l’altopiano dei non sentimenti». A brillare è sempre lei, Evita.

Il corpo nomade

Dopo il colpo di stato del 1955, il suo corpo comincia a peregrinare. A essere trasferito da un posto all’altro, perché non venga localizzato dalle sacche di resistenza peronista e sottratto come una bandiera. Vaga attraverso camion, pullman dell’esercito, ambulanze, distaccamenti, cantine e cucine di distretti militari, mansarde, uffici… Insieme a lui, errano anche le copie gemelle che sono state fabbricate per confondere gli eventuali ladri o i commandi della vendetta che fanno pervenire di continuo minacce e ostinate offerte di candele e fiori di campo: tre statue di cera, vinile e fibra di vetro, assolutamente identiche all’originale.

Genova, Amburgo, Lisbona, Rotterdam, Bonn, Milano.

Quello di Evita è il romanzo migratorio di un cadavere. Per riconoscerla e distinguerla dalle copie, il colonnello Moori Koenig le incide in segreto una cicatrice a forma di stella dietro un orecchio. La sua eternità si fa smaniosa, insicura.

La sala degli specchi deformanti

Nel pedinare le spoglie imbalsamate di Evita che si allargano a dismisura, caricandosi di significati e moltiplicandosi in una «tipica confusione argentina» di notizie vere e false, in un gioco infinito di specchi e riproduzioni, il primo intreccio che Martínez tesse è esclusivamente di natura letteraria. Sottolineando più volte che si tratta di un romanzo, dichiara la sua fonte narrativa: un racconto di Rodolfo ­Walsh del 1964, «Quella donna». È uno dei racconti più famosi della letteratura argentina contemporanea.

Martínez muove da quelle quattro pagine e le dilata fino alla larghezza di un intero romanzo. La sua è una superfetazione letteraria, che ricalca a suo modo il processo di santificazione popolare di Evita. Walsh riportava in poche righe una conversazione avuta con il colonnello Moori Koenig, accennando a molti particolari che Martínez riprenderà più estesamente, uno per uno, e terminava con una domanda senza risposta, sul luogo in cui era stato occultato il cadavere («¿Dónde, coronel, dónde?»), e una promessa: «E mentre esco sconfitto, penso che dovrò tornare, o che non tornerò mai».

Nel 1977 Rodolfo Walsh fu catturato dagli uomini del generale Videla, ucciso e il suo corpo fu buttato in un fiume e mai ritrovato. Quasi vent’anni dopo, Martínez torna dove Walsh non potrà tornare. Alza il dito sulla mappa e inizia a unire curve chiuse, «linee, probabilità, complicità», a costruire, pagina dopo pagina, il suo «infatigable itinerario».

Tira una riga attraverso un racconto di Borges («Il simulacro»), mette in fila un romanzo di Cortázar (L’esame), un racconto di Onetti («Lei»), un testo e una poesia di Néstor Perlongher («Evita vive» e «Il cadavere della nazione»)… Unisce punti, frasi, antologie. Raccoglie deposizioni, interviste vere o inventate, visiona film e telegiornali dell’epoca, sostituisce la sua voce a quella dei personaggi, li fa parlare in prima persona, dispone su una scrivania quaderni, libri, fotografie, schede informative dell’Intelligence Service, rapporti, monologhi, copioni cinematografici… Usa tutte le tecniche a sua disposizione, miscela i generi, in un processo di accumulazione, un gioco dell’oca in cui all’ultima casella c’è l’autoritratto dell’autore stesso che si siede su una panchina e scrive la prima frase di questo libro.

Alcuni capitoli del romanzo assumono una loro folgorante autonomia. Come la storia di Emilio, il padre di un suo amore perduto, che racconta a Tomás di avere conosciuto Evita nel 1943 e gli svela il più scabroso dei suoi segreti. O quella di Yolanda, che lo riceve in casa, ascolta le sue domande e poi rievoca una lunga estate di bambina, appena orfana di madre, trascorsa dietro lo schermo del cinema dove lavorava il padre a giocare con la Pupetta, una bambola che sembrava vera e a cui le piaceva descrivere i film che guardava dall’altro lato del telone. Le rocambolesche avventure di una cassa a bordo del Conte Biancamano, sbarcata per errore tra i bauli contenenti i manoscritti di Toscanini, oppure di un’altra bambola esposta nelle vetrine di una prostituta ad Amburgo e del suo recupero, pistole alla mano, sotto una luce ultravioletta. O infine la scena in cui il Colonnello sotterra Evita in piedi nella casa dei suoi nonni tedeschi, sulle rive del fiume Altmühl, in un giardino battuto da piogge interminabili. E la domenica sera di qualche anno dopo nella quale Moori Koenig, vecchio, alcolizzato, vinto e con il naso pieno di varici, di fronte a Neil Armstrong che in televisione scava una buca e sta per piantare la bandiera americana, ripete sconsolato da un divano: «È lei. Quei figli di puttana l’hanno sepolta sulla luna».

Il racconto infedele

Martínez si propone di enunciare i fatti «come un apicultore». Ma a metà del quarto capitolo scrive tre righe da scagliare lontano come un sasso piatto e levigato, perché non smettano di rimbalzare negli occhi di un lettore: «Ogni racconto è, per definizione, infedele. La realtà, come ho già detto, non si può raccontare né ripetere. L’unica cosa che si può fare con la realtà è inventarla di nuovo».

È il suo personale manifesto letterario: la testimonianza di un’idea impura di romanzo, la rivendicazione della sua licenza di mentire, deformare, ricostruire tutto secondo un modello ibrido e non lineare.

La scrittura può resuscitare tante cose («i sentimenti, il tempo perduto, la casualità che allaccia un fatto con l’altro»), ma non la realtà. La lezione è sempre quella di Borges: «la realtà non è una linea retta, ma un sistema di biforcazioni». È un fiume: «i fatti arrivano e spariscono». Il passato si spegne, si perde, si sfigura. La memoria deraglia, cambia direzione. Non si cura di quello che lascia o rimane. Difficile recuperare il bivio, l’incrocio, l’orma impressa dai piedi gibbosi della Storia.

Eppure il passato ritorna. Ed è compito del romanzo riesumarlo. Perché «scrivere ha a che fare con la salute, con il caso, con la felicità e il dolore ma, soprattutto, ha a che fare con il desiderio». E se anche la Storia è un genere letterario, come sembra, si chiede Tomás Eloy Martínez, «perché privarla dell’immaginazione, della follia, dell’indiscrezione, dell’eccesso e della sconfitta che costituiscono insieme la materia prima senza la quale non esisterebbe la letteratura?»

La Storia incarnata

Ci sono paesi che più degli altri potrebbero raccontare il loro passato attraverso il destino di certi corpi dilaniati o, in qualche modo, insepolti. La Russia di Rasputin che non riesce a morire e di Lenin ancora in mostra nella Piazza Rossa. L’Italia di Mussolini appeso a testa in giù a piazzale Loreto, della testa curva di Moro nel baule della Renault 4 e delle spoglie straziate di Falcone e Borsellino. L’America Latina di Evita e del cadavere nudo di Che Guevara.

Il corpo è la tavola della memoria e la pergamena, la testimonianza e la prova che manca, la trama frantumata e l’insieme da ricostruire. Per rivelare e reinventare la realtà, bisogna ripercorrere a ritroso l’accidentato dedalo di sentieri della morte offesa, scoperta, eternata. Cercare una cicatrice a forma di stella. Provare a indagare il sangue di un paese e a ricavarne un senso che sembra una chiaroveggenza e invece è solo una profezia del passato.

Così Martínez ci riporta la diceria di una gravidanza che Evita interruppe l’anno prima di incontrare Juan Domingo Perón come il centro intimo e lo spartiacque della sua vita: il suo segreto, la sua vergogna. Siamo all’interno della Storia, ma anche di un romanzo e di una questione privata. L’aborto è un evento fortemente simbolico. Così come la successiva o presunta sterilità di Perón e del Potere a cui Evita si consegna. La Mammina di tutti gli argentini, la Madre della Nazione, non avrà figli. Ma, proprio come in un romanzo, la vita esibisce con lei un’implacabile coerenza colpendola con un tumore all’utero. Evita muore per non aver vinto la vergogna di se stessa, della miseria dalla quale proviene, della sua nascita abusiva, analfabeta e sciagurata, si dissangua per amore o per disperazione. Ed è la sua vergogna che gli uomini cercano di eliminare dal suo corpo, cancellando le tracce della malattia, lavandone le viscere, elargendo una santità posticcia all’immacolato chiarore della sua pelle.

Il complesso di Palinuro

È questa impossibilità di redenzione che racconta Tomás Eloy Martínez. E alla fine il tema tragico e non dichiarato che la storia del corpo di Evita e delle sue vicissitudini solleva è la maledizione dell’insepoltura. Quello che Gesualdo Bufalino definì il complesso di Palinuro, riferendosi agli emigranti siciliani. La paura di essere portati via e di non tornare, di non avere una cerimonia funebre, di essere gettati e dispersi in mare e vagare nomadi anche dopo morti. La condanna a un’eternità penosa ed esasperante come quella che subirono i desaparecidos durante la dittatura dei militari argentini, tra il 1976 e il 1983, e che rischiò lo stesso Martínez, esiliato per sette anni a Caracas senza sapere se sarebbe tornato in quella patria dove i generali gli attribuivano involontariamente un altissimo riconoscimento letterario, imponendo che i suoi libri venissero bruciati in piazza.

Un romanzo è la sola elaborazione del lutto possibile per paesi senza verità o dove la verità è una palude e un’allucinazione, come l’Argentina o come l’Italia.

Esemplare, per questo, l’ultima immagine di Evita.

Non l’avrei raccontata né come maleficio né come mito, scrive Martínez, ma come l’avevo sognata: «una farfalla che sbatteva in avanti le ali della sua morte, mentre quelle della sua vita volavano all’indietro».

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