Intervista a Pedro Antonio Valdez

Gabriella Saba Autori, Interviste, SUR

Dopo la recensione al suo Carnaval de Sodoma, pubblichiamo un’intervista della giornalista freelance Gabriella Saba allo scrittore dominicano Pedro Antonio Valdez, ricordando che in Italia è stato tradotto solamente un suo racconto nell’antologia Santo Domingo. Respiro del ritmo, curata da Danilo Manera (Stampa alternativa, 2002).

Scrittore di quartiere
Intervista di Gabriella Saba a Pedro Antonio Valdez
Traduzione di Giuseppe Trovato

In occasione di un’intervista rilasciata alla rivista letteraria «Mythos» nel mese di ottobre 2006, il regista messicano Arturo Ripstein ha affermato che oggi i libri non vengono più pubblicati per essere esportati bensì per il mercato locale dove, se un romanzo si rivela un best seller (come nel caso della Repubblica Dominicana), viene poi commercializzato a Porto Rico o in Venezuela. Sei d’accordo?
In linea di massima è così, anche se escluderei il Venezuela. Quanto al Porto Rico, forse per l’affinità emotiva e culturale, c’è una maggiore vicinanza in termini di diffusione letteraria, sebbene non si possa generalizzare. Credo, tuttavia, che si tratti di un fenomeno riscontrabile nella letteratura di tutte le città, e con molta probabilità in ogni epoca.

Fino a che punto ti consideri uno scrittore dominicano e in che misura uno scrittore “globalizzato”? In quale modo questi due elementi sono presenti nei tuoi romanzi e racconti?
Aspiro a essere uno scrittore della mia città. Ambisco inoltre – e non voglio essere retorico – a essere uno scrittore di quartiere, il che non ha alcuna correlazione con chi e con quante persone leggono le mie opere, ma piuttosto con un atteggiamento di punto di inizio, di origine. Cerco di fare in modo che l’universalità, che la si chiami globalizzazione o “dominicanità”, si trovi con me nel quartiere.

Come scrittore dominicano, sei atipico. Ad esempio, non hai mai scritto a proposito di Trujillo. Lo escludi a priori? Oltre a questo, la tua letteratura non è pesante né tantomeno tragica come la maggior parte dei romanzi dominicani.
Forse nell’affrontare i miei temi non sono affascinato dalla tragedia, sebbene mi piacciano le scene dure. Cerco di credere che la vita sia molto di più della tragedia immediata. La tragedia non è un fine, bensì un mezzo per raggiungere un determinato scopo nella vita. È proprio questo che tento di proporre nelle mie opere. Non affronto la questione di Trujillo semplicemente perché non ho vissuto quei momenti e non fa parte della mia memoria emotiva. Però ci sono anche altri scrittori che non se ne sono occupati, come Angela Hernández, Aurora Arias o Luis Martín Gómez.

I tuoi personaggi sono dominicani, gente semplice e di modesta estrazione sociale, come Liberata, la China e il padre Ruperto, per citarne qualcuno. Tuttavia, i luoghi sono una commistione di paesaggi fisici e mentali e come nel caso di Carnaval de Sodoma, popolato di boschi ed elementi della natura orientale. Dove vuoi condurre il lettore?
Sull’orlo della pazzia oppure al punto in cui le sue certezze sulla realtà si frantumano. Il tempo e lo spazio sono più complessi di quanto si possa immaginare.

Oltre a essere scrittore, svolgi molte altre attività: ad esempio, sei stato il fondatore del workshop letterario La Matrácala e sei direttore delle Ediciones Hojarasca. Come si svolge la tua giornata lavorativa? Vivi nella città di Santo Domingo, vero?
Ahahah. Be’, queste due attività appartengono al passato, quando si è giovani e si ha bisogno di creare un mondo importante. Cose da ragazzi. Oggi opero nel settore della gestione culturale. Lavoro a Santo Domingo ma vivo a La Vega, a 120 chilometri da dove lavoro. La mia casa continua a essere La Vega.

Sei uno di quegli scrittori che sognano di abbandonare il proprio paese un giorno, o di quelli che credono che perderebbero l’ispirazione se fossero costretti a vivere in un altro luogo?
Non ho questo genere di aspirazione. Non ritengo che vivere in un posto in particolare ci renda dei buoni o cattivi scrittori. Gli alti e bassi presenti nelle mie opere sono il frutto di limiti personali, non del contesto in cui scrivo. Se vivessi dove sono vissuti Shakespeare o Cervantes, sarei come loro? No. Ho inoltre l’impressione che neanche la formazione letteraria possa determinare l’estro creativo.

Puoi raccontarmi come hai trascorso la tua adolescenza a La Vega e come ti sei avvicinato al mondo della letteratura?
In modo apparentemente normale. Cibo, abbigliamento, letto. Litigi con mia madre per qualsiasi stupidaggine. Poi la scuola, ecc. A quindici anni ho iniziato a scrivere in maniera piuttosto regolare e a diciannove ho deciso seriamente di voler intraprendere la carriera di scrittore perché era quello che più mi piaceva e che meglio sapevo fare nella vita.

L’argot, altrimenti chiamato il gergo dominicano, è assai presente nei tuoi romanzi e nei tuoi racconti. È molto divertente ed efficace. Come fai a universalizzarlo?
Mi lusinga che tu me lo dica. Faccio in modo che sia così, che la lingua rionale si possa estendere oltre La Vega. Gabriella, io credo che la chiave per poterlo capire stia nel fatto che colloco le parole in un contesto chiaro ed è proprio attraverso questo contesto che si arriva a capirle.

Al pari di altri intellettuali dominicani, manifesti una certa intolleranza verso l’idiosincrasia del tuo paese, verso la mancanza (si dice) di cosmopolitismo e di un contesto appropriato che favorisca lo sviluppo e la diffusione della cultura e dell’arte?
Il dominicano va bene così com’è. È un essere umano imperfetto come qualsiasi altro. Vorrei un livello di istruzione più elevato, sempre che questo comporti una migliore disposizione dell’essere umano verso la propria specie. Il cosmopolitismo e la promozione dell’istruzione non sono garanzia di questo. Se così fosse, i nordamericani o gli inglesi avrebbero costituito società perfette e non avrebbero ravvisato la necessità di invadere barbaramente territori come l’Iraq o l’Afganistan per uccidere bambini, donne e anziani in cambio di qualche goccia di petrolio che alla fine di tutto non potranno portarsi nella tomba.

Oltre alla letteratura, che altro c’è nella vita di Pedro Antonio Valdez? Una famiglia? Il baseball? È vero che sei un appassionato di questo sport?
Andiamo per gradi: non sono un patito del baseball, ma della squadra di baseball Aguilas Cibaeñas, vale a dire la squadra per eccellenza della Repubblica Dominicana, quella più gloriosa e più premiata. Il mio sport preferito in realtà è il calcio. Sono tifoso dell’Inter, del Barça, del Boca, dell’Arsenal, del Bayern Monaco, del Celtic e del Chivas. La famiglia è al  primo posto nel mio cuore, quello che prima occupava la letteratura.

Quali sono i grandi demoni di oggi? Faccio riferimento a una intervista che ti ha fatto la web Escritores Dominicanos, in cui hai risposto (se non ho capito male) che i demoni di oggi sono alcuni tra i più importanti leader mondiali.
In generale sono i politici in quanto rispecchiano quanto di più abietto ci sia della società. In effetti, sono spesso il nec plus ultra della società, il suo spirito condensato. In democrazia un politico è una specie di assassino materiale.

Chi sono i cannibali dominicani (scrittori)? In altre parole, cosa prospettano? In che senso hanno comportato una svolta nella letteratura dominicana?
In realtà non so se esistano. Il termine «cannibali» è stato adoperato da un dominicano di Porto Rico, Carlos Roberto Gómez, in riferimento a una serie di antologie. Nel mio caso, non mi interessa essere mangiato né mangiare nessuno. Né sul piano letterario né tantomeno su quello materiale.

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