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«Lo Squalo», un racconto di Antonio Ortuño

Antonio Ortuño Autori, Racconti, SUR Lascia un commento

Il messicano Antonio Ortuño, autore della Fila indiana, racconta sempre con sarcasmo e amarezza il paese in cui vive. Pubblichiamo oggi un suo racconto, uscito originariamente sulla rivista Pez Banana e qui riprodotto per gentile concessione dell’autore.  

di Antonio Ortuño
traduzione di Silvia Sichel

Sai come dicono: meglio che non sollevi nemmeno un sasso. Il semicerchio di agenti municipali è perfetto. Simmetrici, indistinguibili, uccelli posati su un filo, bambini nel coro della chiesa, gli agenti guardano il buco nel terreno, mani alla cintola e teste che si inclinano da un lato e dall’altro per seguire lo scempio. Circondato da braccia, gambe, ossa spaccate a viva forza, Rosendo, il tecnico, affonda la pala con sempre maggior lentezza. Teme di rompere quei pezzi rossi in frammenti ancora più piccoli. Finalmente spunta tra i monticelli e i sassi una palla di capelli che è, senz’alcun dubbio, la testa. I cani, le mosche, il vermicaio non sbagliano. L’uomo che ha chiamato la pattuglia lo sapeva.  Rosendo ha dovuto lavorare di pala solo una decina di minuti per riportare tutto alla luce.

Aldo Muñoz Cota, ventisette anni, un metro e settanta di statura, carnagione scura, capelli e occhi neri, mento regolare, corporatura snella, un neo sulla spalla destra, il tatuaggio di un uccello sul bicipite destro, era scomparso da casa la mattina del 4 ottobre, tre uomini lo avevano costretto a salire su una berlina blu, senza targa. La data sulla denuncia è incerta, così come l’immagine di un ragazzo sorridente che l’accompagna. Sono passati almeno due anni da quando è stata diffusa.

Io e lo Squalo siamo stati compagni di scuola, dalle elementari alle superiori. E poi basta perché lo Squalo era negato per la matematica, la storia, la fisica e tutti gli altri campi del sapere e non ha più proseguito gli studi dopo essere stato bocciato persino in ginnastica, al secondo anno. Non siamo mai stati amici intimi ma tifavamo per la stessa squadra in mezzo a una frotta di traditori che sostenevano solo i campioni e cambiavano casacca tutte le estati. Noi no: siamo sempre rimasti fedeli anche quando i soci hanno venduto e il nostro club è finito in mano a un idiota di imprenditore che attribuiva i propri successi all’abitudine di non portare i calzini. «Così sono vicino alla terra», diceva quel somaro. Lo Squalo non si era più presentato a lezione ma io a volte lo vedevo in giro per il quartiere, quando andava a trovare le zie. La cugina più piccola, Raquel, sempre silenziosa, sempre vestita in modo troppo serio per la sua età, mi sembrava affascinante.

Irieri Quetzalli Méndez Pinto, diciannove anni, un metro e cinquantatré di statura, carnagione scura, capelli scuri, occhi marroni, corporatura media, nessun segno particolare, incinta di tre mesi, era scomparsa un undici di gennaio, stava tornando dal negozio dove lavorava come commessa e non era mai arrivata a casa. Madre di due bambini, di tre e cinque anni. Senza marito o compagno fisso di cui si avesse notizia. La fotografia allegata è confusa. La denuncia di scomparsa risale a un anno e otto mesi fa.

Le membra vengono chiuse in sacchetti. Rosendo rifiuta come sempre di essere aiutato. Sa che gli agenti della municipale maneggiano i resti senza nessuna accortezza. In realtà, vogliono solo farsi una foto con un dito o un piede per mostrarla ai figli. E poi dire, con espressione di finto rincrescimento, che brutta storia. Il telefono che ha in tasca è in preda alle convulsioni, ma Rosendo continua a ritmo forsennato, scrupoloso, raccoglie ogni parte del corpo smembrato e la ripone in un sacchetto.

Lo Squalo è ricomparso dopo anni d’assenza, ormai molto cambiato. Era molto elegante, sempre ammesso che il giallo canarino sia un colore elegante. Si è mostrato contento quando ha saputo che il marito della piccola Raquel ero io: il coglioncello sempre fedele ai colori della sua squadra, ha detto e mi ha abbracciato. Era sbronzo, e sì che il rinfresco della prima comunione di Juan Pedro, il cugino che abbiamo in comune, era alle undici del mattino. Tra i tavoli si bisbigliava il suo nome come fosse quello di una malattia venerea, eppure la pacca sulla schiena dello Squalo agli occhi della mia famiglia acquisita mi ha fatto crescere d’importanza. Non sarei più stato l’impiegatuccio che aveva rimorchiato Raquel. Ora ero l’amico dello Squalo. Mia moglie stessa, pur detestando il cugino, doveva essersi sentita gonfiare d’orgoglio, perché al secondo bicchiere mi ha incollato la coscia al ginocchio e più tardi, quando siamo tornati al tavolo dopo aver ballato un paio di canzoni, mi si è seduta sulla mano, con un risolino, e per un’ora non si è più spostata. Lo Squalo non ha più scambiato una parola con me quel mattino. Quando hanno servito tostadas e flautas ha salutato la nonna, solo lei, e se n’è andato.

Jonathan Luna Miranda, ventidue anni, un metro e settantanove di statura, carnagione chiara, capelli castani, occhi marroni, corporatura snella, studente dell’ultimo anno di medicina, impegnato nel periodo di servizio sociale richiesto dall’università, era scomparso il 2 marzo dall’ambulatorio in cui lavorava, i vicini lo avevano visto accogliere dei feriti ma una camionetta con uomini non identificati armati di fucili era arrivata poco dopo e li aveva caricati tutti. Il ritratto è quello di un ragazzo allegro, attraente. La denuncia di scomparsa è vecchia di quasi un anno.

Rosendo beve una Coca-Cola nel parcheggio del pronto soccorso. Gli agenti della municipale escono tutti insieme e lo raggiungono. Di certo si sono già fatti le loro fotografie, e se li immagina così, sorridenti, con i resti umani. Gli danno delle pacche sulla schiena. Se l’è cavata, amico, gli dicono, lei è uno con le palle. Uno di loro si ferma mentre gli altri si dirigono alle camionette. Senta, amico, questo è per il lavoretto benfatto. Gli allunga il rotolo di banconote. Perché si comporti sempre bene come oggi e chiami noi per primi. A Rosendo si è incollata la lingua al palato. Abbranca i soldi e abbassa gli occhi. Permette che l’agente gli faccia una carezza sui capelli come fosse un cane.

Il mezzo della ditta mi ha lasciato davanti al palazzo alle sette e un quarto. Un orario più che accettabile. Il portinaio era immerso nella partita di calcio in tv e non mi ha augurato nemmeno la buona notte quando sono passato. La vicina del 16C mi ha ignorato per i due minuti del viaggio in ascensore, concentrata sul telefonino. Una donna piena di rughe e nervosa, che aveva perso il marito da un paio d’anni. O almeno, così dicevano altre vicine. Ho fatto in modo di guardarmi i piedi per tutto il tempo e arrivato al mio piano, il quindicesimo, mi sono precipitato fuori. Allora la vicina si è voltata, proprio prima che l’ascensore si richiudesse, e ha sorriso. Il cane mi si è buttato addosso non appena ho aperto la porta. Dietro, c’era mia figlia, l’ho sollevata per aria, l’ho fatta girare e me la sono messa sulle spalle. Ci eravamo convinti a comprare lì perché, pur trattandosi di un grande condominio, i soffitti degli appartamenti erano abbastanza alti. Raquel si stava struccando e ho dovuto aspettare che finisse prima di baciarla. Come butta? Male. Anche oggi la radio per ore e ore a volume altissimo e le urla. Qui accanto. I nuovi vicini? Esatto.

Gli passano la denuncia di scomparsa alle tre e un quarto del mattino. È già venerdì. Alle otto sarò libero, pensa, e comincerà il fine settimana. Guadalupe, la dottoressa piccolina dell’ambulatorio, l’ha invitato a casa sua. Ci mancherebbe che qualcosa si mettesse di traverso. Li chiama, come si è impegnato a fare, e insiste che passino il messaggio al capo anche se sa che a quell’ora non è in servizio. Riconoscendo il suo comportamento servizievole, il comandante della polizia municipale si presenta alla fossa mezz’ora dopo. Con lei si lavora alla grande, amico, dice. E si siede in macchina, insieme ai suoi, a guardarlo scavare con la pala e l’attrezzatura finché non libera dalla sua veste di terra l’intero corpo, che appare nudo sotto la luce delle lampade. L’allarme tra gli agenti è immediato. Il corpo è intero. Maciullato, quindi irriconoscibile, con le carni smangiate e lacerate, ma intero. Porca puttana, e questo qua?, dicono. Fanno alcune telefonate veloci, frettolose, con tono angosciato. Questo ce lo portiamo via, amico, dicono al tecnico. Lui abbassa gli occhi e accetta. Compilo io il falso allarme, li rassicura. Pacche sulle spalle. Uno, non sa più chi, gli passa un altro rotolino di banconote. La dottoressa Guadalupe ha dei film da guardare in casa, le piacciono il vino rosso e la cucina italiana. Si concentra su di lei.

Neira Moncayo Hernández, quarantatré anni, un metro e sessanta di statura, corporatura robusta, carnagione scura, occhi neri e capelli biondi tinti, sul ventre una cicatrice da cesareo molto pronunciata, guidava un furgoncino di distribuzione di prodotti alimentari, era scomparsa il mattino del 6 giugno, il suo ritratto mostra una donna dalla mascella pronunciata e l’espressione decisa, sono due anni e un mese che non si sa più niente di lei.

Gli affronti si sono susseguiti per settimane. Hanno lanciato addosso al nostro cane una lattina, un pomeriggio che il poverino era rimasto chiuso sul balcone senza che Raquel se ne accorgesse e aveva cominciato ad abbaiare. Come tutti i disgraziati che fanno rumore, i vicini consideravano sacri i momenti in cui smettevano di tenere la radio al massimo e cercavano di dormire, anche se erano le quattro del pomeriggio. E hanno attaccato il nostro cane. E non solo. La bambina non ha più voluto andare sulle altalene del giardinetto al pianoterra perché un ragazzino di suppergiù dodici anni, il minore di quelli là, l’ha usata come bersaglio per un paio di sassate. Un altro ha approfittato di un viaggio in ascensore per toccare il culo a Raquel. Lei quella notte mi aspettava seduta in cucina, una sigaretta nella bocca stretta a pinza, lo sguardo saettante di rabbia. Dobbiamo fare qualcosa. Era ora di chiamare lo Squalo.

Guardano un film di inseguimenti in auto per un paio d’ore. I buoni fanno solo qualche tamponamento e i cattivi carambolano disastrosamente. Ci sono scene di sesso e alla dottoressa Guadalupe scappa da ridere ogni volta che vede qualcuno baciarsi. Mangiano gli spaghetti e lo pseudo pane all’aglio (fette di pane francese tagliate in diagonale e spalmate con una specie di salsa chimichurri mancata), bevono tre bicchierotti di vino a testa (Rosendo maledice la propria tirchieria, al supermercato avrebbe dovuto comprarne due bottiglie). Finalmente, si baciano e Rosendo ignora due telefonate che arrivano dal lavoro (un altro corpo, un altro corpo) perché nessuna delle due è della municipale. L’unico corpo che gli interessa oggi è quello di Guadalupe.

Fernando Garcés Pérez, cinquantanove anni, uno e settantasette di statura, carnagione bianca, occhi marroni, capelli brizzolati, costituzione robusta, barba e baffi folti, un tatuaggio militare (non meglio specificato) sulla spalla sinistra, vigilante, stipendiato da una impresa di trasporti, era stato prelevato dal suo posto di guardia da un gruppo di uomini armati di fucili, e caricato su una camionetta con destinazione ignota. La moglie offre una ricompensa a chiunque fornisca informazioni utili al suo ritrovamento. Sono già passati tre anni.

Una cosa era cercare lo Squalo e un’altra trovarlo. Nemmeno la nonna sapeva bene dove andare a pescarlo. Ti trova lui, ha suggerito la vecchietta, quando sono andato con prudenza, a domandarglielo. Non volevo chiedere ai suoi cugini più vicini e men che meno ai genitori per non scalfire l’aura della mia amicizia con lui al ritornello di «Vuoi il cellulare dello Squaletto? Ma non eravate amici?» Non ho voluto nemmeno informare Raquel delle mie intenzioni. Non avrebbe approvato. Allora sono ricorso al passato. Mario, un altro dei nostri amici, era avvocato, uno di quelli che nei soldi ci nuotano. Un paio di messaggi sono bastati per invitarlo a pranzo in una trattoria del centro equidistante dai nostri uffici. Quel maledetto Squalo lo cercano tutti, ha scherzato Mario quando, dopo il consommé, l’antipasto, il secondo, il dolce e il caffè, gli ho chiesto della nostra vecchia conoscenza. Lo devo vedere questo fine settimana. Gli dirò che lo cerchi. È urgente, ho sottolineato, il rumore non smette mai, sono in tanti, non possiamo andare avanti così. E quindi hai sposato Raquel, si è dilungato lui. Tipa molto strana ma molto bona.

Ci è mancato, amico, gli dice il capo della municipale quando lo raggiunge vicino alla macchinetta del caffè. I suoi colleghi sono dei mezzi idioti, hanno chiamato la polizia statale e ne è venuto fuori un casino. Ci fidiamo di lei. Lo sapete che io mi do da fare, ma ero di riposo, si giustifica Rosendo. Tranquillo, amico, il riposo è sacro. Glielo facciamo capire noi ai suoi amici. Abbassa gli occhi e se la svigna non appena l’agente si allontana. Sembra che oggi non ci siano casi urgenti. Riposa. Trova il tempo di passare dall’ambulatorio di Guadalupe. Dentro ci sono una donna e una bambina. Non riusciamo a chiudere occhio, dottoressa, i vicini fanno un gran baccano tutto il giorno, le raccontano. Lei prescrive un leggero ansiolitico e pillole per dormire. Quando nota che Rosendo la sta osservando, gli sorride e gli fa la linguaccia.

María Teresa Montes Gudiño, sedici anni, uno e cinquanta di statura, pelle chiara, occhi marroni, capelli castano chiaro, nei sulle guance e le braccia, corporatura sottile, il 3 giugno tornava a casa dalla scuola delle Madri Adoratrici a piedi, era stata vista parlare con un automobilista alla guida di una macchina nera (segnalata come rubata, stando alla targa memorizzata da un testimone). Non è più tornata a casa. Da un anno e tre mesi la cercano i genitori e fratelli.

Non mettete piede in casa, domenica, mi ha avvertito lo Squalo. Quei ragazzi sono pesanti, anche se non tanto stronzi come ti ho detto prima, però ci danno dentro. Se puoi farti un viaggetto, approfittane. La data indicata non mi andava tanto bene (l’ideale sarebbe stato partire il venerdì sera e tornare la domenica, per non dover chiedere un permesso sul lavoro) ma avevamo molta premura. La parte più difficile è stata trovare il coraggio di parlarne con Raquel, che ovviamente non si è bevuta la storia che mi avessero dato il lunedì e il martedì liberi per andare al mare. Ho parlato con lo Squalo e ci libererà dalle liti con quegli stronzi. Ci ha messo un po’ a capire e poi si è portata la mano alle labbra. Di nuovo mi vedeva diverso, forse più grande, forse più minaccioso. Abbiamo fatto le valige e prenotato per telefono un bungalow sulla spiaggia più vicina. Ho portato una giustificazione alla scuola di mia figlia. La strada era deserta e l’autobus è arrivato con quindici minuti di anticipo. Cielo coperto per tutto il fine settimana. La bambina giocava in una piccola piscina e Raquel, all’ombra, con un libro in mano, la sorvegliava. Ho dormito quasi tutto il tempo, come se mi avessero prescritto un farmaco molto potente. Nel menù del ristorante c’era anche il ceviche di squalo. Mi sono risparmiato i commenti.

Il lunedì Guadalupe non si presenta al pronto soccorso. L’aspetta tutta la mattina e non appena il lavoro glielo permette, fa un salto al suo ambulatorio chiuso. Solo al pomeriggio, un’infermiera lo informa della disgrazia: quel mattino un ferito, non si sa chi fosse, si è presentato al pronto soccorso. Lei non ha chiamato la municipale. Lo ha raccontato l’altro medico di guardia, quello che ha fatto la telefonata, nascosto nel proprio ambulatorio. Una camionetta piena di gente armata si era presentata lì nel giro di un quarto d’ora. Avevano caricato il ferito e la dottoressa. A Rosendo sembra che una pentola d’acqua bollente gli si rovesci nei polmoni. Esce dal parcheggio ed eccoli là, sulle loro camionette, sacchetti di patatine in mano e lattine di bibite per terra, già vuote. Hanno portato via la dottoressa, ne sapete niente? Si guardano tra loro. Il capo sospira. Ancora no, ma stiamo seguendo diverse piste. È amica sua? Una paura acuta come una puntura gli trapassa il collo. No, ma mi piaceva. Era molto bella. Gran peccato. Si fa subito schifo per il tono scherzoso con cui lo dice. Ma lo dice lo stesso. Strappa qualche risata. Perciò vi abbiamo detto di chiamare prima noi, amico. Lo sa benissimo. Qui è meglio non sollevare neanche un sasso perché da sotto può uscire qualsiasi cosa.

Jerónimo Alba López, undici anni, un metro e trenta di statura, corporatura normale, carnagione scura, capelli e occhi neri, voglia più chiara su una spalla, giocava nella zona del canale il pomeriggio del 23 novembre, aveva trovato alcune armi dentro dei sacchetti di plastica dietro dei cespugli, era andato ad avvertire alcuni agenti della polizia di Stato appostati a cinquecento metri da lì, che lo avevano mandato a casa. Da lì lo aveva portato via un commando di uomini armati di fucili il giorno dopo, all’alba, senza ascoltare le implorazioni dei genitori. Lo avevano caricato su una camionetta nera. Il ritratto è quello di un bambino serio, con gli occhiali. La denuncia di scomparsa risale a due mesi fa.

Il silenzio era delizioso. Metteva soggezione. La bambina si è addormentata non appena ha posato la testa sul cuscino. Raquel lo ha fatto solo quando le ho giurato che lo Squalo non sarebbe venuto a chiedermi di restituirgli il favore. Era vero. Non aveva voluto parlare di soldi né altro, aveva detto che non gli costava niente dare una mano a un amico fedele ai colori della squadra, che oltretutto si era messo insieme a sua cugina. E poi era andata bene che là ci fossero quei ragazzi, e quindi basta. Si sono impuntati e uno si è imboscato, ma li abbiamo messi a posto. Grazie, allora, gli ho detto. E di cosa, scemo. È la famiglia. Raquel era riluttante alle mie carezze e ho deciso di non discutere. Poi ho capito che aveva bisogno di prendere le sue pastiglie e dormire. Io ho fatto fatica a conciliare il sonno. Forse non ci sono nemmeno riuscito. Non mi ricordavo più le facce dei vicini. Né quella del ragazzo che aveva tirato i sassi a mia figlia né quella dello stronzo che aveva toccato il culo di mia moglie. Non mi ricordavo le loro facce. Non le avrei ricordate mai più. Appena è spuntato il sole ho deciso che ci saremmo trasferiti lontano da lì.

 

© Antonio Ortuño, 2017. Tutti i diritti riservati.

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