Autoreportage: l’America Latina, Marx, La Chiesa ed Ernesto Sabato

redazione Autori, Ernesto Sabato, SUR

«El escarabajo de oro» (ovvero «Lo scarabeo d’oro», titolo ripreso dal celebre racconto di Edgar Allan Poe) fu un’importante rivista letteraria argentina fondata dallo scrittore Abelardo Castillo insieme con Liliana Heker. Faceva seguito alla precedente esperienza di «El Grillo de Papel», che uscì fra il 1959 e il 1960, ma fu assai più longeva: il n. 1 uscì nel maggio del 1961 e l’ultimo, il n. 48, nel 1974. È considerata una delle più rappresentative della generazione del 1960, e fra i collaboratori contava su firme prestigiose come Miguel Ángel Asturias, Julio Cortázar, Carlos Fuentes, Juan Goytisolo, e non ultimo Ernesto Sabato.
Proprio di quest’ultimo è l’“autointervista” che presentiamo oggi, pubblicata sul n. 35 della rivista nel novembre 1967. Ringraziamo la traduttrice, Elisa Montanelli, per averci messo a disposizione questo testo.

di Ernesto Sabato
traduzione di Elisa Montanelli

Quale deve essere l’atteggiamento degli intellettuali indipendenti dopo l’insorgere dei popoli latinoamericani per la loro liberazione?

Un intellettuale lucido e generoso non può che propugnare la liberazione e l’unificazione dell’America Latina. La giustizia sociale e il sollevamento dei popoli bisognosi  costituiscono oggi un imperativo spirituale che nessuno scrittore può eludere senza trasformarsi in un letterato apocrifo.

Quale livello di efficacia riconosce alla cultura, e in particolare all’arte, rispetto all’azione liberatrice praticata all’interno di altri campi, per esempio la militanza politica?

Ho detto fino allo sfinimento che bisogna mettere in guardia la gioventù contro questa cretinata dell’“arte sociale”, principio in virtù del quale lo scrittore Howard Fast sarebbe più grande di William Faulkner. Come intellettuale, come uomo di idee, scrivo (o cerco di scrivere) con la testa, con piena lucidità. Come scrittore, non faccio né più né meno di ciò che faccio come intellettuale, poiché un romanzo si scrive con tutto il corpo, con il sangue, la pelle e la testa. Con la coscienza, ma anche con i dettami di quell’universo oscuro che comincia sotto il livello della coscienza. Per questo il romanzo esprime la realtà totale dell’uomo e il suo contesto: una realtà lacerata e ambigua. E per questo, se il romanzo è autentico, costituisce la più eccellente testimonianza della condizione umana. Niente di più, ma neppure niente di meno. A un romanziere, dunque, non si può né si deve chiedere (come fanno tante volte i bigotti del cattolicesimo o del comunismo) di fare propaganda a favore della Chiesa o della Rivoluzione Sociale, di dimostrare questa o quella tesi, di impegnarsi per edificare l’anima o per edificare il socialismo. Un romanzo genuino non serve a questi scopi. Ci sono strumenti migliori per questo: il pamphlet, la conferenza di barricata o di ateneo, il libro di politica o sociologia, il sermone o il reportage. Non il romanzo. E malgrado questo romanzo sia aspro e apparentemente negativo, è in ogni caso la testimonianza della sua epoca e serve a scuotere le coscienze, a svegliarle e metterle di fronte ai grandi dilemmi della condizione umana.

Come pensa che venga recepito dai giovani (che tengono gli occhi puntati su quelli come lei, che hanno raggiunto una rappresentatività significativa) il fatto che in dibattiti come quello di Necochea, abbia avuto a che fare con quelli che lei stesso ha condannato per aver chiesto “per favore” l’invasione di Cuba, e con Borges, di cui disapprova la firma in calce a certi documenti indegni?

Nel modo di pormi questa domanda c’è già una critica al mio atteggiamento, che rifiuto in pieno. L’incontro di Necochea fu organizzato dalla SADE (Sociedad Argentina de Escritores, ndt), che riunisce gli scrittori argentini, inclusi quelli di sinistra. La mia partecipazione a questi dibattiti non ha niente di ripudiabile o di spaventoso, dal momento che non ho fatto altro che esporre i miei ben noti punti di vista sulla letteratura e la realtà. Mi rifiuto di credere che ripudiate il dialogo, giacché l’essenza stessa del libero pensiero, che noi veri intellettuali siamo obbligati a difendere, è il dialogo. Non ho mai avuto difficoltà, né mai le avrò, a discutere con persone che hanno idee lontane dalle mie.  Gli unici che rispondono con attacchi ai ragionamenti sono quelli che finiscono per istituire campi di concentramento in Germania o in Siberia. Bisogna stare molto attenti: si comincia negando il diritto ad avere idee che non siano le nostre e si finisce torturando. E che dialogo o discussione non significano mollezza o condiscendenza, almeno nel mio caso, lo provano fatti che credevo ben noti ma che a quanto pare è necessario ricordare. Ho vissuto dieci anni in miseria per non aver accettato ciò che il peronismo aveva di totalitario, ciò che c’era di demagogia e sottomissione, di persecuzione e offesa per la dignità di metà della popolazione. Non per il suo carattere giustizialista. Ma appena caduto Perón e appena la rivoluzione cosiddetta libertaria prese a perseguitare e arrestare, denunciai dalle colonne di «Mundo Argentino» le torture che si facevano nelle carceri, e mi vidi obbligato a lasciare la direzione della rivista. In seguito a questo episodio dovetti polemizzare aspramente con la SADE e con intellettuali come Borges, che varò un manifesto in favore del governo. La polemica si fece ancora più dura quando Cuba fu invasa, e io fui uno dei pochi scrittori, contro l’immensa maggioranza del mondo intellettuale argentino, che denunciò questo crimine e ripudiò chi lo tollerava e lo acclamava. Fra loro, disgraziatamente, c’era un artista del calibro di Borges; ma gli attacchi che sollevai contro di lui in Ficción non mi hanno impedito allora e in seguito di riconoscere e ammirare i suoi grandi meriti letterari; perché, anche se sono pieno di difetti, almeno cerco di non essere un cinico né letterario né sociale. L’indipendenza di criterio con cui ho sempre proceduto (denunciando l’invasione di Cuba ma anche protestando contro il caso Pasternak) mi è valsa l’appellativo di comunista da parte dei reazionari, e di reazionario da parte dei comunisti. Non mi interessa: un intellettuale autentico deve avere il coraggio di dire la sua verità e di insorgere contro le verità ufficiali; perché l’atteggiamento filogovernativo non è proprio soltanto dei paesi capitalisti, ma anche di quelli socialisti. Ora, dopo la pubblicazione di El escritor y sus fantasmas, ho avuto un nuovo e chiaro motivo per giudicare l’atteggiamento generale della critica “marxista”, per smascherare il suo modo di essere rozzo e totalitario. E ho messo l’aggettivo fra virgolette perché non voglio sporcare la memoria di un genio come Marx, non solo lucido critico della società del suo tempo, ma anche spirito alto e generoso, ammiratore della più grande letteratura europea, di scrittori così poco sociali come Shakespeare (che recitava a memoria) o di Goethe, del borghese, ducale e filisteo Goethe. Il fatto è che in questo libro, nel quale si difende la tesi di un personalismo esistenziale (tesi che, d’altra parte, presenta marcati punti di contatto con la dottrina di Marx), si attacca il clero marxista e la nefasta e sterile scolastica costituitasi durante il regime di Stalin, ma che, evidentemente, era già in incubazione nella mentalità totalitaria di Lenin. Questo perché nel libro difendo il diritto dell’artista a un’arte profonda, di fronte alle grottesche e indifendibili tesi del cosiddetto realismo socialista, e addirittura del “realismo” fra virgolette enunciato da altri teorici un po’ meno precari. Perché mi azzardo a difendere la grande letteratura occidentale, quella letteratura che loro considerano putrefatta, controrivoluzionaria e decadente, di fronte alla superficiale e apocrifa letteratura propagandistica che fiorì (se il verbo non suona troppo comico) nell’accademia staliniana. Sbagliate o no, queste tesi non sono state discusse sul serio da nessuna delle riviste che direttamente o indirettamente si proclamano eredi del pensiero marxista. Sostenitrici di una “società migliore”, ovvero di una comunità più nobile ed equa, come di consueto lasciano la loro nobiltà di carattere forse per tempi a venire, limitandosi per il momento a rimpiazzare gli argomenti con gli insulti, e la filosofia autentica con la menzogna o le inchieste. A quanto pare, lo stalinismo non è morto con Stalin. E non poteva morire comunque. Perché non era il frutto del caso e nemmeno la conseguenza di un solo uomo, bensì uno stile di lotta e di vita, il culmine di un totalitarismo ideologico che arrivò (e ancora dovrà arrivare in varie occasioni) agli estremi più abominevoli pur di mettere a tacere l’avversario, anche quando apparteneva alle sue stesse file, come hanno provato tante riabilitazioni attuali di rivoluzionari assassinati a causa delle loro divergenze. È contro questa pericolosa mentalità che scrivo queste righe, e vorrei che fossero di avvertimento a tutti i giovani generosi e in buonafede di cui sono sempre stati ricchi i movimenti rivoluzionari. Un avvertimento contro questo spirito che, non avendo potere fisico, cerca di annientare l’avversario mediante l’insulto, la menzogna, l’accusa calunniosa; e quando raggiunge il potere politico, mediante la minaccia morale e materiale, la corruzione e le donazioni (non è solo nei paesi borghesi che si corrompono gli scrittori in questa maniera), la prigione e la tortura, il campo di concentramento e la morte.

Sabato, alcuni sacerdoti, con coraggiosa franchezza, accusano il capitalismo di utilizzare la Chiesa e le sue dottrine per opporsi ai cambiamenti sociali. Che cosa ne pensa?

Qualche anno fa, una rivista di giovani cattolici francesi legati a Mounnier, «L’esprit des Letres», mi chiese perché la Chiesa in America Latina fosse stata quasi sistematicamente dalla parte del privilegio, a scapito delle classi povere. Capirete che la domanda era già di per sé un’accusa e, provenendo da cattolici militanti, un’accusa inaspettata e molto grave. In effetti, credo che la Chiesa non abbia rispettato in nessun modo i postulati della sua filosofia di base, il suo pensiero e l’origine evangelica, la sua consustanziale dottrina della persona umana. Oppure, per un motivo o per l’altro, è sempre rimasta dalla parte del privilegio… Questo si può verificare in un settore del cattolicesimo. Basta vedere, per esempio, che cosa pensano e sentono certe signore del Barrio Norte – quasi tutte cattoliche – a proposito del peronismo. Non sono mai state contro Perón per le stesse ragioni che muovevano gente come me (dittatura, servilismo, carcere per gli oppositori, asservimento), ma per il suo carattere rivoluzionario, per quello che ha fatto in favore delle masse miserabili. Ne è prova il fatto che proprio queste signore e questi antiperonisti, pur mostrandosi tanto preoccupati per i diritti umani e la difesa della dignità delle persone, non hanno detto nemmeno una parola contro i tremendi crimini commessi in trent’anni da Trujillo nella Repubblica Dominicana, né contro le torture e i crimini (quasi trentamila studenti uccisi) durante la tirannia di Batista a Cuba, né contro gli oscuri supplizi scatenati da Stroessner in Paraguay. Volete una miglior prova d’ipocrisia?

Lei crede che esista, in contrapposizione a questo cattolicesimo ipocrita, un altro cattolicesimo vicino al popolo?

Naturalmente. A causa della rivoluzione della Chiesa avviata da quel grande papa che fu Giovanni XXIII, le signore sono tormentate e confuse. Borbottano che quell’animo meraviglioso era “circondato da comunisti”. Ora, il cattolicesimo è disposto ad accettare gli insegnamenti e le richieste delle encicliche? La Chiesa, che in Brasile tramite certi gruppi ha organizzato manifestazioni oceaniche contro Goulart, ha agito in difesa dei diritti umani? Ignorava forse che milioni di contadini affamati del nordest e delle favelas riponevano le loro speranze nella rivoluzione pacifica iniziata da Goulart? In tali circostanze, come non vedere con simpatia il coraggio e l’onestà spirituale dei sacerdoti che in questo periodo, in Argentina, parlano in termini simili.

L’affinità governativa della Chiesa nazionale è il risultato di una conduzione sbagliata in Argentina o un problema storico, un’inclinazione naturale del cattolicesimo?

In parte è un problema storico della Chiesa, che si trascina dall’epoca in cui il cristianesimo diventò la religione ufficiale dell’Impero romano. Nella sua epoca eroica, primitiva, chiaramente il problema era del tutto diverso. Nel momento in cui la Chiesa si allea al potere, e addirittura la sua influenza arriva a essere decisiva per il potere temporale, nasce questo problema che credo si concluda ora. Mi spiego: io credo che oggi ci troviamo a un altro grande bivio storico, come quello al tempo di Costantino, un bivio storico in cui la Chiesa, secondo me, deve affrontare un terribile dilemma: o rimane attaccata alle strutture dominanti, di cui in qualche modo fa parte, o comprende la sua missione di fronte a quello che possiamo chiamare, in un senso molto generico, il popolo. Credo che ci siano molte persone, molti sacerdoti nella Chiesa cattolica che pensano, come me, che questa seconda opzione sia quella decisiva e positiva per la Chiesa nel suo rapporto con la comunità.

Lei ha sempre posto l’enfasi sull’importanza del dialogo. Ma non può esserci dialogo senza onestà e franchezza. Per esempio, se un marxista conosce qualcuno che dice di leggere sant’Agostino, lo guarda male, come un irrimediabile idiota. E tantomeno può esserci dialogo senza libertà, perché, dall’altra parte, se un cittadino ha in casa Il capitale vive nel timore di una perquisizione. Chi può dialogare, dire quello che pensa, sotto tali psicosi poliziesche?

Leggere Marx o avere libri di Marx o parlare di Marx, soprattutto di questi tempi e in questi paesi periferici, che rispetto al capitalismo tendono a essere più papisti del papa, implica l’automatica classificazione come comunista. Nel senso che si dà a questa parola negli Stati Uniti, a partire da quella specie di celebre Inquisizione anticomunista del senatore Mc Carty. Durante una trasmissione televisiva ho avuto l’opportunità di parlare con un giovane sacerdote, il quale mi diceva che lui e un’altra trentina di giovani preti di Buenos Aires erano etichettati comunisti dalla SIDE (Secretaría de Inteligencia de Estado, ndt). Erano segnati nel registro della SIDE come comunisti, questa è la cosa peculiare. Conosco alcuni giovani cattolici, insospettabilmente cattolici, che hanno una profonda conoscenza di Marx e lo considerano, a ragione, uno dei grandi pensatori del nostro tempo. Dall’altra parte, e per rispondere alla domanda in modo completo, è vero che se una persona che si considera di sinistra – per usare questa espressione così ambigua –, una persona che crede nella giustizia sociale, legge per esempio sant’Agostino, strappa alla sinistra, in particolar modo alla sinistra marxista, un sorriso di sufficienza, ironia o disprezzo. Questo è un altro fatto certo, che rivela quanto sia difficile il dialogo. Da una parte il maccartismo, e da parte dei comunisti la cecità e il rifiuto del dialogo. Il rifiuto del fatto che si possa, in qualche modo, superare i dilemmi filosofici che abbiamo avuto fino a oggi, cioè la fede nel valore assoluto del marxismo. Si dimenticano che la dialettica, che tanto invocano, si basa sul fatto che non esiste niente di terminato, che tutto è in fieri.


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