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«Dal Boom al Boomerang» / 2


redazione Guillermo Cabrera Infante, José Donoso, Juan Carlos Onetti, Julio Cortázar, SUR

Gabriel García Márquez, Jorge Edwards, Mario Vargas Llosa, José Donoso, Muñoz Suaz

Ecco la seconda parte di «Dal Boom al Boomerang» di Gonzálo Celorio: una riflessione sulla storia del romanzo ispanoamericano a partire dal fenomeno del cosiddetto Boom.
L’articolo è apparso originariamente sulla Revista de la Universidad de México, che ringraziamo.

«Dal Boom al Boomerang» / 2
di Gonzalo Celorio
traduzione di Sara Proietti

Il boom è, dunque, un fenomeno letterario, i cui antecedenti risalgono alle origini della nostra vita indipendente, sebbene sia effettivamente possibile circoscriverlo, come abbiamo visto, alla decade che va dalla pubblicazione di La regione più trasparente nel 1958 a quella di Cent’anni di solitudine nel 1967 e che comprende romanzi indubbiamente straordinari che si sono rivelati fondamentali non solo per la letteratura, ma anche, e forse più marcatamente, per la storia della letteratura. Al tempo stesso, però, ci troviamo dinnanzi anche a un fenomeno editoriale. Oppresse dalla censura franchista che ancora affligge la Spagna di quegli anni, le case editrici peninsulari, in particolar modo quella diretta da Carlos Barral, volgono lo sguardo all’America ispanofona e accendono un potente riflettore a illuminare il lavoro letterario di alcuni scrittori che, in virtù dei loro innegabili meriti letterari, si vedono favoriti da questa luce: Fuentes, Cortázar, Vargas Llosa, García Márquez, Onetti, Donoso, Cabrera Infante… Le loro opere superano ampiamente le esigue tirature che in precedenza raramente sfioravano i mille esemplari; ancora fresche di pubblicazione, vengono tradotte in diverse lingue; sono lette da un pubblico numeroso ed eterogeneo e diventano oggetto di studio da parte delle metodologie critiche in voga in quegli anni, dallo strutturalismo alla psicoanalisi, passando per la critica sociologica, metodologie che molte volte, come denunciato da Gaston Bachelard, hanno finito per spiegare il fiore attraverso il concime. Nasce allora la figura, fino a quel momento sconosciuta nel mondo ispanofono, dell’agente letterario, che favorisce la divulgazione delle opere dei grandi autori, sebbene non sempre queste escano indenni dall’imposizione delle regole del mercato editoriale.

Arriva tuttavia un momento, negli anni Settanta, in cui questo riflettore si spegne. Se l’oscurità editoriale non si ripercuote sulla letteratura, lo fa, però, sulla storia della letteratura. La narrativa ispanoamericana continua la sua fertile marcia, sebbene non sia più illuminata da quella luce privilegiata che l’aveva fatta risplendere nel decennio precedente; segue il suo corso come aveva fatto prima del boom, con qualità e costanza, anche se non incide più in modo così determinante, come in passato, sul fenomeno letterario. Né sulla critica. Né sul mercato.

La letteratura del boom si inserisce, quindi, nella giovane tradizione romanzesca ispanoamericana, da cui ha attinto (come già da altre innumerevoli filiazioni universali, che vanno dai romanzi cavallereschi a Faulkner, da Balzac a Nabokov, da Edgar Allan Poe a Keats, dal barocco al surrealismo, dal jazz al cinema). Il fatto originale e determinante è che viene di ritorno da questa tradizione, vale a dire, dall’averla assimilata e rinnegata; o meglio: se ne è appropriata nel momento in cui ha rotto con essa, in accordo con l’affermazione di Octavio Paz secondo cui “la ricerca di un futuro finisce sempre con la riconquista di un passato”[1].

Ebbene: le generazioni letterarie successive sono di ritorno dal ritorno. Questo cosa significa? Significa che gli scrittori ispanoamericani posteriori al boom hanno assimilato il canone stabilito da Cortázar, Fuentes, Donoso, García Márquez, Vargas Llosa, Cabrera Infante e, proprio grazie a questa assimilazione, hanno potuto smantellarlo e sovvertirlo per articolare una voce nuova, ed eventualmente un nuovo canone.

Il boomerang. Con questa metafora, Carlos Fuentes identificò la generazione messicana di scrittori che si erano riuniti sotto l’auto-denominazione crack: Jorge Volpi, Ignacio Padilla, Vicente Herrasti, Pedro Ángel Palou, Eloy Urroz. Nel 1992, quando ricorreva il quinto centenario della cosiddetta scoperta dell’America, alcuni di questi scrittori, allora ventenni, e altri che non necessariamente facevano parte di questo gruppo, in occasione della Fiera Internazionale del Libro di Francoforte – dedicata quell’anno al Messico – assunsero una posizione critica nei confronti del realismo magico. Ricordo che il pubblico tedesco che assisteva alle tavole rotonde che si tenevano in quei giorni non capiva perché in Messico – il paese della prima rivoluzione sociale del xx secolo, il paese surrealista per eccellenza, come lo aveva definito André Breton, il paese di Frida Kahlo, di Diego Rivera e dei teschietti di zucchero, il paese della presenza quotidiana della morte nel mondo dei vivi a giudicare da Il labirinto della solitudine o da Pedro Páramo – i narratori volessero scrivere romanzi internazionali, psicologici o polizieschi. Era come sprecare lo scenario. Gli europei volevano che continuasse a piovere per anni in quel magico Macondo con cui si identificava il Nuovo Mondo e che destava tanta meraviglia. Un largo adiós a Macondo, non a caso, fu il titolo scelto da Eduardo García Aguilar per l’introduzione a un’antologia di racconti colombiani contemporanei pubblicata dall’Università Nazionale Autonoma di Città del Messico nel 1994[2].

La denominazione boomerang, fortunata di suo in virtù del vincolo sonoro e grafico con il boom e, al tempo stesso, con l’idea che ciò che parte ritorna, arricchito da quanto acquisito lungo il percorso, può applicarsi non solamente al crack, ma anche, in senso lato, alla scrittura narrativa ispanoamericana posteriore al boom, da Luisa Valenzuela e César Aira in Argentina a Senel Paz e Leonardo Padura a Cuba; da Antonio Skármeta e Diamela Eltit in Cile a Luis Rafael Sánchez e Ana Lydia Vega a Porto Rico; da Darío Jaramillo e Rafael Humberto Moreno-Durán in Colombia a Claribel Alegría e Sergio Ramírez in Nicaragua; da Ednodio Quintero e Luis Britto García in Venezuela a Hernán Lara Zavala e Juan Villoro in Messico.

Non è semplice discutere di una letteratura che ancora si sta scrivendo e rispetto alla quale non si ha un’adeguata distanza critica. Ci sono, tuttavia, alcuni tratti generali della narrativa ispanoamericana dei giorni nostri che vorrei elencare allo scopo di delineare, seppur in modo conciso e schematico, sia quello che ha ereditato dal boom sia quello che ha scartato durante il suo prolungato addio a Macondo.

1. Il nostro romanzo ha smesso di essere sperimentale. Ha ereditato le svariate e audaci tecniche che gli scrittori del boom, lettori di Faulkner o di Joyce, utilizzarono sperimentalmente nelle proprie opere, come la possibilità di letture multiple di Rayuela o il delirante monologo di Ixca Cienfuegos in La regione più trasparente o i dialoghi simultanei in Conversazione nella «Catedral», ma questi espedienti hanno cessato di rappresentare un fine in sé e sono passati in secondo piano rispetto a ciò che ora sembra essere l’unica priorità: raccontare una buona storia nel miglior modo possibile.

2. L’immaginazione, come la nostalgia – ah! –, non è più quella di un tempo. È una fortuna che abbia saputo esacerbarsi, nella letteratura del boom, per descrivere un universo non adeguatamente sfruttato in precedenza. Tuttavia, questa immaginazione iperbolica, generosamente straripante nella stesura di romanzi come Cent’anni di solitudine, ha perso la propria ragione d’essere dopo aver saputo dare voce, al suo apice, alla nostra epica moderna e dopo che, affievolita, ha iniziato a defluire meccanicamente per i sempre più battuti percorsi del realismo magico. Ritengo, in accordo con lo scrittore colombiano Juan Gabriel Vásquez, che il romanzo ispanoamericano abbia posto un freno a questa immaginazione debordante e abbia ripiegato verso l’oggettività, intesa, sì, in senso ampio e aperto, ma con qualche limite. Si direbbe che il romanziere di oggi aspiri a infondere nel lettore la certezza che ciò che legge, per quanto sia opera di fantasia – quale, per sua stessa natura, è la letteratura di finzione –, è, al tempo stesso, letterariamente vero rispetto alla realtà di riferimento. Direi che sia proprio a questo nuovo atteggiamento che si deve il successo senza precedenti del romanzo storico nei nostri paesi. Basti citare qualche titolo come Santa Evita e La novela de Perón di Tomás Eloy Martínez, La festa del caprone di Mario Vargas Llosa, Mil y una muertes di Sergio Ramírez o El hombre que amaba a los perros di Leonardo Padura. E, per il caso messicano, sono degni successori di Noticias del Imperio di Fernando del Paso romanzi quali Península, península di Hernán Lara Zavala, La invasión di Ignacio Solares, La corte de los ilusos di Rosa Beltrán, El seductor de la patria di Enrique Serna, Yo, la peor di Mónica Lavín, Expediente del atentado di Álvaro Uribe…

3. La questione dell’identità, che tanto preoccupò e occupò romanzieri, saggisti, filosofi, pittori, musicisti e registi, è stata superata. Quantomeno – e mi riferisco in particolar modo al caso del Messico, che può estendersi all’intera Ispanoamerica – la questione dell’identità non è più oggetto di ricerca delle nostre espressioni letterarie, filosofiche o artistiche,  e questo significa che, forse senza saperlo, l’abbiamo già trovata. Come auspicato da Jorge Cuesta, la nostra letteratura non si preoccupa più di essere nazionale, ma di essere letteratura, senza per questo essere meno messicana[3].

Jorge Volpi – per ricollegarci agli appartenenti alla generazione del crack, o del boomerang, secondo Fuentes – scrive un romanzo, En busca de Klingsor, ambientato nella Germania della Seconda Guerra Mondiale; Ignacio Padilla, in Amphytrion, fa riferimento a un paese qualunque al di là di quella che prima della caduta del muro di Berlino veniva chiamata cortina di ferro; Vicente Herrasti sceglie il filosofo presocratico Gorgia, a cui Platone dedica un dialogo, come argomento di La muerte del filósofo e Pedro Ángel Palou dedica un romanzo, perché no?, alla figura del contadino rivoluzionario Emiliano Zapata. Questi scrittori sono messicani nella misura in cui non hanno più bisogno di esserlo. E lo sono grazie a chi, come Samuel Ramos, Leopoldo Zea, Octavio Paz o Carlos Fuentes, li ha affrancati da questa necessità.

Il nostro romanzo è giovane. Matura con il boom. E ora è di ritorno dal boom.   Ecco il boomerang.


[1] O. Paz, introduzione a Poesía en movimiento. México, 1915-1966, Siglo Veintiuno, Città del Messico, 1969, p. 5.

[2] E. García Aguilar, Veinte ante el milenio. Cuento colombiano del siglo XX, UNAM, Città del Messico, 1994, pp. 7-22.

[3] Cfr. J. Cuesta, “La literatura y el nacionalismo” in Poemas y ensayos, UNAM, Città del Messico, 1978, pp. 96-101.

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