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La letteratura, memoria perfezionata

redazione Scrittura, Società, SUR

Juan-Gabriel-Vásquez_edizioniSURCome nel caso di Purgatorio di Tomás Eloy Martínez, uno dei grandi temi della letteratura è la memoria. Pubblichiamo a questo proposito un breve saggio del colombiano Juan Gabriel Vásquez uscito su el malpensante, che ringraziamo.

«La memoria perfezionata»
di Juan Gabriel Vásquez
traduzione di Giorgia Esposito

A cosa serve la letteratura? Fra le molte risposte a questa domanda, l’autore del presente saggio mette in rilievo la possibilità di reinventare il passato.

Ne Gli emigrati, lo straordinario libro di W.G. Sebald sulla distanza nello spazio, ma anche nel tempo, c’è un momento in cui il narratore, deciso a verificare una serie di cose sul passato dei suoi parenti espatriati, arriva a Lakehurst, una cittadina di anziani, nel New Jersey. Lì, nell’arco di un intero pomeriggio, ascolta, per bocca della zia Fini, il racconto della vita e dei miracoli dello zio Ambros Adelwarth. E, siccome nei libri di Sebald tutti narrano storie, la zia Fini ci racconta ciò che lo zio Ambros raccontava a lei; aneddoti così fantasiosi che lei finiva col non credervi mai del tutto. «A volte», dice, «mi sembravano così improbabili che arrivai a pensare che lo zio soffrisse della sindrome di Korsakoff: come forse saprai, aggiunse la zia Fini, si tratta di una malattia per cui le memorie perdute sono rimpiazzate da invenzioni fantastiche».

La sindrome di Korsakoff. Per qualsiasi essere umano, rappresenta una pena terribile; per lo scrittore, invece, è una mera metafora del mestiere. Scrivere romanzi è l’arte di trasformare i ricordi reali in ricordi inventati; di rimpiazzare la nostra memoria privata, individuale e circoscritta, attraverso quella maniera di ricordare che è propria della letteratura, la cui caratteristica più straordinaria è il fatto di far parte di quello che chiamiamo inconscio collettivo, provocandoci, nel contempo, l’illusione di parlare della nostra vita più intima. «La memoria», dice Sebald in un altro scritto, «è la spina morale della letteratura». In breve, è quando la letteratura si occupa di ricordare che ci risulta più scomoda, più sovversiva e, pertanto, più fedele alla sua natura. Ricordare è un atto sconvolgente; crea scompiglio chi ricorda, chi non dimentica mai: non occorre che uno Stato corrisponda alla nostra idea di totalitarismo perché dedichi buona parte delle sue energie a plasmare il ricordo collettivo, tavolta eliminando le testimonanzie, talaltra eliminando i testimoni.

Qualche anno fa, Orhan Pamuk osò ricordare, su un giornale svizzero, un momento scomodo del passato del suo paese – il massacro di milioni di armeni – e il goveno lo accusò di «denigrare pubblicamente l’identità turca», ed era sul punto di incarcerarlo. La pressione esercitata dal PEN International e le proteste pubbliche di vari intellettuali consentirono un epilogo della faccenda meno vergognoso per il governo turco, ma in molti di noi persistette un’inquietudine: che mondo è mai questo, dove la memoria è punibile e il silenzio sul passato protetto dal Codice Penale? Nel romanzo di Pamuk, Il libro nero, un personaggio perde la memoria, e con essa il passato, «l’unica cosa che lo univa al suo paese». Una volta chiesi a Pamuk il perché della sua ossessione per il passato. «In Turchia», mi disse, «il passato è problematico. La creazione dell’identità turca moderna è l’atto di dimenticare gli orrori del passato. M’interessa la Storia non per il suo aspetto romantico, ma perché qui è qualcosa di vivo. È un’opzione politica».

Il problema, come sanno bene Pamuk e tutti i romanzieri che lavorano con questa materia prima, è che la Storia ha la curiosa caratteristica di diventare inoffensiva col passare del tempo. La ragione è semplice: la Storia è composta da eventi collettivi, e l’essere umano non è fatto per simpatizzare con le generalizzazioni. Una cosa è leggere un saggio storiografico sulle guerre napoleoniche; un’altra, ben diversa, leggere Guerra e pace. I romanzieri sono scomodi perché restituiscono all’evento pubblico un carattere individuale, intimo, relativo. Dopo che l’esperienza individuale è stata depurata, quasi edulcorata, trasformandosi nella storia che, in mancanza di una parola più adatta, chiameremo oggettiva, il romanziere la ritrasforma in qualcosa che succede a qualcuno. È come riempire un bicchiere in cui l’acqua era evaporata, laddove il bicchiere è la storia, e l’acqua l’esperienza umana.

Col tempo, l’esperienza dell’individuo evapora, non lasciando altro che il fatto nudo, l’aspetto numerico o statistico, la descrizione schietta e disumanizzata. Lo scrittore di romanzi torna a restituire il senso del destino particolare, della sofferenza particolare, della vittoria o sconfitta particolari di un singolo uomo. E noi lettori lo capiamo, non attraverso una comprensione fredda e distanziata, ma grazie a quella maniera di comprendere la realtà che è propria del romanzo: relativa, intuitiva, priva di verità assolute, ma provvista di un’assoluta umanità: l’empatia. In un suo libro recente, Kundera afferma che negli anni novanta, quando tutt’Europa si scandalizzava per i massacri perpetrati dai russi in Cecenia, c’erano alcuni, pochi, per i quali il vero scandalo non era il massacro, ma la sua ripetizione. Erano i lettori di Chadži-Murat, di Tolstoj, che centocinquant’anni prima aveva già raccontato tutto quello che allora si leggeva sui giornali. Quei lettori non avevano vissuto quel passato, però lo ricordavano.

Talvolta ho l’impressione che l’umanità si divida in due categorie: quelli che pensano che ricordare sia inutile e quelli che pensano che sia pericoloso. È in queste acque che si muove il romanziere; ciò si deve, in parte, al fatto che il passato è un luogo, al contrario di quanto di solito si dia per scontato, tutt’altro che fisso. Faulkner sosteneva che il passato non solo non è morto, ma non è nemmeno passato. Vuol dire che le conseguenze di quello che abbiamo fatto non ci lasceranno mai, ma anche che il passato è malleabile, e può essere manipolato. I romanzieri, quindi, affrontano questo paradosso: sono i principali trasformatori della memoria, nel senso della sindrome di Korsakoff, ma, allo stesso tempo, ne sono i guardiani, nel senso che sono quelli che ricordano ciò che gli altri, volontariamente o meno, hanno dimenticato. Sono insieme fedeli e infedeli. Ma hanno autorevolezza: l’autorevolezza dei genitori, ad esempio, che sono gli unici capaci di dire a un figlio se quello che ricorda è vero oppure no. Se per gli essere umani è importante conservare le proprie memorie private, i genitori, unici testimoni della nostra prima vita, hanno su di noi un potere divino; la letteratura svolge un ruolo simile nella nostra vita in quanto esseri sociali, giacché è in essa che, molte volte, si può trovare l’unica prova dei fatti che ci hanno trasformato in quello che ora vediamo quando ci guardiamo allo specchio.

Questo, ovviamente, per molti è inaccettabile. Qualche anno fa, Salman Rushdie parlava del suo romanzo I versi satanici e dell’interrogativo che palpitava dal fondo della sua battaglia, quella del romanzo, ma anche quella di Rushdie: chi ha potere sulla storia? Storia, in questa frase, va letta nel senso di racconto della nostra vita, di quella narrazione che costruisce la nostra identità, grazie alla quale sappiamo chi siamo. Rushdie lo dice così:

Chi ha il potere di raccontare la storia della nostra vita e di determinare, non solo quali storie si possano raccontare, ma anche in che modo, come si debbano raccontare? Ci sono storie che indubbiamente riguardano tutti: la storia della cultura e della lingua in cui viviamo, la Storia in cui viviamo e, infine, le strutture etiche in cui viviamo, una delle quali è la religione. Chi dovrebbe avere potere su queste storie?

In realtà, la domanda che sta facendo – quella che, come un sottomarino, naviga tra le righe – è un’altra: dovremmo lasciare questo potere nelle mani di entità quali lo Stato, la Nazione, la Chiesa? È chiaro che non ci sarebbe motivo di porsi quesiti del genere se tali entità non fossero grandi narratrici. Però lo sono: hanno a loro disposizione tutte le armi del miglior romanziere e perfino alcune che al romanziere mancano. Quando diventa evidente che la Storia è una narrazione il cui narratore è il Potere, e che pertanto il Potere ha, e avrà sempre, l’aspirazione di raccontare la nostra storia, il ruolo della letteratura riveste un’importanza colossale: essa diventa lo spazio in cui mettiamo in questione quella narrazione monolitica, in cui raccontiamo l’altra versione, la nostra versione.

E questo scontro, la lotta della nostra versione contro quella ufficiale, del nostro racconto contro quello imposto da altri, o, semplicemente, la lotta per il diritto ad avere più versioni anziché una sola, s’ingaggia, in buona misura, nel passato: in quello che ricordiamo, come lo ricordiamo, quando lo ricordiamo e, infine, se possiamo o meno ricordarlo in totale libertà e senza paura alcuna.

Nel saggio La prevenzione della letteratura, George Orwell dice: «Dal punto di vista totalitario, la storia è qualcosa che si crea, non che si apprende». E aggiunge: «Il totalitarismo esige, infatti, la continua alterazione del passato». Il saggio è del 1946; sarebbe un grave errore, tuttavia, oltre che un’ingenuità, credere che non sia applicabile al tempo che viviamo (in quanto scritto nell’immediato dopoguerra), o ai governi che abbiamo (in quanto si riferisce alle dittature di ieri e non alle democrazie di oggi).

In 1984, il capolavoro di Orwell, i documenti contrari al regime vengono lanciati in un tubo di aspirazione in cui scompaiono per sempre: il celebre memory hole. Il buco della memoria. Come tutto nel regime del Grande Fratello, la denominazione è astutamente il contrario di ciò che designa: il tubo non conduce che all’oblio.

Contro l’oblio, contro la creazione impune della nostra Storia comune da parte di chi ha il potere di manipolarla, contro l’alterazione del passato che mai si arresta, si staglia, e si è sempre stagliata, la letteratura. Simon Wiesenthal, citato da Primo Levi, ricorda i boriosi ammonimenti dei soldati delle SS:

Comunque finisca questa guerra, quella contro di voi l’abbiamo già vinta; nessuno sopravviverà per raccontarla, e anche se qualcuno riuscisse a scappare, il mondo non gli crederebbe… La storia dei Lager saremo noi a scriverla.

Alla fine, lo sappiamo, non fu così: non la scrissero loro. «La storia dei Lager», dice Primo Levi, «è stata scritta quasi esclusivamente da chi, come io stesso, non ne ha scandagliato il fondo». Chiunque abbia letto I sommersi e i salvati sa che la frase di Levi è colma di malinconia, quasi di colpa – la colpa del sopravvissuto – : quelli che sopravvissero erano i prigionieri privilegiati, pertanto l’orrore profondo non potrà mai essere totalmente conosciuto, giacché nessuno è sopravvissuto per raccontarlo. Ma noi dobbiamo essere eternamente grati a Levi: in questi tempi di negazionismo rampante e di amnesia volontaria, le sue pagine, e quelle di altri come lui, sono l’unica cosa che si frappone tra il passato europeo – no: il passato dell’Occidente – e la sua meticolosa obliterazione, il suo ricordo alterato, l’imposizione di un racconto mendace. Quello che voglio dire è che ogni società si costruisce su una trama di racconti selezionati da qualcun altro, racconti il cui obiettivo è mettere in scena alcuni fatti, riducendone altri alla categoria di segreto, menzogna o tabù; forse il compito della letteratura consiste nell’appropriarsi di quelle finzioni che vogliono far passare per verità, e confrontarle con una verità fatta di finzioni.

Mentre scrivo queste righe, è morto, all’età di 103 anni, Francisco Ayala. Il giornale che me ne dà notizia ha scelto, come intestazione, una delle tante frasi che Ayale disse, o scrisse.

«La vita è un’invenzione», dice, «e la letteratura, memoria perfezionata».

Memoria perfezionata: ma da chi, e come? Immagino abbiate le vostre ipotesi. La mia è questa: è il contatto con l’immaginazione a perfezionarla. E non mi riferisco soltanto all’intervento della nostra capacità affabulatrice, a quel modo peculiare di trasformare il mondo tipico degli scrittori, bensì al grado di solidità o permanenza che acquisiscono i ricordi – la nostra esperienza – quando si ritrovano, in virtù dell’atto creativo della scrittura, sviscerati attraverso la matrice di un linguaggio potente.

Questa permanenza, questa solidità continuano a essere il baluardo di ciò che intendiamo quando parliamo di umanità. Siamo l’invenzione di chi ci ha narrati: siamo la creazione di Omero e del Bhagavadgītā, di Cervantes, Shakespeare e Omar Khayyam. Questi racconti ci sussurrano all’orecchio chi siamo. Questi racconti ci ricordano dove siamo caduti. Questi racconti ci permettono di ridurre la distanza insormontabile e crudele che ci separa da ciò che fummo, e sono, pertanto, l’unico indizio di ciò che possiamo essere.

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