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La curiosità del poeta: intervista a José Emilio Pacheco

redazione Autori, Interviste, José Emilio Pacheco, SUR

Il vento distante è in libreria, a pochi mesi dalla prematura morte del suo autore, il poeta e narratore messicano José Emilio Pacheco. Pubblichiamo oggi un’intervista di Pablo Ordaz, che ringraziamo, uscita su El País nell’ottobre del 2009, poco prima che Pacheco ricevesse il XVIII Premio Reina Sofía de Poesía Iberoamericana.

«La curiosità del poeta»
di Pablo Ordaz
traduzione di Raffaella Accroglianò

C’è una voce che emoziona i giovani messicani. È quella di un uomo di settant’anni che ha conosciuto Octavio Paz, Luis Cernuda, Vicente Aleixandre, Max Aub, Jorge Luis Borges. C’è una poesia del 1967 che emoziona tutte le generazioni di messicani. Si intitola «Alta Traición» («Alto tradimento») e dice così: «Non amo la mia patria. / Il suo fulgore astratto è inafferrabile. / Ma (benché suoni male) / darei la vita / per dieci dei suoi luoghi, / certa gente, / porti, boschi, deserti, fortezze, / una città disfatta, grigia, mostruosa, / vari personaggi della sua storia, montagne / – e tre quattro fiumi». La voce e la poesia appartengono a José Emilio Pacheco, ma oltre alla vastità della sua opera, all’importanza dei premi ricevuti, ciò che ispira la vita e l’opera dell’ultimo premio di poesia iberoamericana Reina Sofía si riassume in una frase che inframmezza nella conversazione: «È tutto molto divertente». Ed è nel modo contento in cui lo dice, nel desiderio inesauribile di apprendere e nella sua forma di trasmettere ciò che sa, sempre come un regalo, mai come una lezione, che sta l’anima di José Emilio Pacheco, la sua connessione tanto intima con il meglio del Messico.

PO: Che bella casa!

JEP: Ci piace tanto.

L’appuntamento è alle nove di mattina, a casa sua, per colazione. José Emilio Pacheco stringe la mano del giornalista e in quel momento, fine estate, Città del Messico, colonia di La Condesa, due timori si siedono uno di fronte all’altro. Quello del poeta per le interviste. Quello del giornalista davanti a un saggio che odia le interviste. Dopo un primo caffè d’approccio e, dinanzi alle prime domande, José Emilio Pacheco decide di confessare: «Vedi? Hai acceso il registratore e mi sono ammutolito. C’è gente che ha un talento per le interviste, ma io sono assolutamente privo di questo talento. Dopo ogni intervista penso: perché non ho detto questo? Avrei dovuto dire quell’altro… considera che io sono abituato a scrivere, a vedere ciò che penso. E se non vedo quello che sto dicendo, come posso pensare?».

Confessione dopo confessione il giornalista gli racconta che il suo ultimo libro, La edad de las tinieblas, pubblicato in Spagna da Visor, non gli era arrivato che la sera prima. E che era stato un tutt’uno aprire il file, cominciare a leggere i cinquanta poemi in prosa e provare tenerezza per Bolotó, «il terrore delle formiche», paura dinanzi allo sguardo dell’insetto, «nella notte dell’insetto c’è un minuto nel quale si domanda come sarà sentirsi umano», nostalgia di quel pomeriggi lontano con quella donna, «andiamo così d’accordo che senza dircelo preferiamo non tornare a vederci…». Nello spegnere il computer, ad alba inoltrata, il giornalista era sparito e si era trasformato in uno dei suoi ammiratori più appassionati. Quando José Emilio Pacheco assiste a qualche evento letterario in Messico, gli organizzatori sanno che ci sarà il pienone, e che i suoi lettori non si accontenteranno di sentirlo parlare, ma che vorranno salutare l’autore della Battaglie nel deserto perché si faccia foto con loro, gli dedichi un libro… Quando si chiede qua e là di José Emilio Pacheco, le risposte coincidono: «Lo intervisterai? Che fortuna! È una persona stupenda, un vero saggio, come quelli di una volta. Ma – abbassando la voce – ricordati che José Emilio Pacheco odia le interviste». Pacheco si scusa: «Il paradosso è che a me piace molto leggere le interviste, eppure, quando a volte mi domandano: “e lei cosa voleva trasmettere con questa poesia…?” Ah, io ecco non so cosa rispondere… Preferisco se parliamo tranquillamente e poi scrivi quello che preferisci. Hai già preso il caffè caffè? Quale poesia mi dicevi che ti era piaciuta?»

Senza dubbio una delle poesie più sorprendenti è esattamente quella che da il titolo al libro, «La edad de las tinieblas». In uno dei paragrafi, José Emilio Pacheco, descrive così una lampada a olio: «Mi intriga pensare a ciò che hanno detto i miei genitori: nel petrolio della lampada fluttuano ridotti a essenza boschi e dinosauri preistorici. Milioni di anni sono stati necessari per inumidire la linguetta di tela ruvida che trasformata in miccia supporta la fiamma. Una campana di cristallo la protegge e le permette di illuminarci. Nella lampada a olio si consumano i resti fossili di una vita improbabile. La notte odora di luce carbonizzata».

PO: Che cosa si sente quando uno scrive una frase perfetta, una frase definitiva come questa? «La notte odora di luce carbonizzata».

JEP: Uno si sente molto soddisfatto, sì, questo sì.

PO: E quando si accorge che un suo libro pubblicato nel 1981 – Le battaglie nel deserto – è ancora tanto attuale che continua a essere tradotto, e ammirato anche da lettori di sedici anni…?

JEP: Certamente una grande soddisfazione, ma anche una qualche forma di umiltà. Non si ha l’intenzione di provocare questo effetto, è qualcosa che possiede il testo. Perché uno vorrebbe sempre scrivere bene e che le cose funzionassero. Ma non funzionano…

PO: È molto esigente?

JEP: Sì, conservo o distruggo molto.

PO: E come sa se un testo è buono o no?

JEP: Questo mi costerebbe molto dirlo. Forse a volte si ha una chiara intuizione di ciò che va bene. Il problema è che si tratta di un’intuizione provvisoria, perché dopo, quando viene pubblicato il libro, continuo a fare correzioni… Sono un incubo per gli editori.

PO: A proposito dei versi, lei racconta in La edad de las tinieblas: «Li vedo formarsi indifesi e uscire alla ricerca di qualcuno che li protegga. La maggior parte dà loro le spalle. Quando si avvicinano, le persone distolgono lo sguardo e fanno come se i versi non esistessero». Quando decide che le sue poesie sono pronte per prendere la metro e per vincere «l’ostilità, il disprezzo o quanto meno l’indifferenza dei passeggeri»?

JEP: Non c’è nessuna regola. Potremmo metterci ad analizzare poesia per poesia e ti direi: «Vedi, questa mi è costata un lavoro infinito, un lavoro di anni». E altre, invece, escono praticamente al primo tentativo. È molto strano…

PO: E nemmeno l’esperienza serve?

JEP: Per niente, al contrario. A vent’anni pensi che forse un giorno arriverai a scrivere con facilità, con certezza e conoscenza… Io no, mai. È sempre la prima volta, sempre. E inoltre, la maggior parte delle cose vengono molto male. La maggior parte dei testi che scrivi sono pessimi, perché te ne venga fuori uno fatto bene ne devi avere cinquanta fatti molto male.

PO: Così malvagi non saranno…

JEP: Sì, sì. Mayans, un neoclassico del xviii secolo diceva: «In poesia ciò che non è eccellente è disprezzabile». E aveva ragione.

PO: Ovvero, ci sono poche cose più spaventose di un cattivo poeta…

JEP: Sì, sì, e poi c’è un’altra cosa: nessuno ammette più le critiche. La critica è finita con i caffè letterari. Bisogna abituarsi di nuovo al fatto che la gente non sia più totalmente d’accordo con te, che non ti dica che tutto quello che scrivi è buono. Perché se io adesso dico a qualcuno: senti non mi è piaciuto… Non lo accetta. Ora come ora, una cosa del genere è impensabile.

PO: Come raggruppa le poesie?

JEP: Le compongo poco e a poco e all’improvviso mi dico: qui c’è un libro. Tuttavia, non mi sono mai proposto di scrivere un libro di poesia. Questa era una particolarità, per esempio, di Pablo Neruda. Neruda diceva: faccio un libro. E lo faceva. Non si limitava a mettere insieme le poesie. Per esempio, io dico che Rubén Darío è un poeta da poesie e non da libri di poesie. Rubén Darío compone poesie, non pensa mai al libro, Neruda invece sì.

PO: A proposito, è vero che lei non ha voluto conoscere Pablo Neruda?

JEP: Sì. Che cosa potevo dire io a Pablo Neruda, preferivo leggerlo. Mi dissero: questa sera qui ci sarà Neruda (immagino che sarebbe stato circondato da altre ottocento persone). E cosa gli potevo dire io: «Buonasera, signor Neruda, mi piacciono molto le sue poesie…»

OP: Neruda, Cernuda, Aleixandre… Li ha conosciuti tutti…

JEP: Li ho conosciuti tutti per ragioni di età. Soprattutto la gente degli anni Sessanta. L’influenza della letteratura spagnola in Messico è stata molto grande. Bisogna considerare che l’esilio è stato una catastrofe umana ma allo stesso tempo una benedizione culturale e di scambio. Io sono nato nel 1939, e ho trascorso praticamente tutta la vita in esilio. Ci sono due scrittori che hanno avuto molta importanza in Messico: Max Aub e Vicente Aleixandre… Vicente Aleixandre scriveva una lettera a qualsiasi poeta latinoamericano che gli mandasse un libro. Scambiai molte lettere di Aleixandre, ma quando andai a Madrid nel 1968 non ebbi il coraggio di andare a Velintonia a trovarlo. Non l’ho mai visto di persona. I libri spagnoli arrivavano a casa di Max e uno poteva leggerli. Lui fu davvero un vincolo molto importante.  Sono molto contento che si stia rendendo giustizia a Max.

OP: Fino a poco tempo fa era praticamente uno sconosciuto in Spagna.

JEP: Sì e anche qui. È ciò che accade con un’opera tanto vasta e tanto varia. Di fatto, a proposito lui dice una cosa molto azzeccata: «L’uomo orchestra non raggiungerà mai la notorietà del solista».

OP: A volte ho l’impressione che prima, ai tempi delle lettere e delle navi, ci fosse più contatto tra le due sponde di adesso, con la posta elettronica e l’aereo…, adesso c’è una distanza maggiore.

JEP: Sì, ma è esattamente per la ragione contraria. Perché oggi è tutto più a portata di mano. Quante volte vado io al Castello di Chapultepec o al Museo de Antropologia? Mai! Perché sono a pochi minuti da casa. Se invece di vivere qui venissi in Messico per un viaggio, adesso sarei lì. È ciò che accade con Internet.

 

La ricchezza dello spagnolo è una delle passioni di José Emilio Pacheco. Si possono trascorrere ore a parlare – divertendosi – dei diversi modi in cui nella nostra lingua si può nominare la stessa cosa. «Credo sia giusto rispettarli. Perché la gente di Santiago del Cile o Tegucigalpa deve parlare come me? Non c’è nessuna ragione. Il castigliano è della Castiglia, ma in Messico parliamo spagnolo perché è la summa di tutte le Spagne. Camilo José Cela e Francisco Umbral o Miguel Delibes scrivono in castigliano, ma io no, non posso scrivere in castigliano. Io scrivo in spagnolo».

OP: E si può tradurre dall’uno all’altro?

JEP: Certo, non dobbiamo essere troppo puristi in questo. Il traduttore deve tradurre per la sua comunità linguistica immediata. Basta guardare al teatro. Le opere di teatro si adattano persino ai regionalismi. Ci sono molte parole che si utilizzano a Città del Messico che non si dicono a Monterrey o a Mérida. E si devono adattare. Per esempio, cose elementari come la resbaladilla… Come si dice in Spagna?

OP: Tobogán (scivolo).

JEP: Be’, a León è il resbaladero. Quando ero bambino c’era un articolo del Reader’s Digest che si intitolava «L’inglese che non sai di sapere», per tutte le parole simili, i falsi amici o cognati… voglio scrivere un libro che si chiami Lo spagnolo che non sai di sapere…

E a questo proposito c’è un aneddoto che casca a pennello: «Vedrai. Borges venne in Messico nel 1973, non era mai venuto. Era molto antimessicano Borges, e gli diedero il Premio Alfonso Reyes. Torna a Buenos Aires, lo intervista La Nación e gli domanda come è andato il viaggio. Ah, meraviglioso, stupendo, mi hanno trattato bene… E cosa le è piaciuto? Tutto, le piramidi di Teotihuacán… Ma soprattutto, io pensavo ai miei 74 anni di parlare castigliano, e ho imparato un verbo messicano che mi affascina, e che adesso uso sempre, ovvero placticar. Allora la volta seguente che vidi Borges gli dissi: è inconcepibile, perché chissà cosa accadde nel mondo ispanico perché dal 1930 placticar è sparito ovunque tranne in Messico. E aggiunsi: placticar si trova in tutta la letteratura medioevale, in tutta la letteratura del Siglo de Oro, del secolo XVIII, del secolo XIX ed è nei suoi libri… E lui mi diceva, no, placticar è conversare. E io rispondevo no. In questo momento tu ed io stiamo placticando, se fossimo davanti alla televisione staremmo conversando. Placticar è una cosa privata. In Spagna è charlar. Ma per me, per il mio parlare di Città del Messico, charlar è la forma colta di placticar. O facendo un esempio con un’altra parola: a Guanajuato, aguardar è normale mentre la forma colta è esperar, per me no. Per me suona più strano dire estoy aguardando. Pensa, in uno stesso paese, non ti sembra meraviglioso?

OP: Io sono di Siviglia e lì si usa molto convidar invece di invitare, e nel resto di Spagna non tanto…

JEP: Ah, convidar è molto messicano. Ti posso convidar a un caffè… O, la prima volta che andai a Bogotà, mi dissero: non le va un tintico? E io risposi, no, non bevo prima di pranzo… E risulta che un tinto è un caffè… O ancora, qui provocar si è perso. Nella lingua della mia infanzia, provocar è aver voglia di vomitare. Che curioso tutto. Credi che l’andaluso sia l’origine della lingua parlata in America?

OP: Non posso arrivare a tanto, ma è vero che in Messico ci sono parole che si trovano in perfetto stato di salute, mentre in Spagna sono già morte e in Andalusia sono solamente moridonde…

JEP: Be’, a me alcuni inglesi hanno detto che hanno avuto la stessa impressione negli Stati Uniti. Per esempio, a te cosa ti viene più naturale, estrecho o angosto…?

José Emilio Pacheco, Sergio Pitol e Carlos Monsiváis

Sul tavolo c’è una foto che ha appena compiuto cinquant’anni. Ci sono, seduti a terra in una conversazione animata, José Emilio Pacheco, Sergio Pitol e Carlos Monsiváis. I tre scrittori, i tre messicani, i tre superstiti di un’epoca che sopravvive solo nella memoria. Dice José Emilio Pacheco: «Prima dell’insicurezza, questa città era molto gradevole. Per questo García Márquez venne a vivere qui, come tanta altra gente. Io conoscevo cineasti, pittori… Ora non conosco nemmeno gli scrittori. Allora si poteva vivere per strada. Io accompagnavo Monsiváis a casa sua e al ritorno lui accompagnava me».

C’è in La edad de las tinieblas una poesia in prosa, intitolata «A la extranjera» nella quale Pacheco piange il Messico scomparso:

«Le duole questa città che ha anche fatto sua e le dispiace vedere come l’abbiamo distrutta e continuiamo a devastare. Non capisco le sue ragioni per amare un luogo disperante e senza speranza. O forse esiste la speranza perché lei si trova qui ancora una volta e riempie di luce un’altra stagione oscura.

Nacqui in un luogo che si chiamava come questo e occupava il suo spazio. Ora sono straniero anche sul mio suolo natio, sono straniero in terra straniera. Oramai non conosco nessuno e non riconosco nulla. Lei, invece, non è straniera da nessuna parte. Lei è di tutte le parti come la musica.

Per favore non se ne vada. Non porti via, andandosene, un frammento di luce tra il deserto bruno e la barbarie che per bramosia e stupidità abbiamo generato».

Sono trascorse due ore. José Emilio Pacheco esce sulla porta di casa per salutare l’invitato. Alcune ragazze che passano sul marciapiede di fronte lo riconoscono e sorridono. A fine novembre, alla Fiera Internazionale del Libro di Guadalajara, mille giovani si riuniranno con Pacheco per celebrare il suo 70° anniversario. Perché la sua poesia «è di ogni paese come la musica». Perché in Messico, i poeti ancora si amano più dei calciatori. Perché qui «forse esiste la speranza».

 

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