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«Uno spazio di silenzio e concentrazione», conversazione con Anna Mioni

redazione Interviste, SUR, Traduzione

In merito al progetto sulle Giornate della Traduzione letteraria, pubblichiamo oggi un’intervista ad Anna Mioni, traduttrice di sessanta libri dall’inglese e dallo spagnolo (Douglas Coupland, Lester Bangs, Tom McCarthy, Sam Lipsyte, Nell Zink) che nel 2012 ha fondato l’agenzia letteraria AC² Literary Agency
Ringraziamo la traduttrice per averci concesso questa intervista e per aver condiviso la sua esperienza. Buona lettura.

Edizioni SUR: Spesso chi desidera avvicinarsi alla traduzione, oltre a una grande passione per la letteratura, ha studiato una o più lingue straniere. Conoscere una lingua a un livello avanzato non è però sinonimo di essere dei buoni traduttori. Da cosa dipende una buona resa del testo, oltre che da una conoscenza approfondita della propria lingua madre? Studio, letture o una dote innata?

Anna Mioni: Allo studio della lingua straniera affiancherei un bagaglio di letture notevole, sia nella lingua di partenza che in quella di arrivo, e l’amore per la lettura e la letteratura: altrimenti è difficile anche concentrarsi sul testo per le lunghe ore che ci richiede il nostro lavoro. E poi è indispensabile la pratica, o esercizio, o bottega, come vogliamo chiamarlo: il modo migliore per imparare a tradurre è prima guardare come lo fa una persona esperta, e poi cimentarsi in prima persona; se non si ha sottomano qualcuno che ci corregge, ci si può rileggere e correggere anche da soli, a distanza di tempo. Vi sorprenderete di quanti errori troverete appena vi sarete distanziati dal testo. Potenzialmente, ogni traduzione in più ci fa migliorare come traduttori.

Ultima ma non da meno, la dote innata è indispensabile. Ci sono persone del tutto sorde alle sfumature linguistiche; spesso sono anche quelle che faticano di più ad apprendere le lingue straniere, quindi di solito non sognano di fare i traduttori. Ma a volte capitano anche dei casi di scarsa autoconsapevolezza. Uno degli scopi dei corsi di traduzione è anche far capire a chi li frequenta se è in grado di fare il traduttore oppure no.

ES: Tradurre autori viventi vs tradurre classici. Quanto è importante il confronto con l’autore? Quando non è possibile contattarlo, come cambia l’approccio al testo?

AM: Il confronto con l’autore è salutare ma non deve essere eccessivo; io cerco di disturbare l’autore solo nei casi in cui ci sono troppi significati disponibili per una stessa espressione e il testo non mi suggerisce qual è l’accezione in cui intendeva usarli; o quando voglio avere la certezza assoluta che la mia intuizione è giusta e non fuorviante. A volte l’autore ha una sua idea precisa di quali sono i punti chiave da mantenere in una traduzione, ed è utile che li indichi; però, a meno che l’autore non conosca molto bene l’italiano, è difficile che sia in grado di intervenire anche nella resa complessiva. In questi casi cerco di discutere le mie scelte con l’autore spiegando bene quali implicazioni hanno nella nostra lingua.

Tradurre un classico, o un libro di un autore defunto, implica assumersi molte più responsabilità, e farlo senza rete e senza possibilità di porre rimedio a un eventuale fraintendimento. Forse, quindi, la traduzione che ne risulta è molto più «personale» di quella di un autore vivente. Io ho tradotto pochi autori defunti: la mia prima traduzione  (un libro minore di Edith Wharton), poi un libro a testa di Gerald Brenan, John O’Brien, Richard Seaver e l’opera omnia di Lester Bangs. Ma mi piacerebbe molto cimentarmi su qualche classico da riattualizzare; quindi, se qualche editor ci sta leggendo, si faccia vivo!

ES: Hai mai riletto la tua prima traduzione? Cosa si prova a rileggersi dopo tanti anni?

AM: La primissima no, ma proprio l’anno scorso mi è capitato di dover rivedere una delle mie prime traduzioni, La danese di David Ebershoff,  per una nuova edizione pubblicata da Giunti in occasione dell’uscita del film The Danish Girl. Ho fatto una revisione riga per riga sul pdf originale e confesso che mi aspettavo di trovare molti più errori e goffaggini. Se ne parlava proprio di recente con alcune colleghe e tutte osservavamo che nelle nostre prime traduzioni eravamo più libere, meno schiave dei «cliché da redazione» che si assorbono nel corso degli anni. Una cosa che salta subito all’occhio, invece, è quanto cambia la lingua italiana, anche solo a distanza di quindici anni.

ES: Quanto è o non è riconosciuto il mestiere del traduttore? In un mondo ideale, quale prassi dovrebbero adottare gli editori per tutelare e valorizzare la categoria?

AM: Ormai è risaputo che il mestiere del traduttore è poco riconosciuto, sia dal punto di vista sociale che economico. I lettori, tranne pochi illuminati (o amici e parenti di traduttori), ci ignorano felicemente, oppure si accorgono di noi solo quando c’è da criticare qualche scelta che a loro parere, pur non sapendo niente della materia, è infelice (ogni riferimento a polemiche degli ultimi mesi sui social network e su internet è puramente voluto). Gli accademici ci snobbano perché ci ritengono culturalmente inferiori, e i critici letterari spesso non leggono in originale e quindi non sono in grado di giudicare una traduzione, e infatti si limitano a qualche aggettivo standardizzato. Paradossalmente, se ci fosse una critica più seria delle traduzioni fatta da persone competenti, forse si riuscirebbe a dare maggior valore e risonanza alle traduzioni ben fatte.

In un mondo ideale, prima di tutto gli editori dovrebbero pagare meglio le traduzioni di qualità: è impensabile che all’apice della carriera, con tutto il bagaglio di esperienza e nozioni acquisito in decenni, si arrivi a guadagnare poco più di quando si è iniziato. Purtroppo non ci si rende conto che partire da una buona traduzione fa risparmiare tempo e denaro anche nel resto del processo editoriale.

Tutti i traduttori dovrebbero essere pagati con tariffe che permettano di vivere dignitosamente. Inoltre ci vorrebbe un maggior controllo di qualità sulle traduzioni e sulle revisioni. Ormai molta parte di quel processo si svolge all’esterno, e in alcuni casi la redazione non riesce più ad avere il controllo diretto della qualità effettiva del lavoro di un traduttore. È nell’interesse di tutti che il lavoro sia assegnato a chi è scrupoloso ed efficace, e l’unico modo perché questo accada è poter valutare come hanno lavorato i traduttori sulla traduzione che gli è stata assegnata.

Quindi, in tutti gli ambiti, mi sembra che educare i committenti e la stampa di settore a saper giudicare e valutare la qualità di una traduzione possa solo giovare alla situazione professionale dei traduttori.

ES: Se non facessi la traduttrice, cosa faresti?

AM: Oltre alla traduttrice faccio già l’agente letteraria e la docente di traduzione. Se non avessi questi altri lavori, forse farei la fotografa, la maestra di yoga, la massaggiatrice ayurvedica, la musicista rock, la DJ, la social media manager (che già faccio per la mia agenzia), o aprirei un locale/ristorante/sala da concerti. Insomma, ho molti piani B in serbo se la situazione dovesse peggiorare.

ES: Consigli per un aspirante traduttore (fare un altro mestiere non vale come risposta).

AM: Leggere molti libri di qualità in italiano e nelle lingue di partenza; non fermarsi agli studi universitari, ma frequentare le occasioni di formazione avanzata e permanente per i traduttori, e le pagine dedicate alla traduzione sul web e sui social network. Tutto questo serve anche a fare networking con i colleghi.

Conoscere il mondo editoriale e frequentare le fiere di settore: è inutile proporsi senza avere consapevolezza del proprio ambito lavorativo. Essere curiosi di tutto e ascoltare sempre quello che si ha intorno: un buon traduttore ha bisogno di un campionario permanente di gerghi e linguaggi settoriali. Esercitarsi a scrivere bene in italiano, su testi di ogni tipo. Allenarsi a giocare con le parole (enigmistica, umorismo, poesia, metrica, parodia… tutto fa brodo).

ES: Alla tua carriera di traduttrice, hai affiancato una nuova impresa: aprire un’agenzia letteraria. Come concili i due lavori? Riservi spazio alla traduzione ogni giorno o tendi a separare le due cose?

AM: Quando sto traducendo un libro, riservo spazio alla traduzione ogni giorno, ma cerco di separare molto bene i due lavori: la traduzione soffre molto di eventuali interruzioni, quindi creo uno spazio di silenzio e concentrazione per lavorare indisturbata.

Anna MioniAnna Mioni dal 1997 ha tradotto sessanta libri dall’inglese e dallo spagnolo (Douglas Coupland, Lester Bangs, Tom McCarthy, Sam Lipsyte, Nell Zink…). È tra i segnalati al Premio Monselice per la traduzione nel 2008 e 2009. Ha lavorato nelle redazioni di Aries (Franco Muzzio Editore, Arcana) e Alet Edizioni. Per tredici anni è stata bibliotecaria digitale. Insegna traduzione al Corso «Tradurre la Letteratura» della FUSP di Misano Adriatico (RN) e al Master di traduzione editoriale della SSLMIT di Vicenza e tiene seminari in aula e online sulla traduzione e l’editoria. Nel 2012 ha lanciato la sua agenzia letteraria internazionale, AC² Literary Agency

Credits foto: http://www.dustyeye.com/

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