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Non chiamatelo romanzo (esiste da anni)

Michael Deagler BIGSUR, Racconti, Scrittura

Prendendo spunto da The Pond, esordio della scrittrice inglese Claire-Louis Bennett, Michael Deagler riflette sul riconoscimento del genere del racconto che troppo spesso viene iscritto alla categoria romanzo nella speranza di incontrare un più ampio consenso da parte dei lettori.
Questo articolo è apparso originariamente su The Millions e viene qui riprodotto su gentile concessione dell’autore e della rivista.

di Michael Deagler
traduzione di Martina Ricciardi

L’anno scorso è uscita una bellissima raccolta di racconti di Claire-Louis Bennett intitolata Pond. Sono dei racconti correlati, perché quelli più lunghi, che costituiscono la maggior parte del libro, hanno lo stesso narratore: una donna inglese, di cui non sappiamo il nome, che si è trasferita in un cottage nell’ovest dell’Irlanda e che passa le sue giornate a esplorare i dintorni della sua umile casa, assorta nei pensieri. Questi racconti non sono costruiti in sequenza per creare una trama continua, ma presentano dei singoli frammenti della vita di questa donna, autoconclusivi e leggibili in qualsiasi ordine. Inoltre, all’interno dei racconti più lunghi si trovano dei brani che possono essere considerati delle «microstorie» o «flash-fiction» e che non hanno la stessa ambientazione e lo stesso narratore delle altre. Questi brevi brani sono collegati ai racconti più lunghi sul piano estetico – tutto il libro è scritto con lo stesso stile peculiare – ma allo stesso tempo hanno la loro indipendenza. Leggere Pond è un’esperienza insolita e illuminante, e quando sono arrivato all’ultima pagina ho pensato: «Caspita, che bella raccolta di racconti».

Sono rimasto sconcertato, dunque, quando ho scoperto che c’è un po’ di confusione sul genere di questo libro. Il titolo della recensione di Pond di Meghan O’Rourke per la New York Times Book Review dice: «Un romanzo d’esordio che percorre la vita solitaria di una donna». A quanto pare, quando O’Rourke parla del libro di Bennett ha come unico metro di riferimento i romanzi. Pond, scrive, le ricorda «i vecchi libri inglesi per bambini che leggevo da piccola» e «Wittgenstein’s Mistress, il romanzo d’avanguardia di David Markson». In un’altra recensione pubblicata sul Times, Dwight Garner riconosce che il libro di Bennett ha qualcosa in comune con le raccolte di racconti ma, allo stesso tempo, insiste sul fatto che sia un romanzo: «Pond è un piccolo romanzo diviso in capitoli di varia lunghezza che possono sembrare dei racconti. Non c’è una vera e propria trama in senso stretto». Be’, a me pare proprio che Garner stia descrivendo una raccolta di racconti.

Il fenomeno di confondere una raccolta di racconti con un romanzo è molto più comune di quanto si pensi, sia nelle recensioni sia durante le banali conversazioni. Molte persone usano il termine «romanzo» come sinonimo di «libro», così a volte capita di vedere che anche libri di non-fiction vengono considerati romanzi. (Non farò nomi, perché è piuttosto imbarazzante.) Più spesso la parola «romanzo» viene usata per identificare quelle raccolte in cui tutti i racconti sono strettamente collegati (e, di conseguenza, sono le preferite di chi organizza laboratori di scrittura creativa). Un esempio è Quanto pesano i fantasmi, di Tim O’Brien. Oppure Jesus’ Son, di Denis Johnson. Ma anche Gli emigrati, di W.G. Sebald. A essere sinceri, molto spesso questi libri non si identificano con la parola «racconti» scritta in copertina (come nel caso di Pond). Ma chiunque abbia una conoscenza minima dei generi letterari dovrebbe essere in grado di considerarli per quello che sono.

Il romanzo e la raccolta di racconti sono due generi molto diversi. Il primo è formato da un’unica lunga narrazione che non può essere spezzata, altrimenti perde tutta la sua funzionalità. A volte è suddiviso in capitoli, o in sezioni, che però non possono essere presi singolarmente (non tutti, per lo meno) come fossero dei piccoli brani a sé stanti. È la loro dipendenza reciproca a dare coerenza alla trama e al tema del libro. Una raccolta, invece, è formata da tante narrazioni separate che mantengono la loro coerenza anche se prese singolarmente. L’ordine di lettura non è importante per capire il loro significato, così come non cambierebbe niente se ne leggeste solo tre, a caso, senza guardare le altre. Nelle mani di un bravo scrittore, a volte capita che una raccolta di racconti sia più della semplice somma delle sue parti. Possono rappresentare dei piccoli spaccati di vita di una persona o di una comunità e ricordare, quindi, quel senso di immersione che si prova quando si legge un romanzo. Si chiamano «raccolte di racconti correlati» o «cicli di storie». Ma non sono romanzi, e non ci provano neanche a esserlo. (Il «romanzo fatto di racconti», come forse avrete capito, è una mera strategia di marketing.)

A volte il recensore di una raccolta di racconti correlati finge (in maniera incomprensibile) di non sapere se definirla una raccolta, un romanzo oppure una via di mezzo. (Ian Maleney, nella sua recensione di Pond per The Millions, sostiene che il libro «rimane in un affascinante limbo, quello tra la raccolta di racconti e il romanzo, senza mai sbilanciarsi verso l’uno o l’altro genere». L’importante è provarci, caro Maleney.) A volte a queste persone piace fingere che l’autore abbia inventato un terzo genere. Ma noi, cari lettori, non siamo mica degli sprovveduti. Lo sappiamo che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Come sottolinea James Nagel nel suo libro The Contemporary American Short-Story Cycle, questa tipologia narrativa risale almeno a un secolo fa. Opere come Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson, Canne di Jean Toomer e Nel nostro tempo di Ernest Hemingway hanno una tale coesione che, ai tempi della loro pubblicazione, i recensori continuavano a insistere che fossero ben più di semplici raccolte di racconti. (Nel nostro tempo, addirittura, alterna brevi racconti interstiziali a racconti più lunghi, proprio come Pond.) Scrive Nagel:

Il punto è che il ciclo di racconti è un genere ricco, le cui origini sono di gran lunga antecedenti a quelle del romanzo e le cui radici risalgono alle tradizioni narrative più antiche. Dal punto di vista storico, un «ciclo» è una raccolta di versi o di parti narrative incentrati su un evento o un personaggio principale. Pare che il termine fosse stato attribuito per la prima volta a una serie di poesie scritte da un gruppo di scrittori greci, i Poeti ciclici, e che completano i racconti di Omero sulla guerra di Troia. Nel secondo secolo a.C. lo scrittore greco Aristide scrisse una serie di racconti su Mileto, la sua città natale, e li riunì tutti in una raccolta intitolata Milesiaka. Anche molti altri autori classici componevano gruppi di storie correlate, basti pensare all’Odissea di Omero, alle Metamorfosi di Ovidio, a Le mille e una notte… Queste opere antiche chiarificarono due aspetti relativi al concetto di ciclo: primo, ogni unità costitutiva rappresenta un episodio narrativo indipendente; secondo, esiste un principio unificatore che fornisce la struttura, il movimento e lo sviluppo tematico all’intera opera.

Forse, visto che il lettore medio preferisce i romanzi e s’imbatte in pochissime (per non dire nessuna) raccolte di racconti, quando si trova davanti una raccolta di racconti correlati si blocca. Ma una raccolta di racconti correlati è pur sempre una raccolta, non un romanzo, così come un uomo molto alto è comunque un uomo, non un orco. Anche il premio letterario più prestigioso d’America, il Pulitzer, appoggia questa tesi. All’inizio si chiamava Premio Pulitzer per il romanzo, e per i primi trent’anni la situazione non cambiò; nel 1948, però, diventò Premio Pulitzer per la narrativa, così da poterlo assegnare all’autore esordiente James A. Michener per la sua raccolta di racconti intitolata Tales of the South Pacific [pubblicata in italiano da Rizzoli con il titolo Nostalgia del Pacifico, n.d.t.]. Questo libro è una raccolta di racconti correlati, ma se Michener non avesse messo in bella vista, nel titolo, la parola «tales» [racconti], la giuria del Pulitzer avrebbe potuto trovare un escamotage e fingere che fosse un romanzo. Da quel momento iniziarono ad assegnare il premio anche alle raccolte di racconti, ma finora è successo solo altre sei volte. (Ai fini del raffronto, bisogna considerare che dopo il 1948 ci sono stati sette anni in cui il premio non venne proprio assegnato.)

Vi sembrerà difensivo o pedante da parte mia continuare a insistere con queste classificazioni. Mi sembra quasi di sentirti, caro lettore: Perché è così importante? I libri sono libri. Nessuno dice che un genere sia meglio dell’altro. Se i due generi venissero considerati allo stesso modo, forse avreste ragione voi e il genere di un libro sarebbe così irrilevante che non ci sarebbe neanche bisogno di specificarlo. Ma, come sapete, la situazione è ben diversa. Al giorno d’oggi è più semplice pubblicare un romanzo che una raccolta di racconti, tanto che molti scrittori, quelli più pragmatici, hanno abbandonato questo genere. Scrittori di bellissimi racconti sono finiti a pubblicare romanzi mediocri, e per questo motivo la nostra letteratura si è impoverita. Quindi, in quei rari casi in cui una raccolta di racconti viene pubblicata (e recensita, e venduta, e letta da tante persone), negare che sia una raccolta – e chiamarla «romanzo», come se il mondo avesse bisogno dell’ennesimo romanzo – vuol dire strappare alla narrativa breve la sua tanto sudata vittoria.

Ed è ancora più atroce quando sono gli stessi editori a etichettare erroneamente le raccolte come romanzi. Stampare la parola «romanzo» sulla copertina di un libro mette i bastoni tra le ruote a chi, come me, non è d’accordo e vuole difendere la tesi per cui quel libro è un’altra cosa. Gli imperfezionisti, un bellissimo libro scritto da Tom Rachman nel 2010, è una raccolta di undici racconti indipendenti i cui protagonisti sono diversi impiegati di un giornale internazionale con sede a Roma. Alla Dial Press è bastato l’accenno di trama offerto dagli intermezzi narrativi che raccontano la storia del giornale (stessa caratteristica di Nel nostro tempo) per definirlo un «romanzo». Nel 2010 venne pubblicato anche Il tempo è un bastardo, di Jennifer Egan, che Knopf definì «romanzo» ma che a me piace definire «la più recente raccolta di racconti che ha vinto il Premio Pulitzer». I cambi di punti di vista, di stile, di tempi verbali e di piani temporali hanno fatto sì che i recensori, con stupore, lo considerassero un romanzo unico e insolito, noncuranti del fatto che questa è una caratteristica tipica delle raccolte di racconti. Sono quasi sicuro che aver etichettato il libro come romanzo abbia portato dei benefici a Egan, ma ora che le acque si sono calmate e che i soldi del premio sono stati spesi, forse sarebbe nel suo interesse assicurarsi che i posteri guardino il libro per quello che è veramente. Il tempo è un bastardo è un brutto romanzo ma è una fenomenale raccolta di racconti che incarna alla perfezione il concetto nageliano di «episodi narrativi indipendenti» collegati da «un principio unificatore». (E poi, considerarlo una raccolta di racconti è l’unico modo per far sembrare quelle settanta pagine di Power Point un divertente esperimento narrativo piuttosto che un contentino per la propria soddisfazione personale. Beccati questa, Egan!)

Sia Gli imperfezionisti sia Il tempo è un bastardo sono stati dei best-seller e io di certo non metto in discussione il successo di Rachman e di Egan. Ma la cosa che mi logora è che chi ha letto questi libri non si è reso conto che si stava appassionando a due raccolte di racconti. L’editoria non fa altro che dire agli autori di racconti che non c’è mercato per il loro lavoro, ma esempi come questi ci fanno capire che promuovere le raccolte di racconti tra i lettori non è lo scopo principale dell’editoria. Se ti è piaciuto Il tempo è un bastardo, vuol dire che ti piace la narrativa breve, ma magari non ne sei consapevole perché pensi di leggere un romanzo. E allora quando vieni a sapere che un autore non cede all’impulso di mettere al suo libro l’erronea etichetta di romanzo, come ha fatto Junot Díaz con È così che la perdi, tiri un sospiro di sollievo. In un’intervista con Gina Frangello per The Rumpus spiega:

C’è poco da fare: i racconti, come la poesia, non ottengono la considerazione che meritano all’interno della cultura – ma cosa ci possiamo fare? Canuto ci insegna che non si può combattere il mare, devi affidarti all’amore e sperare che le cose, prima o poi, cambino. Sì, sono sicuro che questo libro si sarebbe potuto chiamare «romanzo», senza problemi – questo status, di certo, è concesso a raccolte di racconti meno collegati tra loro.  Credo di aver evitato di chiamare questo libro «romanzo» o «raccolta di racconti» per lasciare ai lettori una porta aperta, perché potessero riconoscere e godersi una terza forma narrativa che sta tra il romanzo tradizionale e la classica antologia. Un genere che ci regala gli aspetti migliori del romanzo e, allo stesso tempo, del racconto. Il mio scopo era creare un libro che suscitasse nel lettore i piaceri dati dalla forma lunga del romanzo ma che avesse anche la capacità del racconto di fotografare l’aspetto più complesso del nostro essere umani: la brevità dei nostri istanti, la loro crudele irrevocabilità.

Non sono d’accordo con Díaz quando dice, nella premessa, che il libro rappresenta un terzo genere (È così che la perdi non è altro che una raccolta di racconti correlati e appartiene alla gloriosa tradizione che l’ha preceduta), ma avete già capito dove voglio arrivare. Una raccolta di racconti fa cose che un romanzo non fa, cose esemplari e importantissime, degne di avere un valore proprio. Una raccolta di racconti riproduce quel frammentario disordine caotico della vita quotidiana, cosa che un romanzo non potrà mai fare: la vita non segue una narrazione estesa, ma sembra piuttosto un agglomerato di tante altre narrazioni più piccole. Un giorno non è un capitolo. Un giorno è un racconto, con i suoi conflitti, i suoi argomenti, i suoi disegni e le sue epifanie.

Negli ultimi anni sono successe tante cose che ci rendono fiduciosi del fatto che la narrativa breve possa finalmente ottenere il pubblico che merita in quanto indispensabile forma d’arte americana. È così che la perdi è stato tra i best-seller del New York Times e, nel 2012, finalista al National Book Award. Nel 2013 Dieci dicembre di George Saunders ha replicato la doppietta. Nel 2014 il National Book Award è andato a Fine missione, una raccolta di racconti di Phil Klay. Nel 2015 è andato ad Adam Johnson e alla sua raccolta Fortune Smiles. Negli ultimi anni le raccolte di Nathan Englander e Kelly Link sono state finaliste al Pulitzer (nessuna delle due, però, è riuscita a raggiungere l’apice del successo come quelle di Michener e di Egan). Per molti scrittori di narrativa breve il Premio Nobel ad Alice Munro nel 2013 ha rappresentato il tanto atteso riconoscimento di un genere narrativo esemplare e dei suoi incorreggibili artigiani.

Eppure le raccolte di racconti continuano a essere molto difficili da vendere. Non vengono pubblicate, recensite e lette abbastanza. Gli aspiranti autori sono spronati a mettere da parte i loro racconti e a lavorare su qualcosa di più lungo, a meno che non vogliano finire ai margini dell’editoria, tra i rovi di spine, insieme ai poeti e ai loro libretti. Anche George Saunders, lo scrittore famoso per non scrivere romanzi, adesso ha iniziato a scriverli. Magari Claire-Louise Bennett è felice che Pond sia definito un romanzo, e io dovrei smetterla di creare problemi dove non ci sono. Ma se la più grande speranza di uno scrittore di racconti è che i recensori e i lettori scambino la sua opera per un romanzo, allora la narrativa ha raggiunto uno stadio molto scoraggiante. Forse, ben presto, i romanzieri si auspicheranno che i loro libri vengano scambiati per memoir, e il concetto di narrativa scomparirà per sempre.

Vedremo. Nel frattempo, caro lettore, ti invito ad andare nella tua libreria di fiducia, a prendere in mano una copia di Pond o di qualsiasi altra raccolta di racconti e a liberarti dalla tirannia della narrativa «lunga». Sarà un’esperienza bellissima. Credimi.

E magari, già che ci sei, potresti nascondere un paio di romanzi dietro ai libri di cucina.

© Michael Deagler, 2016. Tutti i diritti riservati.

Michael Deagler è autore di racconti pubblicati su Glimmer Train, New England Revue, Electric Literature e altre riviste. È beneficiario di una fellowship per la scrittura al Fine Arts Work Center di Provincetown, Massachusetts. Il suo sito internet è www.michaeldeagler.com.

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