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L’ascesa del binge-reading in letteratura

Michael Bourne BIGSUR, Editoria, Scrittura Lascia un commento

Pubblichiamo una riflessione di Michael Bourne su come le nuove tecnologie e i nuovi consumi culturali stanno trasformando la letteratura. L’articolo è apparso su Literary Hub, che ringraziamo. L’illustrazione è di Pat Kinsella.

di Michael Bourne
traduzione di Chiara Baffa

Negli anni Novanta, agli albori dell’era digitale, quando molti scrittori temevano che il libro stampato rischiasse di fare la fine delle carrozze a cavalli, il mondo letterario ebbe una breve infatuazione per un nuovo modo di raccontare: il romanzo ipertestuale. La narrativa era morta, ci dissero, e in futuro le idee non sarebbero penetrate nella cultura collettiva grazie a storie orchestrate da un solo autore, ma attraverso dei link che i lettori avrebbero aperto online. I primi esempi di iperromanzi come Sunshine 69 di Bobby Rabyd – in cui i lettori cliccano su una serie di snodi interconnessi che permettono di creare una storia personalizzata – sembravano perfetti per questo nuovo, magnifico futuro non lineare.

Vent’anni più tardi viviamo tutti nel nostro iperromanzo personale, mentre incollati ai telefoni rimbalziamo dai litigi su Twitter agli abbordaggi su Tinder, fermandoci solo per cliccare sull’ultimo video di gattini postato su Facebook da un nostro amico. Ma, stranamente, quando si tratta di scegliere come svagarsi offline non siamo attirati da libri e serie tv che rispecchiano le nostre vite disseminate di link. Al contrario, nell’epoca della distrazione digitale, desideriamo la narrazione, meglio se corposa, potente e totalizzante.

Forse la manifestazione più evidente di questa tendenza è il modo in cui guardiamo la tv. Fino a poco tempo fa, in televisione passavano telefilm da episodi di mezz’ora o un’ora in cui ogni settimana la trama ripartiva da zero. Questi programmi esistono ancora, ma l’interesse del mondo culturale si è tutto spostato sulle lunghe serie tv dei canali via cavo, come Game of Thrones e Homeland, che fagocitano lo spettatore e sviluppano la storia nel corso di diverse stagioni, i cui episodi vengono consumati uno dopo l’altro in ossessive maratone notturne: il cosiddetto binge-watching [da binge, «scorpacciata», n.d.t.]. Queste serie sono costruite per incollarsi al cervello e generare una dipendenza tale che gli spettatori non cedano alla tentazione di controllare il telefono finché non sono arrivati alla fine.

Ma la nostra fame di storie avvincenti ridefinisce anche il modo in cui leggiamo e scriviamo letteratura. Ci sono autori che continuano a produrre sobri romanzi intimisti, ma sempre più spesso queste opere trovano spazio presso i piccoli editori di qualità come Graywolf e Tin House. Nelle grandi case editrici di New York l’eccitazione e gli anticipi più cospicui sono riservati alle grandi storie epiche già pronte per la HBO, come Il figlio di Philipp Meyer o Città in fiamme di Garth Hallberg, e su romanzi tutti basati sulla costruzione della trama che prendono in prestito qualcosina, e spesso anche di più, dal regno della narrativa di genere, fecondo d’intrecci.

Prendete per esempio la sfilza di romanzi letterari che, a partire da La strada di Cormac McCarthy, premio Pulitzer 2006, sono stati ambientati in mondi distopici e postapocalittici. Nel 2010 Justin Cronin, già autore di due romanzi letterari, ha pubblicato Il passaggio, primo volume di una trilogia ambientata in un mondo postapocalittico infestato dai vampiri. L’anno successivo Colson Whitehead, vincitore del genius grant della MacArthur Foundation, ha dato alle stampe un thriller postapocalittico sugli zombie, Zona uno. Più recentemente, Emily St. John Mandel ha suscitato grande entusiasmo con Stazione undici, incentrato su una troupe teatrale che attraversa un Nord America decimato da una pandemia, e lo scorso autunno Claire Vaye Watkins ha fatto seguire alla raccolta di racconti Battleborn, con cui aveva esordito vincendo diversi premi, Deserto americano, romanzo ambientato in una West Coast colpita da una catastrofica siccità.

Pandemia. Vampiri. Apocalisse zombie. Come mai tanti autori letterari stanno prendendo in prestito espedienti narrativi dalla fantascienza spicciola e dai film horror? Sicuramente questi romanzi attestano una sincera apprensione per il futuro del pianeta, ma sono anche parte di un diffuso sgretolamento dei confini, un tempo definiti, tra narrativa «letteraria» e narrativa «di genere». Da una parte, alcuni cambiamenti strutturali nell’editoria hanno spazzato via molti dei vecchi muri che separavano la cosiddetta literary fiction da altri generi più popolari ma meno prestigiosi. Allo stesso tempo, grazie alla tecnologia e in particolare alla diffusione di dispositivi digitali piccoli e maneggevoli, un romanzo adesso si contende l’attenzione del lettore non solo con gli altri romanzi, ma anche con la tv via cavo, con Netflix, con i social network e con le tentazioni del web.

Se ogni lettore è sempre a un passo dall’abbandonare il libro in favore dello schermo del suo smartphone, una prosa raffinata e la lucida osservazione di qualche epifania emotiva possono non bastare. Gli autori di oggi, ormai liberi dalle nozioni convenzionali su cosa dev’essere un romanzo letterario e impegnati in una battaglia senza fine per l’attenzione del lettore, si sentono sempre più spinti ad alzare la posta in gioco a livello narrativo – e un ottimo modo per farlo è scrivere un libro sulla fine del mondo che conosciamo.

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Nel 2016, in un momento storico in cui i libri si trovano sempre e ovunque e spesso con sconti esorbitanti, i lettori potrebbero avere qualche difficoltà a immaginare quanto fosse complicato per molti americani, un tempo, comprare un libro. Prima della seconda guerra mondiale, esistevano quasi solo edizioni rilegate che venivano vendute in piccole librerie o per corrispondenza, con i club del libro. Secondo Two-Bit Culture: The Paperbacking of America di Kenneth C. Davis, negli anni Trenta gli Stati Uniti contavano appena 500 librerie. «Di queste cinquecento, la maggior parte erano antiche e raffinate botteghe con una clientela d’élite, e si trovavano nelle dodici principali città del paese», scrive Davis. «Due terzi delle contee americane non avevano nemmeno una libreria».

Servizi di abbonamento come il Book of the Month Club [pressoché equivalente, in Italia, al Club degli Editori, n.d.t.] ampliarono in una certa misura il raggio d’azione permettendo ai lettori che non vivevano nelle grandi città di comprare libri, ma questi club oltre ai prodotti editoriali vendevano anche uno status, e non potevano mettersi a commerciare in libri-spazzatura. Se si aggiunge che ai tempi gli americani erano molto meno istruiti – nel 1930 meno di un terzo degli studenti portava a termine le superiori – si capisce bene perché il libro fosse un articolo di lusso, promosso come tale.

Tutto ciò creava una naturale segmentazione del mercato, nella quale la narrativa «letteraria» veniva pubblicata da una cricca di piccoli editori indipendenti, mentre la narrativa «di genere» come i romanzi rosa o la fantascienza era quasi sempre relegata alle riviste. Tutto questo cambiò, e molto velocemente, a partire dal 1939, con l’avvento delle edizioni economiche. Nel dopoguerra chi pubblicava tascabili cominciò a stampare centinaia di migliaia di libri, il cui prezzo al pubblico era solitamente un quarto di dollaro, destinati a una generazione postbellica molto più istruita e con molto più tempo libero rispetto ai genitori.

Ma, se da una parte questi editori di economica saturarono il mercato con volumi di ogni tipo, dall’altra non riuscirono a sfondare la barriera che divideva la narrativa letteraria da quella di genere. Gli editori di tascabili solitamente vendevano i loro libri seguendo gli itinerari distributivi delle riviste, che si concentravano sulle stazioni e sugli empori, tutti luoghi in cui si aggregavano i lettori della classe proletaria. Per la prima ventina d’anni dell’era dei tascabili le librerie si rifiutarono di vendere le opere inedite che uscivano in edizione economica, per cui romanzi di genere come i gialli del detective Mike Hammer di Mickey Spillane venivano venduti in posti diversi e a lettori molto diversi rispetto a titoli letterari come, per esempio, quelli di Saul Bellow o John Cheever.

Con le grandi fusioni degli anni Settanta e Ottanta, che hanno riunito le vecchie case editrici di rilegati e gli editori di tascabili in enormi conglomerati editoriali, i confini tradizionali tra letteratura alta e bassa hanno cominciato a dissolversi. Nel frattempo, mentre gli americani diventavano più istruiti, le librerie aumentavano in numero e dimensioni, e a partire dagli anni Ottanta si sono raggruppate in catene su scala nazionale, dove i titoli letterari in edizione rilegata, i tascabili per il lettore d’istruzione media e la narrativa di genere di largo consumo venivano venduti tutti sotto lo stesso tetto.

Oggi, con un buon 40% del mercato editoriale sotto il controllo di Amazon e gran parte del resto in mano alle catene, la distinzione tra romanzi di genere e romanzi letterari sembra ormai sempre più insensata. Questo cambiamento è stato favorito dal declino delle recensioni su carta, che consolidavano la distinzione tra romanzi letterari e titoli di genere riservando a questi ultimi dei miseri riassuntini nelle ultime pagine. Con la lenta agonia dei quotidiani cartacei, quelli che un tempo erano potenti generatori di rispettabilità letteraria, culturalmente conservatori, stanno lasciando il passo a una rete di blog letterari di ogni tipo, ai social media e alle classifiche online, tutte incentrate, più che sul pedigree letterario, sulla soddisfazione del lettore.

In un momento in cui l’establishment letterario che un tempo vegliava sui confini fra i generi è sommerso da migliaia di lettori che comunicano direttamente su Goodreads, e tutti i libri vengono venduti nelle stesse sedi allo stesso pubblico di massa, la qualità vincente è la leggibilità, non il prestigio. Se si aggiungono i vari tipi di intrattenimento di cui possiamo fruire semplicemente strisciando il dito su uno schermo, non sorprende che gli autori letterari si siano messi ad attingere a qualsiasi genere possa aiutarli a creare quella sorta di dipendenza che catturerà i lettori e li terrà incollati alla pagina.

Sebbene per le opere letterarie più sobrie, con meno trama, sembri più difficile riuscire a raggiungere un pubblico ampio, la situazione attuale non è necessariamente una minaccia per una narrativa intelligente e psicologicamente acuta. Il mondo ipertestuale che gli esperti di tecnologia avevano previsto vent’anni fa è arrivato, e per gli scrittori di oggi è cruciale, se vogliono farsi sentire in mezzo al frastuono digitale, affidarsi a trame serrate per catturare la nostra attenzione. Il tempo e l’incessante progresso tecnologico probabilmente non faranno altro che intensificare questo fenomeno. Ma se il contesto in cui leggiamo e scriviamo romanzi letterari sta cambiando non vuol dire che gli scrittori debbano tutt’a un tratto diventare degli idioti psicologicamente ottusi.

Esattamente come certi innovatori della tv via cavo come David Simon di The Wire e David Chase dei Soprano hanno fatto rinascere la televisione come veicolo per raccontare storie incentrate sui personaggi, innovatori letterari come Emily Mandel e Jonathan Lethem, che nei suoi libri ha attinto liberamente dal giallo e dalle saghe di supereroi, stanno facendo rinascere il romanzo letterario come veicolo per trasmettere idee attraverso la ricchezza della trama. La fascinazione del momento per il postapocalittico di sicuro passerà, ma mentre una nuova generazione di scrittori perfeziona l’arte di amalgamare elementi di altri generi nelle proprie opere, il romanzo letterario, dato per morto così tante volte, è pronto a rinnovarsi ancora per un’altra epoca.

© Michael Bourne, 2016. Tutti i diritti riservati.

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