Als Diaz

La scrittura è un atto di sfida.
Conversazione fra Hilton Als e Junot Díaz

Hilton Als e Junot Díaz BIGSUR, Scrittura

Junot Díaz, nato nella Repubblica Dominicana e ora cittadino statunitense, è autore del romanzo La breve favolosa vita di Oscar Wao (premio Pulitzer 2008 per la narrativa) e delle raccolte di racconti Drown ed È così che la perdi (finalista al National Book Award nel 2012); tutte le sue opere sono pubblicate in Italia da Mondadori. Hilton Als, saggista e critico afroamericano con origini nelle Barbados, scrive per il New Yorker. In questa conversazione, la trascrizione di un incontro avvenuto presso la libreria Strand di New York, i due affrontano i temi della mascolinità e della razza, del realismo letterario, della scrittura come sfida allo status quo.

La conversazione è contenuta nell’antologia Upstairs at the Strand. Writers in Conversation at the Legendary Bookstore, a cura di Jessica Strand e Andrea Aguilar (W.W. Norton, 2016), ed è apparsa per la prima volta online su Lithub.com. Viene qui parzialmente riprodotta per gentile concessione dei due autori e delle curatrici del libro.

di Hilton Als e Junot Díaz
traduzione di Chiara Baffa

Hilton Als: Junot: i recensori, di solito vincolati dal politicamente corretto, tendono a evitare di parlare del pato [in spagnolo: «gay»]. Io sono un pato e non mi sento sminuito o messo sotto accusa da questo epiteto presente nelle tue opere, visto che provengo dallo stesso mondo. Puoi parlarci un po’ del machismo?

Junot Díaz: Questa è una domanda fondamentale, davvero interessante. Se penso all’inconsapevolezza politica della virilità, penso a com’è trattata l’omosessualità. Il primo libro che ho scritto in vita mia era una sorta di saggio, un primo approccio a un certo tipo di mascolinità, e ho pensato di mettergli lo stesso titolo del racconto più queer della raccolta. Ma da quello che ho letto, mi pare che nessun critico vi abbia mai fatto cenno. È strano, mi sembra una lacuna così evidente.

Comunque è una tematica che mi interessa profondamente, e il progetto è andato avanti con Oscar Wao. Non c’è bisogno di essere un accademico per capire che quel personaggio è un soggetto decisamente gay. Ma non riesco a immaginare la mascolinità senza quella specie di strato protettivo che previene qualsiasi pensiero sulla sua componente omosessuale. La mascolinità nasce con la barba incorporata, così può far finta che tutto sia tanto, tanto etero. Come artista mi interessava molto questo fenomeno, e come si manifesta nel tipo di cultura in cui sono cresciuto. Il mio background di dominicano è profondamente personale, non assomiglia a quello di nessun altro. Sono cresciuto in un luogo e in un tempo molto particolari, infinitesimamente specifici, con un assortimento di persone altrettanto specifico. Non c’è una pretesa di universalità, spero si capisca. Per tutta la mia giovinezza questo dibattito è stato così attuale che in seguito ho dovuto buttarmici anch’io.

Hilton Als: Durante le feste natalizie, mentre mangiavamo cinese, mi hai fatto vedere le foto di un tuo viaggio nella Repubblica Dominicana. C’era una tavolata di drag queen, io ho detto che mi sembravano carine e ti ho chiesto se erano tue amiche. Mi hai detto che erano praticamente gli unici amici che avevi laggiù perché riuscivano a essere sensibili, ma allo stesso tempo a inserirsi nella cultura del luogo. È stata fantastica quella conversazione su come la mascolinità sia un tipo di travestimento.

Junot Díaz: Senza dubbio. A Santo Domingo esistono contesti quasi performativi, iper-mascolini, in cui non si può avere un amico apertamente gay. È la regola. Ovviamente il punto è che bisognerebbe farla finita con questa stronzata. Se la gente ti vede in giro con una drag queen, comincia a dire che sei gay. È una sorta di strategia di controllo. In New Jersey, dove sono cresciuto, una certa forma di socialità omosessuale era accettata purché venisse definita etero. Andava bene che facessi la lotta completamente nudo con i tuoi amici, ma quella cosa veniva chiamata sport.

Viceversa, nella mia vita a Santo Domingo si affronta la questione in modo decisamente esplicito. Gli amici che ho laggiù, che si sono sobbarcati l’aperta ostilità di un intero universo culturale, tendono a essere più interessati a discutere le cose in maniera esplicita. E se sei un artista, gli amici meno utili sono proprio quelli che dicono cose tipo: «Non credo che ci sia del razzismo». Va bene se si tratta di familiari, perché non puoi mai davvero disconoscere la tua famiglia. Tutti i miei parenti dicono cose tipo: «Razzismo? Non mi piacciono i negri, tutto qui».

Hilton Als: Mio fratello ha la pelle molto chiara, e una delle mie nonne, che veniva dai Caraibi, mi diceva sempre di non stare al sole perché ne avevo già preso abbastanza. La cultura haitiana e quella dominicana, nelle questioni di colore, possono essere profondamente traumatiche. A me ci sono voluti molti anni, man mano che crescevo mi rendevo conto che questa faccenda è una specie di follia interiorizzata. Nei tuoi libri si parla continuamente di gradazioni di colore. Una cosa che trovo molto coraggiosa è che tu lo dica e poi lasci che siano i personaggi a rappresentarlo.

Junot Díaz: Non sto saltando a conclusioni su un’idea astratta di chissà quale cultura. Io e te siamo cresciuti in ambienti in cui le persone erano camere di risonanza per molti di quelli che sono i pensieri dominanti, culturali e razziali. La gente diceva cose forti, esplicite, e io ho pensato che sarei stato un po’ uno sfigato se ai miei personaggi non avessi dato almeno la metà della schiettezza dei miei zii.

Hilton Als: Come una delle tías [in spagnolo, «zie»] che quando incontra uno dei personaggi per prima cosa gli stringe le palle.

Junot Díaz: Mi sono arrivate email di tizi che conosco che dicevano: «Cazzo, anche le mie zie mi strizzano le palle».

Hilton Als: La famiglia allargata.

Junot Díaz: Allargatissima: bisogna mettere in campo tutti e cinque i generi per creare la forma di virilità particolarmente malevola che tendiamo a produrre con tanta efficienza. Se prendi due persone che sembrano identiche come colore della pelle, mia mamma riesce a distinguerle a livello molecolare e dire: «Quel tizio là è più chiaro». Tutto il vocabolario per parlare di razza, che in America abbiamo cancellato, ai Caraibi è onnipresente. Abbiamo perso così tanti termini per parlarne che non riusciamo nemmeno a intavolare una conversazione sull’argomento, li abbiamo eliminati tutti. Invece mi vengono in mente più di dodici parole per descrivere il colore della pelle ai Caraibi, o almeno nell’area in cui sono cresciuto. In un certo senso credo sia utile, perché ti aiuta quando arriva il momento di confrontarsi con la questione del privilegio. La gente lì non fa finta di aver perso la memoria. Uno potrebbe pensare che i miei zii siano super arretrati perché non hanno studiato in un’università della Ivy League, ma almeno non sono imbevuti della ridicola amnesia dei progressisti. Una cosa che si traduce in dichiarazioni del tipo: «No, non si tratta di razza, ma di classe». Io credo che non ci sia classe senza razza. Si chiama colonialismo. Certa gente ti dice subito che una persona è ignorante. I miei zii non farebbero mai un’affermazione del genere, semmai direbbero che è una questione di colore. Ma trovo che quel livello di schiettezza, anche se è considerato retrogrado e problematico, sia un punto di partenza migliore rispetto alla perenne illusione in cui vive il movimento progressista che abbiamo oggi.

Hilton Als: È per questo che il discorso critico sulle tue opere non è stato significativo come le opere stesse?

Junot Díaz: Hilton, è sempre strano rispondere a queste domande. È come parlare di…

Hilton Als: Parenti che non hai ancora conosciuto.

Junot Díaz: È strano, tutto qui. Ho dei cugini fantastici secondo i quali dovrei avere ragazze più belle di quelle che ho. In questo caso è più o meno lo stesso, è una cosa strana da dire. Tipo: «Dovrei avere critici più bravi di quelli che ho».

Hilton Als: Puoi avere ragazze più belle e anche critici più bravi.

Junot Díaz: Secondo me per la maggior parte di noi etero il problema non è che non abbiamo donne alla nostra altezza, ma che abbiamo donne che valgono dieci volte più di noi. Comunque, tornando alla tua domanda, quando leggo di artisti di colore penso sempre che sia una semplificazione eccessiva. Tendiamo a essere ridotti al nostro elemento culturale. Come quando per parlare delle nostre cose qualcuno tira fuori una parola in spagnolo… Quante recensioni ho letto in cui una persona usa una parola spagnola, pur non conoscendo la lingua, per cercare di descrivere quello che faccio? È come guardare uno che prova a ballare la salsa non conoscendo i passi. In alternativa, veniamo ridotti a visioni semplicistiche per le quali analizzando un’opera d’arte si parla solo di un certo passaggio cruciale, oppure del problema razziale. Usano questi termini che non significano niente perché non vogliono affrontare il vero significato dell’opera. Se si discutesse in termini razziali degli artisti bianchi con la stessa frequenza di quelli di colore, saremmo un paese migliore. Non mi capita mai di sentire un ballerino bianco che parla di come il colore della sua pelle abbia influenzato il suo modo di ballare. La prima domanda che viene in mente a un giornalista che intervista un artista bianco non è mai se nella sua vita sia stato vittima di razzismo. Ma come artista devo dire che è incredibile quanto spesso mi vengano poste domande del genere, e quando le fanno a me io sono sempre pronto a ribattere: «Hai fatto il razzista ultimamente?» È che il bello dell’arte, come sa chiunque abbia mai studiato un testo vittoriano, è anche che il futuro arriva più velocemente di quanto immaginiamo, e ce n’è uno dietro l’angolo, fatto di giovani artisti e di giovani critici e di giovani accademici che col loro modo di ragionare fanno sembrare l’attuale discussione sulla nostra arte incredibilmente riduttiva.

Hilton Als: A proposito di quest’idea di prossimo futuro, ricordo che in passato abbiamo avuto diverse conversazioni sul viaggiare nel tempo. Hai detto che uno dei motivi per cui hai amato la fantascienza di Octavia Butler o Samuel Delany è che parlava di viaggi nel tempo, e che sei letteralmente passato da una cultura schiavizzata a una platea di centinaia di persone che vengono ad ascoltarti da Strand Bookstore. Come succede una cosa del genere? Come ti influenza in quanto persona il fatto di trovarti a un paio di generazioni di distanza dai personaggi dei tuoi libri, che vivono sotto la soglia della sussistenza?

Junot Díaz: E come faccio a raccontarlo? È una domanda a cui penso sempre. A Natale mi siedo a tavola accanto a mia nonna, che sostanzialmente è cresciuta in un proto-medioevo – è vissuta nel contesto quasi schiavista della Repubblica Dominicana, dove lavorava come mezzadra raggiungendo miseri livelli di sostentamento. Con un occhio guardo lei e con l’altro guardo mio fratello minore, nato negli Stati Uniti, veterano dei Marines, che parla come se qualcuno avesse acceso la tv su Fox Channel e poi gli si fosse rotto il telecomando. Allora penso: come facciamo a creare un’identità che includa entrambe queste persone?

Hilton Als: Grazie alla tua arte ti sei ritrovato catapultato in un altro mondo: come affronti questa cosa, sia fisicamente che emotivamente?

Junot Díaz: Trovo molto utile riuscire a comporre le identità dei propri personaggi senza utilizzare sempre lo strumento del realismo. Il realismo non può spiegare mio fratello e mia nonna, ma la fantascienza di Octavia Butler ci riesce. Gli esperimenti di Samuel Delany ci riescono. Ho letto il suo libro e ci ho trovato quella dimensione, anzi, risulta proprio insopportabile l’idea di tentare di farli esistere entrambi in uno stesso posto. Quindi diciamo che non usare il realismo come unico paradigma per comprendere davvero sé stessi può aiutare.

[…]

Hilton Als: Quando hai iniziato a scrivere fiction, sapevi che ti saresti concentrato in particolare sul tuo mondo? È stato un processo o una scoperta? E visto che hai accennato alla questione del sangue misto, mi chiedo perché gli autori di colore contemporanei, nonché Philip Roth, ne siano particolarmente attirati.

Junot Díaz: All’università mi sono distinto come giovane attivista. Quanti latinoamericani ci sono negli Stati Uniti? Non so se facevi parte di organizzazioni di latinos, tipo LALSA, LUCHA, LAL o LAO o altre ancora. Io ero iscritto a tutte. Ed ero un giovane attivista. Praticamente per tutto il periodo universitario non sono stato altro. Era la mia identità, e in molti sensi continua a essere quella principale. Hai presente quando ti svegli e non sai in che stanza o in che paese ti trovi? L’unica cosa che io so in qualsiasi momento è che sono un tipo da: «Combattiamo! Facciamogliela vedere!» In questo periodo stanno cercando di abolire tutti i corsi di studio in etnologia perché non vogliono produrre studenti che iniziano ogni conversazione dicendo: «Cazzo, il fatto che non si parli mai di noi è una vergogna». E io sono un prodotto di questi corsi di studio, che quando volevo scrivere mi hanno indirizzato su questa piccola comunità che nessuno conosceva e a cui nessuno pensava. È un meccanismo vecchio, ma molto attendibile. Siamo così invisibili. Se sei un individuo di colore, se sei una donna, se vieni da un contesto povero, se appartieni a una famiglia di persone che hanno sgobbato come muli e non hanno mai conquistato nessun rispetto o goduto dei profitti del loro lavoro, sai che il novanta per cento delle tue storie non viene raccontato. E nonostante questo dobbiamo ancora imparare come si osservano e si raccontano queste storie. Molti di noi si muovono ancora a tentoni. Malgrado la nostra totale assenza dalla scena, è ancora un momento di rivoluzione interiore quello in cui diciamo: «Un attimo, allora non solo siamo degni di grande arte, ma possiamo anche esserne l’origine». E per arrivare a quel momento bisogna lavorare tanto.

[…]

Hilton Als: Una delle cose che si sente magnificamente in Drown e in tutti i tuoi libri è il rimando all’idea che se sei un artista, la cosa più difficile è sopravvivere alle persone da cui sei nato. E le persone da cui sei nato sono le storie che racconti. Spesso. Puoi dirci qualcosa di come ha reagito la tua famiglia?

Junot Díaz: Domanda e considerazione molto vere. Quasi tutti i miei amici hanno dovuto proteggere i loro genitori e il resto della comunità dalle loro ambizioni. Un’infanzia come la mia ha significato non poter esprimere apertamente le mie ambizioni a nessuno, perché sarebbe stato percepito come una terribile minaccia. A pensarci bene, forse la situazione con la mia famiglia è sempre stata sconfortante, indipendentemente dalla mia carriera di scrittore. Nella dinamica familiare si rifletteva tutto lo squilibrio di un’infanzia da immigrato. L’immigrazione è già difficile di per sé, ma mettersi l’uno contro l’altro è la garanzia che si trasformi in un vero disastro.

Hilton Als: È vero.

Junot Díaz: È strano, i miei parenti stretti non si riuniscono quasi mai, e quando ci riuniamo è sempre deprimente. C’è tutta una serie di cose orribili: tizio che non  parla con caio, e il fatto che alcuni fratelli vivano in California, il più lontano possibile dalla famiglia. Sarò sincero, credo che la mia famiglia mi sopporti a malapena, e parte di questo fastidio è che non dovrei mai parlare della scrittura, è una specie di biglietto d’ingresso. Se voglio tornare a casa e sopravvivere all’intero pranzo di Natale senza avere una crisi isterica, non devo mai e poi mai accennare all’argomento. Quindi mento. Sono un gran codardo, anche se non fino in fondo. Perché, chiunque tu sia, puoi riuscire a farti valere in tutta una serie di situazioni, ma a volte è davvero dura. È come se stessi ancora facendo le audizioni per guadagnarmi la parte del figlio amato. Continuo ad aggrapparmi alla convinzione che saranno più affettuosi se sto al gioco. Combatti con la tua famiglia per tutta la vita. Beate le persone che non devono farlo, hanno a disposizione una risorsa preziosissima, visto che noialtri siamo ancora invischiati in una dinamica che spesso non lascia molto spazio all’indulgenza verso sé stessi.

[…]

Hilton Als: Credi che parte dello sforzo, che nel caso di Oscar Wao ha dato ottimi risultati, sia stato imparare a diventare un personaggio pubblico mentre eri impegnato in un’attività privata come la scrittura?

Junot Díaz: Oh, no. Avevo scritto il mio primo libro, i cui dati di vendita avrebbero dissuaso chiunque dal continuare a fare lo scrittore, ma che mi aveva fatto guadagnare una certa notorietà tra gli appassionati di letteratura, gli insegnanti della scuola pubblica, i dominicani e i loro associati, tipo portoricani, cubani, gente della comunità chicana, e pochi altri. Era il 1996, dopodiché per undici anni la mia carriera si è arrestata. Ho passato sei anni senza pubblicare nulla, nemmeno un articoletto. È stato fantastico. Ho avuto un breve picco di attenzione e in seguito ho perso… Quando sento parlare i miei studenti, noto che hanno tutti un linguaggio molto professionale. Sono pronti per essere famosi; usano espressioni tipo: «essere lanciato». In pratica, parte della mia esperienza con Oscar Wao è stata una gara di resistenza contro il mio desiderio di parlare come i miei studenti. Non volevo che mi uscissero dalla bocca frasi del tipo: «Devi pubblicarlo velocemente, ora che sei lanciato. Metti a segno il colpo adesso che la gente sa chi sei». Mi ricordo di aver passato almeno cinque anni ad aspettare che quella voce si estinguesse completamente. Non ho scritto niente di utile finché non è morta, finché non aveva più controllo su niente. Quando finalmente le ho sentito dire: «Be’, forse dovresti solo scrivere quel brutto libro che sapevi che un giorno avresti scritto, tanto fai schifo», sono riuscito a prendere il via. Ci ho messo sedici anni a finire È così che la perdi. Ho dovuto combattere costantemente con quella voce. Ho dovuto aspettare i momenti in cui spariva per scrivere il capitolo successivo. Se riprendeva vigore, non riuscivo a lavorare al libro.

Hilton Als: Esistono altre voci che si intromettono nella tua vita in modo positivo. Mi ricordo che un giorno, mentre camminavamo su Sixth Avenue, improvvisamente ho sentito tre ragazze urlare: «Junot!» Una ti ha detto che aspettava con ansia il tuo prossimo libro. Quel tipo di voce ti va bene?

Junot Díaz: Non tanto. Perché ciò che mi spinge a scrivere non è l’urgenza di essere amico di qualcuno, o di essere famoso. Non sto scherzando. Come scrittore non sono poi così male. Riesco a portare a termine una raccolta di racconti in meno di sedici anni. Ti assicuro, a livello di «tecnica» non mi manca niente, è solo che nessuna di tutte quelle altre voci produce l’intimità terribile e ingannevole di cui ho bisogno per raccontare le mie storie. Deve esserci quella voce, dev’esserci nel libro una presenza che vuole dire la verità… Sono cresciuto in una società post-dittatoriale. Ciò che fa sopravvivere i regimi è l’asse del gradimento. La popolarità è una delle cose di cui la dittatura si appropria per mantenere il potere. Per me, scrivere seguendo quella stessa velenosa asse del gradimento che stava alla base della dittatura che ha completamente sfigurato la mia famiglia e la mia società era assolutamente fuori discussione. Mio padre era un burocrate della polizia militare dominicana. Era un perfetto rappresentante di quella cultura. E nel posto in cui vivevo era molto meglio piacere perché avevi la camicia stirata o una buona postura. È assurdo come una dittatura militare funzioni esattamente come Reddit. Giuro, è incredibile.

Hilton Als: In pratica, L’autunno del patriarca di Gabriel García Márquez è un’opera realista.

Junot Díaz: L’autunno del patriarca ne coglie il declino. Avendo vissuto in una società post-dittatoriale, la mia esperienza è che ognuno è convinto di poter essere come un articolo di Reddit che riesce a scalare la classifica. L’asse del gradimento è potentissima, e io avevo bisogno di deviare da quella strada. Avevo bisogno di dire che è possibile esprimersi, è possibile avere una conversazione che sia determinata da fattori più complessi del gradimento che possiamo suscitare nei nostri interlocutori. Magari i contenuti della mia comunicazione saranno meritevoli di una discussione in quanto tali, a prescindere dai sentimenti che si provano per la persona che li sta esponendo. In una dittatura, queste due cose vengono subito associate. Il contenuto del tuo messaggio condiziona anche il giudizio morale su di te, ed è così che si mettono a tacere le voci critiche, perché fondamentalmente dici: «Se tu critichi la dittatura, c’è qualcosa che non va nel tuo corpo oltre che nel tuo modo di pensare, e per questo motivo dobbiamo distruggere il tuo corpo».

Hilton Als: Quindi la scrittura è un atto di sfida.

Junot Díaz: Io la concepisco così. È come un’ossessione che si alimenta di sé stessa e si ingigantisce, aiutandomi a capire perché aspetto così a lungo e perché sento così chiaramente quella voce. Mi piacerebbe tanto voler stare al gioco di mio padre, assecondarlo. Da piccolo sapevo che se mi fossi stirato i vestiti tutti i giorni gli sarei piaciuto, ma lui fece l’errore di portarmi sul suo luogo di lavoro, le prigioni militari della Repubblica Dominicana. Mio fratello la trovò una cosa divertentissima, ma io mi ricordo di aver visto le pareti coperte di feci e aver pensato: ci troviamo nello spazio di questa cultura. Anche se ai tempi non avevo il vocabolario per esprimere questo concetto, sapevo che era quella casa mia. Mio padre mi stava portando dove lavorava, ma allo stesso tempo mi stava portando a casa. Quell’episodio creò dentro di me un desiderio profondo, viscerale, di cambiare rotta, perché quello non era il posto in cui volevo finire. Da un lato avrei volentieri costruito una prigione piena di torturatori se fosse servito a farmi amare da mio padre, ma dall’altro stavo già cercando di capire come staccarmi dal suo mondo, nonostante quell’istinto.

Hilton Als: Come sei riuscito a crearti una nuova casa?

Junot Díaz: Credo che in parte sia stato il risultato della situazione che abbiamo descritto. È difficile descrivere la mia famiglia senza dare l’impressione di inventarla, ma ti facevi amare vincendo gli incontri di boxe organizzati nel quartiere per passare il tempo, o piazzando diversi proiettili sul bersaglio durante il tiro a segno del sabato. La mia via di fuga da quel bizzarro regime è stata provare a leggere. Nella mia famiglia essere un nerd era un atto di evasione, perché per il resto esistevano solo le pistole e farti pestare dai tuoi vicini.

Hilton Als: Leggere come atto di aggressione e salvezza; i genitori che non leggono, che non hanno accesso a quel mondo, spesso pensano che il bambino stia tirando su una specie di muro. E non condividono quella scelta. Ma non possono dire che sia sbagliata.

Junot Díaz: Sono così invischiati nel dilemma illuminista. I genitori, soprattutto se immigrati, sanno che l’istruzione è l’unica via d’uscita. Allo stesso tempo, quando nella mia famiglia mi vedevano con un libro, dicevano: «¡Anormal! Vai un po’ fuori a giocare!» C’era questo continuo tira e molla, e ogni bambino si crea degli spazi in cui nascondersi.

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