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È troppo: il problema degli scrittori prolifici

Drew Nellins Smith BIGSUR, Editoria, Scrittura

Pubblichiamo un intervento di Drew Nellins Smith in risposta a un articolo di Stephen King apparso sul New York Times nell’agosto 2015. Il pezzo è stato pubblicato originariamente su The Millions e viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore e della testata.

di Drew Nellins Smith
traduzione di Emma Lenzi

Giovedì il New York Times ha pubblicato un articolo in difesa degli scrittori prolifici, scritto proprio da uno dei più prolifici dell’era moderna, Stephen King. Tempismo perfetto per me, uno scrittore non prolifico al suo primo contratto che riflette spesso sulla questione di un’adeguata produzione letteraria.

Nel suo pezzo, che vale sicuramente la pena leggere, King sostiene due cose. Uno, che ci sono delle grandi opere sepolte sotto la bibliografia immensa di alcuni scrittori. (Ovvero, «Alexandre Dumas scrisse I tre moschettieri e Il conte di Montecristo – e altri 250 romanzi».) Due, che per alcuni autori, come lo stesso King e Joyce Carol Oates, «a volte la prolificità è inevitabile». King descrive il folle coro di voci che sente nella testa fin dalla giovinezza: tutte storie che gridano di essere scritte.

Il potenziale di queste opere non scritte è un interessante punto d’accesso al problema. Come tutti, ho sempre trovato un certo fascino nel concetto delle opere letterarie perdute. Ce ne sono di vari tipi, oltre a quelle che non saranno mai scritte. Ci sono quelle veramente perdute, come il dramma scomparso Cardenio di William Shakespeare. Quelle quasi perdute, come le poesie di Emily Dickinson. Quelle in gran parte perdute, che potevano morire con i loro autori e invece sono state pubblicate, come L’originale di Laura di Vladimir Nabokov o Il re pallido di David Foster Wallace.

Ma negli ultimi tempi ho iniziato a pensare che forse i libri più perduti sono quelli sepolti sotto le immense bibliografie degli autori che hanno semplicemente pubblicato troppo.

Cosa ne pensate, per esempio, del romanzo Pilone di William Faulkner? E di Solstice di Joyce Carol Oates? E di quell’incredibile mattone del romanzo Moving On di Larry McMurtry? O dell’unico libro di Philip Roth che ha una protagonista femminile, Quando lei era buona? C’è qualcuno, a parte gli studiosi dell’opera di John Updike, che ricorda Un mese di domeniche?

No? Beh, chi può biasimarvi? Faulkner ha scritto 19 romanzi. Non ci si può aspettare che li leggiate tutti. Larry McMurtry ha scritto più di 45 libri. Roth circa 30 fra romanzi e racconti lunghi. Updike più di 20 romanzi e quasi altrettante raccolte di racconti.

Joyce Carol Oates, come fa notare King, è «autrice di più di 50 romanzi (senza contare gli 11 scritti sotto gli pseudonimi di Rosamond Smith e Lauren Kelly)». E sono solo i romanzi. Ho smesso di contare le raccolte di racconti elencate nella voce di Wikipedia dedicata alla sua bibliografia dopo la numero 20, il che mi ha portato solo agli inizi degli anni ’90. Ah, e questa voce è definita «incompleta». Wikipedia vi sarà grata per il vostro contributo a espanderla, sebbene sia improbabile che nel farlo siate più veloci della stessa Oates.

Vedendo una bibliografia del genere posso soltanto chiedermi: non è possibile – addirittura probabile, forse – che il miglior romanzo della Oates sia un qualche libro dimenticato, fuori catalogo, che ha scritto diciamo nel 1982, magari uno che non è ancora stato inserito nella sua incompleta bibliografia? Se così fosse, la maggior parte di noi non lo saprebbe mai perché la sua enorme produzione ha costruito un corpus così minaccioso da privarci dell’esperienza dei suoi libri.

Autori dalla produzione così sterminata non esistono soltanto nell’ambito della literary fiction, come illustra chiaramente il pezzo di King. Anzi, il gioco si fa duro sul serio quando si comincia a parlare di letteratura di genere. C’è lo stesso King, ovviamente, che in totale è a quota 70 libri. Agatha Christie che, ci informa King, pubblicò 91 romanzi. Isaac Asimov che, spiega King «scrisse più di 500 libri e rivoluzionò la fantascienza». James Patterson, anche lui citato da King, ha pubblicato (per lo più in collaborazione con un coautore) quasi 150 libri, di cui una quindicina usciti solo nel 2014. E dove sarebbe la cultura moderna senza Nora Roberts, autrice di più di 200 romanzi rosa?

Forse King ha ragione nell’affermare che una produzione di queste dimensioni è una buona cosa. Ma qualcosa ancora m’inquieta. Forse perché, una volta scoperto un libro che amo, mi sento invariabilmente obbligato a trovare e divorare tutto quello che ha scritto lo stesso autore.

Con alcuni è semplice. L’intera bibliografia di Flannery O’Connor è praticamente costituita da quattro libri: La saggezza nel sangue, Il cielo è dei violenti, A Good Man Is Hard To Find e Everything that rises must converge [questi ultimi due pubblicati in italiano nella raccolta Tutti i racconti, n.d.t.]. Poi, per chi è davvero insaziabile, ci sono le sue lettere, le interviste, quello che rimane delle note a margine raccolte in volume e, più recentemente, un diario di preghiera. Terminati quelli ce l’avrete fatta. Conoscerete Flannery da «Il geranio» a «Il giorno del giudizio» e qualsiasi altra cosa abbia pensato, chiesto o sussurrato al cielo. C’è qualcosa di meraviglioso nell’aver visto tutto ciò che un autore ha da offrire, seguendone i progressi, le ossessioni, i temi e i tropi ricorrenti, le tracce del subconscio.

Il problema sorge quando m’imbatto in un autore, come uno di quelli sopra citati – incluso King – la cui mole di opere sfida, solo con il suo peso, quel tipo di attento studio, a meno di non voler profondere nell’impresa una quantità veramente anomala di tempo e dedizione.

Leggere un libro non è come guardare un film o osservare un’opera d’arte. Dopotutto si potrebbero vedere tutti gli 860 dipinti a olio di Vincent Van Gogh in pochi giorni, se fossero fisicamente disponibili. E non s’impiegherebbe più di un’ora per apprezzare superficialmente le 34 opere di Johannes Vermeer. La filmografia di Stanley Kubrick comprende 13 film che potrei vedere in pochi giorni, se volessi fare una maratona. Ma con gli scrittori non è così semplice, a meno che non voglia che questo diventi il mio Anno dedicato a John Updike, i miei Due Anni dedicati a Philip Roth o il mio Decennio dedicato a Joyce Carol Oates.

King conclude dichiarando di essere felice che la signora Oates continui a scrivere libri «perché», afferma, «li voglio leggere». Mi chiedo se li ha letti davvero. Se qualcuno li ha già letti tutti e aspetta il prossimo con impazienza. Chiunque lo abbia fatto o lo faccia ha molto più tempo libero di me. Se fossi immortale, se il nostro tempo su questo pianeta fosse infinito, sono sicuro che la penserei diversamente, ma come afferma saggiamente King nel suo pezzo, «la vita è breve».

Ma anche lasciando da parte la mia ossessione per le opere complete: quando ci si trova di fronte a una bibliografia così imponente c’è sempre l’incertezza sul punto d’ingresso e sulla direzione da prendere una volta entrati. Se desiderassi scavare nell’opera della Oates, di McMurtry, Updike, Roth o perfino di James Patterson, sarei obbligato o a scegliere a caso, o a fidarmi del parere di terzi su quale sia l’opera più importante e degna. Il che andrebbe anche bene se le persone di cui mi fidassi avessero letto tutte le opere, ma ovviamente non l’hanno fatto – forse a eccezione dei fan sfegatati di King.

Molti anni fa ho provato un’angoscia analoga in un negozio di dischi. Ci ero andato deciso ad approfondire, finalmente, la musica di Frank Zappa. Per sfortuna era un negozio abbastanza rifornito e avevano la maggior parte dei suoi 100 album. Alla fine, dopo aver provato a sceglierne uno basandomi sulla copertina, rinunciai e decisi invece di buttarmi sulla musica punk, un sacco di band dalla vita breve che si autodistruggevano dopo appena un paio di album: piccole discografie che potevo imparare a memoria. Naturalmente ci saranno stati dei grandi album sepolti sotto la discografia di Zappa, come pure nella produzione di più di 144 dischi dei Grateful Dead. Ma non lo saprò mai. La mole di opere diventa una barricata, un muro impossibile da scalare, anche se lo si desiderasse.

La stessa cosa succede con i romanzi. È vero che dire alla Oates e agli altri di non scrivere così tanto potrebbe privarci di grandi opere, ma il risultato finale è identico. Ogni nuovo libro, almeno per me, si perde nel mare magnum.

© Drew Nellins Smith, 2015. Tutti i diritti riservati.

 Drew Nellins Smith scrive di libri su numerose testate, cartacee e online. È autore del romanzo Arcade.

 

 

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