Lima: Breaking the Silence

Perù: best seller e mitologia della violenza di serie B

Alejandro Neyra Scrittura, Società, SUR

Dal progetto Peruanos de ficción, un articolo dell’autore peruviano Alejandro Neyra che indaga sulla rappresentazione del proprio paese nella fiction straniera, contemporanea e non. L’articolo è uscito su Buensalvaje, che ringraziamo.

«Perù: best seller e mitologia della violenza di serie B»
di Alejandro Neyra
traduzione di Alice Piccone

Un bambino di sei anni si è trasformato in assassino: ha conficcato una zappa nella testa del suo compagno di giochi, un ragazzetto dal labbro leporino, spaccandogli il cranio. Più di quarant’anni dopo, questo piccolo omicida − divenuto un cittadino milionario di Manhattan − ricorda nei dettagli ciò che ha voluto dimenticare. Lo fa mentre guarda commosso un’immagine in televisione, una scena che sembra tratta da un film di serie B: poliziotti armati di mitragliette e fucili circondano un edificio in fiamme perché è stato occupato da un gruppo di squilibrati, quando uno di loro inizia a tagliare una gamba (con un machete) a un ostaggio che vuole scappare dal tetto. È la realtà, è il telegiornale, e avviene nel carcere di un paese barbaro. Tutto questo succede in un romanzo del 1986 di Gordon Lish, uno scrittore statunitense meglio conosciuto per essere stato l’editor di Raymond Carver. La scena del carcere è così importante ai fini della storia che ne motiva il titolo: Peru.

Durante gli anni di violenza interna, il nome del nostro paese ha smesso di essere associato (unicamente) a quell’esotismo di cui tratta Luis Loayza in El sol de Lima e che riempie la maggior parte delle pagine dedicate al Perù di storia e fiction, come quelle del Rosso e il nero di Stendhal o Alla ricerca del tempo perduto di Proust, che lui (Loayza) menziona. In vari romanzi contemporanei questo nome è legato a gruppi terroristici, morte, violenza e orrore. Non sono stati scritti da autori peruviani o latinoamericani, nemmeno da detrattori del marchio «Perù» e nemmeno da un cane qualsiasi. Sono narratori con tradizioni diverse, che trovano eccezionale il nome del nostro paese, e lo considerano lo scenario ideale per ambientarvi avventure di spie, romanzi neri e drammi romantici.

Per esempio Gérard de Villiers, il romanziere francese forse più letto di tutti i tempi, ha ambientato una delle storie della sua famosa serie SAS in Perù, un paese marcio. In Chasse à l’homme au Pérou (1985), Sua Altezza Serenissima (SAS) Malko Linge – un principe austriaco che lavora per la CIA – è stato inviato qui per arrestare Abimael Guzmán, leader degli ingestibili seguaci di Sendero Luminoso. E quel tipo duro e impavido, che riesce a travolgere ogni uomo (e donna) che incontra per la sua strada, rimarrà inorridito dopo essere stato torturato dalla DINCOTE ed essersi reso conto che in Perù la violenza non era un’esclusiva del terrorismo (ma condivisa con polizia e forze armate). Per fortuna la fiction è favorevole a Linge, che se ne va dal paese non senza prima aver provato la dolcezza delle sue insaziabili donne ed essersi procurato non pochi graffi e lividi, per non parlare del trauma che lo porta a pensare che il Perù sia il vero cuore di tenebra.

(De Villiers, uno squisito creatore di ambientazioni, è venuto in Perù a conoscere la sua nuova scena, provare a comprendere quello che qui succedeva e, già che c’era, a negoziare l’imminente pubblicazione del suo romanzo a puntate sulle pagine del quotidiano La República).

La profezia di Celestino, libro scritto − e all’inizio editato, pubblicato e distribuito – dallo statunitense James Redfield nel 1993, ha venduto più di 14 milioni di copie. In questa perla del kitsch, vengono ritrovati in Perù all’inizio degli anni Novanta dei manoscritti sotto alcune rovine inca situate vicino a Iquitos. Sono nove scritti in aramaico (!) datati 600 a.C. Ognuno di questi contiene una rivelazione che promette di cambiare il destino dell’umanità. Ma il governo del Perù perseguita coloro che provano a rivelare le profezie. A questo scopo utilizza tutta la forza militare di cui dispone, in alleanza con l’oscuro cardinale Sebastián, il quale teme che i documenti segreti possano mettere a rischio la fede cattolica e l’umanità intera. Per fortuna un gringo è disposto a superare tutte le prove e gli ostacoli, attraversare le Ande fino a Machu Picchu e viaggiare poi fino a Iquitos per farci conoscere la verità, sebbene sia necessario scontrarsi con la violenza che si vive solo in questi territori selvaggi. Oh my!

Non meno traumatica è la storia che racconta Agustín Rejas (anche noto come Ketín Vidal) al giornalista John Dyer, il narratore di Danza di sangue (1995), romanzo di Nicholas Shakespeare. Rejas, interpretato da Javier Bardem nel mediocre film omonimo diretto da John Malkovich nel 2002, deve catturare Ezequiel, leader di un sanguinario gruppo maoista, in un paese sudamericano, che non si dice mai essere il Perù, peccato che sia proprio uguale. Nel frattempo, dovrà affrontare il malvagio capo dei servizi dell’intelligence Tristán Calderón (lo zio Vladi [Vladimiro Montesinos, ndr]) − che uomo privo di scrupoli! − e non cedere alla tentazione di innamorarsi dell’insegnante di danza di sua figlia (diciamo pure Maritza Garrido Lecca).

È curioso come Shakespeare riesca a parlare d’amore in un luogo in cui tutto sembra obbedire semplicemente alle leggi di una violenza estrema. Ma magari è vero che ci si riesce a innamorare anche nelle condizioni più strane e nei luoghi meno propizi. Questo almeno è ciò che succede ai protagonisti di Belcanto (2001), il romanzo con cui Ann Patchett ha vinto l’Orange Prize nel 2001. Anche questo si svolge in un paese sudamericano innominato, ma in cui un gruppo di terroristi cattura e tiene in ostaggio molti personaggi importanti in casa del Vicepresidente (il Presidente, che per sua fortuna è assente, è di origine giapponese). Questo è un romanzo più naïf, se vogliamo, in cui l’amore tra un imprenditore nipponico e una cantante lirica nordamericana, e la relazione tra l’interprete, anche lui giapponese, e la guerrigliera Carmen, occupano l’intreccio della storia. Sebbene la Patchett si sforzi di chiamare diversamente il gruppo di terroristi («La famiglia di Martín Suárez» è il ridicolo nome affibbiato all’MRTA) e le autorità di quel paese, alcuni semplici riferimenti a tradizioni locali e a Santa Rosa de Lima – di cui Carmen è devota – scacciano via ogni dubbio.

Nel meno conosciuto Fuga dos Andes (2009), del brasiliano José Pedriali, un giornalista e una terrorista innamorata fuggono in una storia piena di sangue, sudore e sesso dedicata alle vittime di Uchuraccay. Anche questa è una fiction dai tratti realistici, basata su una storia che lo stesso Pedriali ha confessato essergli capitata in Perù nel 1983, quando lavorava come corresponsabile di un quotidiano del suo paese. Ad ogni modo, per quanto riguarda il passabile «boom» gastronomico, il protagonista di Fuga dos Andes sembra essere proprio ossessionato dalla nostra cucina, oltre che da Beatriz, la ayacuchana «dagli occhi di smeraldo, il naso piccolo e appuntito, il collo lungo e delicato, il viso leggermente bruno, le forme armoniose, i capelli lisci alla Chanel».

Una divagazione-annotazione: i «guerriglieri» peruviani sono quasi sempre buoni, come quelli delle avventure di MacGyver nell’episodio ambientato in Perù («Il tesoro di Manco», 1990), in cui i terroristi vogliono trovare il tesoro degli Incas solo per rendere giustizia al popolo oppresso da militari e politicanti. La cosa triste è che alla fine il tesoro non è il bramato oro imperiale ma un silo pieno di semi che verranno piantati sulle Ande. O come i terroristi che compaiono in una pellicola pessima ma indimenticabile: Lima: Breaking the Silence. In questo film del 1999, con protagonista un enigmatico Joe Lara, tipico bellimbusto latino, muscoloso e con i capelli lunghi, è difficile capire se i cattivi stiano dalla parte dell’MRTA o del presidente Fujimoro (sic) e del suo scagnozzo malefico, il generale Monticito Frantacino (doppio sic) [Fujimori e Montesinos, ndr]. Affascinante.

Nel Perù della fiction, amore e morte sembrano convivere in armonia con terroristi sanguinari, poliziotti corrotti, donne belle ed esotiche destinate a morire in modo tragico e violento, e uomini che ancora non sanno che in quel paese che va allo sfascio c’è sempre – sempre – la possibilità che qualcuno possa vedere la luce… o almeno raccontare una storia. Quegli anni terribili del paese fanno pensare allo psicopatico interpretato da Willem Dafoe nel classico di David Lynch Cuore selvaggio: Bobby Peru. Dall’essere considerato territorio del buon selvaggio, si è trasformato in territorio alquanto selvaggio. Staremo a vedere cosa riserverà la fiction al paese negli anni a venire. Temo che per gli affabulatori il Perù sarà un po’ più noioso e meno avventuroso. A meno che Ollanta Humala continui a impegnarsi per provare il contrario.

 

© Alejandro Neyra, 2012. Tutti i diritti riservati.
Alejandro Neyra (Lima, 1974) è diplomatico e scrittore. Autore di saggi e di tre libri di racconti, il suo romanzo CIA Perù, 1985 ha vinto nel 2012 il premio della Cámara Peruana del Libro.

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