Zora

Così parlò Zora

John H. McWhorter BIGSUR, Ritratti, Scrittura

Oggi ricorre l’anniversario della morte di Zora Neale Hurston (1891-1960), romanziera e studiosa del folklore afroamericano, autrice del classico I loro occhi guardavano Dio. Ne pubblichiamo un profilo a cura di John H. McWhorter, originariamente apparso sul City Journal. Ringraziamo l’autore per la gentile concessione.

di John H. McWhorter
traduzione di Simone Orsello

Tra le ultime fotografie di Zora Neale Hurston ce n’è una, scattata verso la fine degli anni Cinquanta, che è straziante. Un tempo figura incantevole, capace di dominare qualsiasi stanza, è seduta davanti a un bungalow in Florida, una donna vecchia e gonfia che vive in povertà, ritratta mentre parla con la gente del luogo. Per quanto sembri a suo agio, non possiamo fare a meno di immaginarla a New York, intenta a promuovere il suo ultimo romanzo al Jack Paar Show. Ma i suoi libri erano ormai finiti tutti fuori catalogo, e si doveva mantenere facendo lavoretti occasionali, tra cui anche la donna di servizio (non era la prima volta). Pareva aver raggiunto lo stato d’animo descritto da Janie alla fine del suo capolavoro, I loro occhi guardavano Dio: «Sono arrivata fino all’orizzonte, e adesso posso starmene seduta nella mia casa a vivere del ricordo delle cose che ho visto».[1]

La Hurston sarebbe morta poco dopo, nel 1960. Ma era un’intellettuale affascinante, e non poteva restare ai margini per troppo tempo. Tredici anni più tardi Alice Walker la portò di nuovo all’attenzione del mondo. Le opere tornarono in circolazione, per di più raccolte in un volume della Library of America. Mule Bone, uno dei suoi primi lavori teatrali scritto in collaborazione con Langston Hughes, fu messo in scena integralmente a New York nel 1991. Il francobollo arrivò nel 2003, il film di I loro occhi guardavano Dio [intitolato Con gli occhi rivolti al cielo, n.d.t.] due anni più tardi, e nel 2008 le venne dedicata una puntata di American Masters, la serie di documentari della PBS. Negli ultimi anni anche gli studi che la riguardano hanno fatto passi avanti, con la pubblicazione di Wrapped in Rainbows, un’importante biografia scritta da Valerie Boyd, e di una superba edizione delle sue lettere curata da Carla Kaplan.

La Hurston ha quindi trovato il suo posto nel diorama dell’Harlem Renaissance, ed è facile per noi interpretare quel sorriso malizioso che sfoggia nelle fotografie come segno della consapevolezza che Nero È Bello. Era così, ma fino a un certo punto. Era più eccentrica e individualista di quanto oggi pensino tanti suoi ammiratori, una fervente repubblicana che su Fox News si sarebbe sentita a casa e che partendo dall’orgoglio razziale è arrivata a conclusioni poco ortodosse. Il sorriso di Zora Neale Hurston era una sfida silenziosa tanto ai neri quanto ai bianchi, e lo è ancora oggi.

Secondo Valerie Boyd, la Hurston non è nata nel 1891 a Eatonville, in Florida, come sosteneva lei (arrivò lì quand’era piccola), ma a Notasulga, una minuscola cittadina dell’Alabama. La madre morì quando aveva tredici anni, e il padre, John, impegnato a fare il predicatore in giro per il paese e a mantenere una sfilza di amanti, non era particolarmente favorevole all’idea di tirare su da solo una nidiata di bambini. La mandò quindi in un collegio di Jacksonville, dove spesso dovette lavorare come bidella per pagarsi le rette che lui dimenticava di saldare. Un breve ritorno a casa si risolse in un litigio domestico durante il quale finì quasi per uccidere la giovane bambolina che il padre aveva preso come seconda moglie.

Zora in seguito tornò a Jacksonville per sette anni, un periodo che nella sua autobiografia Dust Tracks on a Road salta a piè pari e che lascia alquanto perplessi i biografi moderni. Fece la donna di servizio, e si ritrovò a lavorare come factotum per una compagnia di attori che portava in giro le opere di Gilbert e Sullivan e che la lasciò a piedi a Baltimora. A ventisei anni si iscrisse a un corso di preparazione all’università in quella che oggi è la Morgan State University dichiarandone dieci di meno, quindi frequentò un corso equivalente presso la Howard University, un’istituzione riservata ai neri, dove ottenne infine il diploma di scuola superiore. L’iscrizione alla Howard sembrò il naturale passo successivo, e lì cominciò a scrivere e pubblicare racconti e poesie. Come tanti altri scrittori neri di talento dell’epoca venne notata da Carl Van Vechten, un agente newyorkese bianco. Poco dopo arrivò nella Grande Mela per frequentare il Barnard College, e lì si laureò nel 1928.

Al Barnard, la Hurston rimase affascinata da Franz Boas, antropologo la cui ricerca intendeva dimostrare la complessità delle culture indigene: una posizione in antitesi con quelle dell’epoca, che consideravano primitivi tutti i popoli non sviluppati. Gli studi insieme a Boas furono un’esperienza determinante. Sotto i suoi insegnamenti, la Hurston scoprì di essere cresciuta in una cultura genuina quanto quella dei nativi americani, e decise pertanto di cominciare a esplorarla. Tornò in Florida per raccogliere un corpus di racconti popolari dai contadini neri che avrebbe gettato le basi per la sua carriera. Sebbene a New York frequentasse Langston Hughes, Countee Cullen e la cricca letteraria che lei aveva definito dei «niggerati» – corteggiando abilmente anche i sostenitori bianchi, i «Negrotarians» – passava la maggior parte del tempo a fare ricerca sul campo nel profondo Sud e alle Bahamas, lavoro da cui ricavava grande soddisfazione.

Il materiale folklorico raccolto non lo diede solo alle stampe, ma lo portò anche a teatro, creando uno spettacolo formato da canzoni, scenette e danze. Il varietà, quasi sempre intitolato The Great Day, venne replicato più volte a New York e poi in diversi stati, il tutto mentre si destreggiava tra saggi, testi teatrali, qualche occasionale articolo accademico e, a partire dal 1934, libri.

Jonah’s Gourd Vine segna il suo debutto come scrittrice di romanzi. È in parte un romanzo a chiave sulla sua infanzia, in cui cerca di farsi una ragione del comportamento da donnaiolo del padre. Se analizzato in profondità, tuttavia, il libro si rivela veicolo per l’idea di Boas, una dimostrazione del fatto che quel mondo lontano e devastato dalla povertà possedeva una propria cultura vitale e non poteva essere ridotto a versione degradata della cultura bianca convenzionale.

A un certo punto, per esempio, un personaggio si rivolge a un altro in questo modo: «Ciao, John. Vedo che ti stai mettendo a fare il sapone». John chiede: «Cosa te lo fa pensare, Lucy?» La sua risposta: «C’hai le ossa belle impilate». La Hurston continua: «Fece segno alle sue gambe incrociate, ed entrambi scoppiarono a ridere». Ecco, con la cenere d’ossa ci si faceva il sapone. La lezione che si trae è che in quella cultura – dove la gente viveva quasi sempre a piedi nudi, a saper leggere erano in pochi, si parlava un dialetto nero rurale e i pasti consistevano di pietanze come le mammelle di scrofa – si fanno giochi di parole intelligenti e arguti, proprio come nel mondo bianco. E Jonah’s Gourd Vine è pieno di insegnamenti simili, una lezione del corso che la Hurston avrebbe tenuto per il resto della sua vita.

Il romanzo successivo, pubblicato nel 1937, è I loro occhi guardavano Dio, e basterebbe a giustificare la fama dell’autrice anche nel caso in cui non avesse scritto nient’altro. Il libro segue l’umile ma affascinante Janie mentre cerca di prendere coscienza di sé passando per tre matrimoni; il terzo è quello con il più giovane Tea Cake, una bomba del sesso, uno «sguardo di Dio», che si prende la rabbia e diventa tanto violento da costringerla a ucciderlo per difendersi. Torbido, suggestivo e autentico ancora dopo settantadue anni, I loro occhi guardavano Dio dà l’ineffabile sensazione di essere stato dettato dall’alto.

O questa, perlomeno, è l’idea che ne abbiamo oggi. All’epoca della pubblicazione, Richard Wright vedeva solo chiacchiere e parole vuote, con i personaggi che oscillavano «eternamente come pendoli in quell’orbita stretta e sicura in cui all’America piace vedere i neri: tra lacrime e risate». Alain Locke, il decano dei letterati di colore, trovava che l’aspetto popolare del romanzo fosse superficiale, indifferente alla «psicologia interiore». Ma siamo di fronte a un romanzo nel quale la protagonista si sdraia sotto un albero e raggiunge il primo orgasmo, una «fitta dolce, senza rimorsi», osservando un’ape che impollina un fiore. Janie cresce cercando «conferma della voce e della visione, e dappertutto trovò e riconobbe diverse risposte. Una risposta personale per ciascuna creatura, tranne che per lei. Sentiva che doveva cercare una risposta, ma dove? Quando? Come?» Siamo molto lontani dalle storie ingenuamente popolane di Uncle Remus, e oggi è quasi imbarazzante leggere uomini di tale spessore intellettuale che bocciano con disinvoltura un romanzo straripante di un simbolismo complesso e stratificato, e animato da alcuni tra i personaggi neri più nitidi apparsi in letteratura fino a quel momento.

Ma Wright e Locke erano intellettuali del loro tempo, che vedevano l’inizio degli Occhi, con quegli uomini sotto un portico a raccontarsi storie pittoresche e assurde, come farsesco «colore locale». Gli americani non avevano imparato che l’indigeno e il sofisticato erano compatibili. Il disinteresse di Wright e Locke nasceva dalla mancata comprensione delle differenze tra i loro progetti e quello della Hurston. Loro due volevano raccontare quello che i neri potevano essere: ribelli contro l’ingiustizia o comunque meritevoli delle stesse conquiste dei bianchi. La Hurston pensava che i neri in sé fossero già sufficientemente meravigliosi.

I loro occhi guardavano Dio è arrivato in un’epoca in cui gli studenti della Howard cominciavano a declassare gli spiritual a pratiche primitive di un passato che era meglio dimenticare, e in cui gli scrittori neri dovevano dimostrare quanto fossero bravi a tirarsi fuori dalle forme convenzionali con paroloni, inversioni sintattiche e citazioni di Keats e Shelley. Tanti lettori oggi, davanti alla letteratura afroamericana antecedente agli anni Venti, si aspettano «autenticità» e trovano invece personaggi neri che parlano come libri sistemati in vecchi salotti eleganti. In anticipo sulla sensibilità contemporanea, la Hurston si oppone a quella che definisce «l’epoca dell’oleomargarina della scrittura nera», ed esorta i colleghi afroamericani ad andare oltre la mera imitazione dei bianchi. «Venerateli quanto volete», scrive. «Passate l’eternità in adorazione. Andate in estasi e scimmiottate ogni loro mossa, ma finché non piazzeremo qualcosa di nostro all’angolo della loro strada saremo sempre al punto in cui eravamo quando ci facevano marciare in catene».

Questa insistenza sulle tradizioni popolari più umili dell’America nera come patrimonio prezioso che doveva essere documentato fu alla base dell’opera della Hurston. Anche se oggi ricevono più interesse del resto della produzione, i romanzi li buttava giù nel giro di qualche mese, e raramente ne era soddisfatta. Gli anni di lacrime e sangue che tanti scrittori dedicano alle loro opere lei li trascorse a cercare storie popolari. Subito dopo Jonah’s Gourd Vine venne Mules and Men, una raccolta di materiale tradizionale proveniente da Eatonville e New Orleans. La Hurston riuscì a trovare un equilibrio tra lo sguardo della studiosa e la partecipazione in prima persona, unendo le descrizioni dei riti vudù a nitide testimonianze personali. Per il libro successivo, Tell My Horse, si sottopose all’iniziazione per diventare guaritrice e documentò i rituali praticati in Giamaica e ad Haiti.

Oggi Mules and Man e Tell My Horse devono essere letti come pezzi di storia. La desegregazione, le strade e i mass media hanno condannato a morte i racconti catalogati dalla Hurston. Il segnale si stava già facendo più debole negli anni Trenta, quando scriveva a Boas: «È una fortuna raccoglierli ora, sono in tanti a dire “una volta ne conoscevo qualcuna di quelle storie vecchie, ora ho dimenticato tutto”. Vede, i neri non stanno vivendo le loro tradizioni come gli indiani. Non vivono dentro le riserve, non le custodiscono nella purezza. La loro negritudine viene consumata dallo stretto contatto con la cultura bianca».

Quello della Hurston nei confronti della cultura popolare nera è stato un atteggiamento in anticipo sui tempi. All’epoca qualsiasi musical dai toni cupi dedicato ai mezzadri neri sarebbe stato fischiato, persino da un pubblico nero; oggi quello tratto da Il colore viola di Alice Walker sta girando il paese dopo più di due anni a Broadway. Ma se il punto di vista della Hurston sulle tradizioni popolari, all’epoca decisamente radicale, è oggi diventato mainstream, altre sfaccettature della sua idea di autenticità nera non hanno attecchito, una su tutte quella politica.

C’è una foto che viene spesso riproposta e raffigura una donna esile, sorridente e con gli occhi allungati. Pare affabile e spontanea, e suggerisce l’idea di una Hurston «sorella» nera, coi «piedi per terra», precoce rappresentante di una sensibilità estremamente moderna.

Ma Valerie Boyd fa notare che nello scatto, proveniente da una delle ricerche sul campo della Hurston, c’è un’altra persona. Forse la ragione per la quale i suoi ammiratori continuano a cadere nell’errore – come fa l’antologia della Kaplan, per esempio – è che vogliono pensare a lei come a una di noi. Ma quella Hurston diventa sempre più inafferrabile via via che si scopre la sua vera storia.

Tanto per cominciare, aveva una posizione politica molto vicina al conservatorismo nero di Clarence Thomas. La sua dichiarazione più famosa a questo riguardo proviene da «How It Feels to Be Colored Me», un saggio del 1928: «Non sono tragicamente di colore. Non ho l’anima che straborda di sofferenza, né il desiderio di nascondermi dentro di me. […] Non appartengo alla scuola piagnucolante dei neri che accusano la natura di aver loro riservato un trattamento crudele e meschino, e che per questo si disperano».

Ovviamente sapeva cosa fosse il razzismo, e condannava le leggi razziali: «Sono per l’abrogazione totale di tutte le leggi che propugnano la segregazione negli Stati Uniti una volta per tutte, e adesso. […] Non in qualche futura generazione, abrogazione ADESSO e per sempre!» Si schierò ancora più apertamente durante gli anni Quaranta, scrivendo cose che di tanto in tanto facevano felice l’ala sinistra dell’ambiente universitario: «Gli anglosassoni sono gli esseri umani più intolleranti verso qualsiasi altro gruppo dalla pelle più scura della loro».

Ma ammetteva anche che «siamo destinati ad accalcarci nelle “affollate strade della vita”», esemplificando quella che Thomas Sowell definisce «visione tragica». La chiave per lei era la fiducia in sé stessi: «È la vecchia idea, banale ma vera, secondo la quale aiutare le persone ad aiutarsi è l’unica salvezza possibile per i neri di questo paese. Nessuno può farlo per loro da fuori». Non sorprende che fosse un’ammiratrice di Booker T. Washington. (In Jonah’s Gourd Vine un predicatore urla: «Du Bois? E chi è? Un altro negro intelligente? Non può mica essere intelligente come Booker T.!»)

La Hurston condannava l’idea che gli afroamericani di successo fossero in un certo senso «un discorso a parte», e sosteneva che «questi neri tranquilli e soddisfatti sono veri quanto i mezzadri». Dicendo che il voto dei neri non doveva essere quello di una «massa amorfa e oscura» ha anticipato i conservatori neri di oggi che evidenziano le insidie nascoste dietro il supporto automatico a un unico partito: «È ora di non permettere più che il nostro voto venga affidato a qualche “amico” convincente, come se fossimo una massa indistinta, e di diventare singoli cittadini».

La Boyd attribuisce la sua relativa mancanza di interesse a denunciare il razzismo, oltre che l’impegno profuso a favore dell’autosufficienza nera, al fatto di essere cresciuta in una città di neri, dove i neri occupavano tutte le cariche politiche e i bianchi erano una sorta di entità astratta. Eppure tantissimi altri personaggi di colore del suo tempo provenivano da un contesto simile, e non sono diventati intellettuali conservatori. Era una tipa strana.

E la sua stranezza non si limitava alla politica. Un esempio: per quanto amasse la sua gente, profondamente cristiana, non andava in chiesa. In una lettera, in cui descrive le sue ricerche sui riti vudù, arriva addirittura a rinnegare il cristianesimo. Si è sposata tre volte, matrimoni brevi e in larga parte a distanza, con uomini molto più giovani di lei, spesso meno raffinati e praticamente sconosciuti agli amici. Ha dedicato i suoi libri a conoscenti bianchi. Si vedeva raramente con i fratelli e le sorelle, e non ha mai instaurato rapporti di amicizia intimi e duraturi con nessuno. Tutti i suoi contemporanei citati dalla Boyd e da Robert Hemenway, autore di una biografia precedente, parlano di lei con distacco, come di un personaggio memorabile che hanno osservato ma non conoscevano bene. Si è tolta dieci anni per iscriversi al corso di preparazione all’università e ha continuato a toglierseli per il resto della sua vita, e farsi passare per trentenne e qualcosa quando ci si avvicina ai cinquanta implica l’innalzamento di una sorta di muro tra sé e il mondo sociale.

Gli estimatori della Hurston hanno cara la sua rappresentazione dei neri e della loro «“soffice” resistenza ai tentativi dei bianchi di capirli, rispondendo alla loro curiosità indagatoria con un’affascinante pacatezza che alla fine non porta da nessuna parte» (e torna alla mente il sorriso malizioso delle fotografie). Eppure la Hurston non utilizzava questa geniale tipologia di depistaggio solo con i suoi «Negrotarians» bianchi, ma lo faceva anche con i neri. Quando morì fu come se nessuno l’avesse mai conosciuta a fondo, o quantomeno a lungo.

Oggi la sua insofferenza nei confronti del pensiero collettivo suggerisce a molti una certa sensazione di disagio col suo essere nera. Ma per la Hurston era una semplice questione di orgoglio interiore. Il suo lavoro antropologico e letterario non lascia alcun dubbio riguardo all’amore per la cultura nera e per il suo popolo. Eppure aveva capito che la ricerca di conferme individuali nell’«orgoglio» razziale era quasi sempre un’operazione di facciata:

Ora, supponiamo che un nero faccia qualcosa di davvero magnifico, e che io me ne vanti, non per il beneficio che ha apportato all’umanità, ma per il fatto che questa persona è nera. Non dovrei forse abbassare il capo in segno di vergogna quando un membro della mia razza fa qualcosa di abominevole? […] Non è stata la razza bianca a entrare in un laboratorio e inventare la lampadina. È stato Edison. […] Se poi pensate che ogni uomo bianco sia un Edison, be’, date un’occhiata in giro.

Oggi, con la presidenza di Barack Obama, il suo scetticismo sull’orgoglio della comunità nera darebbe fastidio a molti. Non avrebbe tollerato troppo nemmeno i moderni movimenti di riparazione per la schiavitù fioriti nei primi anni Duemila sulla scia di The Debt, il manifesto campione di vendite di Randall Robinson. In tempi in cui la schiavitù era ancora abbastanza recente da permetterle di intervistare ex schiavi, la Hurston arrivò persino ad affermare che «la schiavitù è il prezzo che ho pagato per la civiltà». In quella che suona come una risposta al libro di Robinson, scrive: «Per almeno un secolo l’indottrinamento ha detto al nero che doveva essere oggetto di compassione. “Ci hanno portato qui contro la nostra volontà. Siamo stati schiavi per duecentoquarantasei anni. Non siamo responsabili di nulla, in nessun modo. Dipendiamo da altri. Ci spetta qualcosa per il lavoro dei nostri antenati. Trattateci con compassione, e datecelo!”»

La Hurston non ha vissuto abbastanza a lungo da poter dire la sua sulle politiche di tutela delle minoranze, ma ha lasciato indizi significativi su come avrebbe reagito ai criteri di ammissione all’università basati sulla pigmentazione della pelle:

Mi sembra che se dico che un intero sistema debba essere scombussolato per farmi vincere, sto dicendo che è un gioco a cui io non posso partecipare, e che per darmi una possibilità devono essere create delle regole più blande. Rifiuto questa idea. Se ci sono altre persone, fatemi giocare e vedrò come me la cavo, anche se so che ci sarà chi trucca le carte e chi bara in altri modi.

Il corsivo è mio: sapeva che la vita non poteva essere perfetta, ma ciononostante esortava i neri a dare il meglio di sé, piuttosto di mettersi a urlare dai tetti che prima sarebbe dovuta cambiare la natura dell’uomo. Sapeva che per dimostrare le proprie capacità, le azioni contano molto più delle parole: «L’uguaglianza è in quello che si fa, non in quello che si dice. Puoi anche dirmi che sei migliore di me se vuoi, ma poi devi dimostrarmelo, così me ne rendo conto. […] Se non riesci a dimostrarmi la tua superiorità non scomodarti a fare un polverone, e almeno non ti riterrò un bullo».

Talvolta finiva per esagerare. Deridendo il concetto di race man, colui che parla e agisce in rappresentanza della propria razza, ha scritto: «Oggi il suo lavoro consiste nel correre di qua e di là alla ricerca di qualcosa per cui “risentirsi”». La Hurston era seccata da chi, come Richard Wright, si aspettava che scrivesse soltanto della miseria nera. Ma era un punto di vista un po’ superficiale nel 1938, quando erano passati solo sette anni dal processo agli Scottsboro Boys. Il disaccordo con il verdetto del caso Brown v. Board of Education – secondo lei non c’era nulla di sbagliato in un ambiente educativo riservato ai neri – nasceva dall’ignoranza delle condizioni deplorevoli di buona parte delle scuole nere del Sud.

Eppure, unendo un interesse per le storie tradizionali «più nere» con delle idee politiche non distanti da quelle di Shelby Steele, la Hurston smonta il mito del conservatore nero come bieco opportunista, che scimmiotta la destra ed è al contempo tormentato dal disprezzo per il proprio popolo. Quando entrava nei salotti, elegante e in ritardo, con il suo passo deciso e la sciarpa rossa, sfoderando sfacciata l’accento nero del Sud e deliziando il suo pubblico con elettrizzanti versioni dei racconti tradizionali che arrivavano dritti dalle bocche delle povere genti di colore, era difficile considerarla una venduta. (O una donna tormentata dall’odio per sé stessa: «Qualche volta mi sento discriminata. Ma la cosa non mi fa arrabbiare. Semplicemente, mi meraviglia. Come può una persona volersi negare il piacere della mia compagnia!»). Ha dimostrato splendidamente che la scarsa sopportazione del melodramma della politica identitaria non è in antitesi con l’amore profondo per il proprio popolo.

Oggi i suoi ammiratori non sanno bene cosa farsene di tutto ciò. «Penso che sarebbe meglio considerare Zora Neale Hurston un’artista, punto, e non l’artista/politico che ci si aspetta che siano quasi tutti gli autori neri», scrive Alice Walker. «Questo ci permetterebbe di apprezzare la complessità e la ricchezza della sua opera proprio come apprezziamo il meraviglioso fraseggio di Billie Holiday o i testi provocanti e perfetti di Bessie Smith, senza la necessità di ridicolizzare la prima per la dipendenza dall’eroina o la seconda per il troppo amore nei confronti del gin». Probabile, ma se Zora Neale Hurston avesse preferito cantare di cosa succede a un grappolo d’uva al sole [il riferimento è a «Harlem», poesia di Langston Hughes, n.d.t.], probabilmente la Walker non avrebbe avuto problemi a celebrarla come una «artista/politica».

In tanti hanno provato a circoscrivere il suo conservatorismo, definendolo un’aberrazione causata dal declino dell’ultimo decennio di vita. Carla Kaplan suggerisce che abbia virato a destra per disperazione e paranoia dopo che tre adolescenti l’avevano accusata falsamente di averli sodomizzati; fu un’accusa in cui la stampa nera si crogiolò ampiamente, anche se poi venne archiviata. Ma la Hurston aveva cominciato a scrivere cose che l’avrebbero fatta buttare fuori da un qualsiasi convegno della NAACP fin dagli anni Venti. La sua ideologia si andò precisando meglio negli anni Cinquanta, è vero, ma solo perché aveva cominciato a scrivere più saggi politici, dal momento che non riusciva più a farsi pubblicare i romanzi.

Il fatto triste è che, per quanto fosse un’artista e intellettuale acuta, la sua produzione di romanzi fu alla fine modesta e discontinua. Dei quattro che scrisse, solo I loro occhi guardavano Dio si eleva allo status di capolavoro. La Hurston si offendeva per la tendenza della critica nera a leggere Jonah’s Gourd Vine come rappresentazione di un «nero» universale più che di personaggi individuali; eppure, a conti fatti, i suoi personaggi sono degli archetipi tradizionali, che parlano per elenchi di saporite metafore in un vernacolo nero stilizzato, più che uomini e donne in carne e ossa. Anche I loro occhi guardavano Dio soffre di questo problema, in un certo senso: troppo spesso i personaggi recitano invece di parlare. Il suo utilizzo del dialetto fu un tentativo pionieristico; altri, come Alice Walker, hanno da allora seguito la sua strada ed eliminato le imperfezioni. E la Janie della Hurston è tanto un espediente narrativo quanto una persona: è difficile immaginare una sua risata, per esempio.

Legioni di scrittori sarebbero felici di produrre anche un solo libro al livello di I loro occhi guardavano Dio, non c’è dubbio, ma nel complesso la fiamma della Hurston ha brillato di più nel lavoro di documentazione delle tradizioni che ha svolto con tanta cura. La ricchezza con cui ha reso la parlata delle genti nere fu precisa come mai prima di allora, e rappresenta essa stessa una sorta di personaggio a sé. Mules and Men è uno dei suoi lavori più evocativi, e The Great Day è stato, a detta di tutti, una perla del teatro. In un’epoca in cui i letterati neri ricercavano la propria legittimazione imitando le forme artistiche dei bianchi, Zora Neale Hurston è stata un animo colto e cosmopolita che ha gioiosamente piantato le proprie radici nelle storie tradizionali dei più poveri tra quelli della sua gente. Anche solo questo fatto ha richiesto un rigoroso equilibrio, un modo di stare al contempo dentro e fuori da sé stessa, che all’epoca era sconosciuto.

Ha sfoggiato poi un’ulteriore quintessenza di sofisticazione che ancora oggi rimane difficile da afferrare: ha evitato di tradurre la lealtà al suo popolo nella politica della compassione. Abbiamo molto da imparare da quella che è – per quanto si cerchi di mantenerlo segreto – la conservatrice nera preferita d’America.

© John H. McWhorter, 2009. Tutti i diritti riservati.

[1] Questa e le altre citazioni sono tratte da Zora Neale Hurston, I loro occhi guardavano Dio, Cargo, Napoli 2009, trad. it. di Adriana Bottini. [n.d.t.]

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