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Sogni di una naufraga: Alejandra Pizarnik

redazione Poesia, Scrittura, SUR

Il 29 aprile del 1936 nasceva la poetessa e scrittrice argentina Alejandra Pizarnik, morta suicida all’età di trentasei anni. La ricordiamo con qualche frammento tratto dai suoi Diarios (Lumen).

traduzione di Giulia Zavagna

7 dicembre 1952

La mia solitudine miagola. La zittisco con promesse vaghe. Mentire, sì. Un giorno troverai questo diario e sarà vecchio, un giorno vedranno le mie foto e rideranno della moda di oggi. L’avanguardismo sarà classicismo e altri giovani ribelli ne rideranno. Ma… è possibile sopportare tutto questo? Voglio morire. Ho paura di entrare nel passato. Penso a una donna della mia età, un secolo fa. Cosa faceva per affrontare l’angoscia? Cosa?

Parigi, 1960

1° novembre
Manca la mia vita, manco alla mia vita, me ne sono andata con quel viso che non trovo, che non ricordo.

18 dicembre
Notte cruciale. Notte nella sua notte. La mia notte. La mia importanza. Me stessa. L’asfissiata ama l’assenza d’aria. Ricordi di una naufraga. Sogni di una naufraga. Cosa può sognare una naufraga se non di accarezzare le sabbie della riva.

21 dicembre
Ieri sera ho bevuto acqua fino alle tre del mattino. Ero un po’ brilla e piangevo. Mi chiedevo acqua da sola come se fossi mia madre. Mi davo da bere schifata.

23 dicembre
Il bosco era oscuro. Per questo le foglie sospese sui rami minacciavano di un color nero, non verde. «È tutto una menzogna», pensai, «perfino quello che mi dicevano del colore delle foglie». Avevo tanta paura che non sapevo se avanzare o tornare indietro.

24 dicembre
Mi sono svegliata vedendomi come un corpo privo di pelle, tutta una piaga.

31 dicembre
Quando sono entrata nella mia stanza ho avuto paura perché la luce era già accesa e la mia mano continuava a insistere finché ho detto: È già accesa. Mi sono tolta i pantaloni e sono salita sulla sedia per guardare come sono con il maglione e gli slip; ho visto il mio corpo adolescente; poi sono scesa e mi sono avvicinata di nuovo allo specchio: Ho pausa, ho detto. Ho continuato a studiare i miei lineamenti, fino ad annoiarmi. Avevo fame e voglia di rompere qualcosa. Mi sono diretta verso il tavolo e ho tentato di scrivere una poesia ma temevo di aumentare il disordine di fogli e libri. Mi mordevo le labbra e non sapevo cosa fare con le mani. Mi spaventava sapermi a girovagare per la stanza disordinata, con la bocca che si divorava e la memoria pietrificata.

Parigi, 1961

3 gennaio
Scrivimi, mi ha detto, scrivimi di te. Scrivigli fino a ingarbugliarti nei fili del linguaggio e a cadere ferita a morte.

5 gennaio
L’orrore di abitarmi, di essere – che strano – mia ospite, mia passeggera, mio luogo d’esilio.

9 gennaio
Odio il mio viso perché lo guardo attraverso i suoi occhi. Questa faccia non è stata in grado di affascinarlo. Amo.
Cosa si fa in questo mondo quando si ama così?

Parigi, 1962

22 luglio
Piccoli suicidi silenziosi. Strano essere caduta così in basso dopo tante precauzioni. Hai camminato tutta la notte a tentoni: non hai pianto; non hai guaito; non hai nemmeno respirato quanto ne avevi bisogno. Eppure ti hanno scoperta lo stesso. Come se niente fosse.

7 settembre
Questa voce ostinata sulle consonanti. Questo preoccuparsi che nessuna lettera venga omessa. Parli letteralmente. Eppure, ti si capisce male. È come se la perfetta precisione del tuo linguaggio rivelasse in ogni parola un caos che diventa più evidente man mano che ti sforzi per essere compresa.

Dicembre
E ci sarà la stessa sete, che non ha niente a che vedere con l’acqua né con la pioggia, che si sazia solo con la contemplazione di un bicchiere vuoto.
E non appena appaio tutto si fa immagine lontana che si trova in un luogo al quale accedo solo distruggendomi o crollando.
Qualcuno invoca, qualcuno evoca, qualcuno chiede penitenze, remissioni, revisione. È ora di perforarsi. Ora dell’oracolo. Qualcuno chiede tregue, limiti. A chi? Vecchia storia.
Cosa possiamo chiedere se non più sete? E tutto – dal fiume fino ai suoi occhi amati – per finire «esattamente come un cane».
Elle n’en pouvais plus d’exister. Ogni istante che passa è come se passasse a me.

«Quando morirò, chi me lo dirà?» (Ho detto questo, ma le mie parole erano come maschere solitarie che camminavano all’altezza di un viso umano in un pomeriggio di pioggia).
Eppure sapere che non ci sono soluzioni mi mette agitazione come se ci fossero. Non è colpa tua se la tua poesia parla di ciò che non è. Se parla di ciò che non è vuol dire che non è venuta come doveva. Ma perché parlo con verbi attivi come se avessi passato la sera con una spada in mano?

Parigi, 1963

2 gennaio
Non è colpa tua se la tua poesia parla di ciò che non sei.

2 febbraio
Insomma, si tratta di un problema musicale o di un fremito in quel posto al quale si riferiscono gli altri quando dicono «anima».

Buenos Aires, 1964

15 ottobre
La solitudine di ognuno. Non essere oggetto di sguardi. Guardare invece di essere guardata. Usare gli occhi. Limiti. Non scrivere, non preoccuparsi di scrivere. Non giocare a essere Flaubert. S. capisce. Quella che non capisce sono io.

19 ottobre
Non scrivo più questo diario in modo continuato. Ho paura. Tutto in me crolla. Non voglio lottare, non ho nessuno contro cui lottare. È tutto così vecchio, così esausto. Magari potessi non mentire mai.

29 maggio
Senza sapere come né quando, ecco che mi analizzo. Questa necessità di aprirsi e vedere. Presentare a parole. Parole come conduttori, come bisturi. Solo con le parole. È possibile? Usare il linguaggio per dire ciò che impedisce di vivere. Conferire alle parole la funzione principale. Le parole aprono, le parole presentano. Ciò che non dirò sarà esaminato. Il silenzio è la pelle, il silenzio copre e protegge la malattia. Parole taglienti (ma non sono parole, sono frasi e nemmeno sono frasi, sono discorsi).
L’impossibilità di forgiare simboli. Da qui, l’impossibilità di scrivere.

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