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Il giorno in cui perderò la curiosità, morirò: intervista a Daniel Divinsky

Daniel Divinsky, storico editore della casa editrice argentina De La Flor [1], si racconta a Valeria Tentoni in questa lunga intervista; ricorda gli inizi, la censura degli anni Sessanta, gli amici e l’infinita curiosità che lo ha sempre spinto a fare questo lavoro.
L’intervista è uscita sul blog di Eterna Cadencia [2], che ringraziamo.

di Valeria Tentoni
traduzione di Chiara Gualandrini

Daniel Divinsky, autentica eminenza dell’editoria argentina, apre le porte del suo appartamento. In fondo c’è un grande balcone, davanti al verde rigoglioso del quartiere a cui è affezionato, accanto all’orto botanico, vicino ai Bosques de Palermo. Sopra al tavolino da caffè che occupa il centro del salotto c’è una pila di manoscritti illuminata da un raggio di sole pomeridiano. Questo avvocato classe 1942, che ha abbandonato una professione sicura dall’oggi al domani, terrorizzato dall’idea di lasciare questo mondo un bel giorno senza aver realizzato i propri desideri, sta lavorando. Questo perlomeno lascia intuire la penna che incornicia la montagna di fogli rilegati a spirale. E Divinsky, insieme a Luisa Valenzuela, Abelardo Castillo, Pablo de Santis e Antonio Skármeta, sarà giurato della prima edizione di un premio per il racconto promosso dalla Fundación El Libro. Da tempo svincolato dalle Ediciones De La Flor – marchio che sta per compiere cinquant’anni di vita e che ha pubblicato opere come quelle di Quino, Walsh, Fontanarrosa, Caloi o Berger – in questi giorni conduce su Radio UBA il programma «Los libros hablan», in onda il lunedì.

Con un’immensa libreria affianco, dove sono stipati premi, prime edizioni e fotografie, Divinsky spiega che stava effettivamente leggendo degli inediti: «Dei quindici preselezionati, devo leggerne ancora cinque. Il problema fondamentale è che sono, in generale, molto buoni».

 

Fai radio, partecipi a fiere e incontri (non solo come espositore ma anche tra il pubblico), frequenti le librerie… Visto che sei un lettore attivo, un lettore informato, come giudichi ciò che si scrive e si pubblica in Argentina?
Credo che ciò che spinga una persona a fare l’editore sia la curiosità. Una volta un editore italiano disse che faceva questo mestiere perché si riteneva più curioso che profondo. Io non dico mai che qualcosa non mi interessa a priori. Provo per lo meno a vedere di che si tratta. Posso iniziare a leggere libri che in principio sembravano non interessarmi e li continuo fino a un certo punto, in generale non abbandono la lettura, perché spero sempre che migliori, che poi, forse, ci sarà una sorpresa o altro. In questo caso, con il lavoro del concorso, il problema è che il livello di scrittura è molto alto. In Argentina, in generale, e sto per dire una sciocchezza sciovinista, si scrive molto bene. Leggo molti autori argentini, vado in libreria e compro libri di persone che non conosco perché me li ha nominati qualcuno o perché attirano la mia attenzione. È così che alimento la mia curiosità. Il giorno in cui perderò la curiosità, morirò.

E com’è iniziata questa curiosità? Sei avvocato e hai esercitato per una decina d’anni se non sbaglio…
Sì , dieci anni… Ho esercitato finché Quino ha chiesto a me e al mio socio di cominciare a pubblicargli Mafalda, dopo una consulenza per una causa contro Jorge Álvarez, che aveva smesso di pagargli i diritti. Si è rivolto a noi perché eravamo avvocati, ma siccome eravamo amici di Álvarez non ci prendemmo carico della questione e gli consigliammo un collega molto competente e giunsero a un accordo. Fece un piano di pagamento, e quando questo terminò ci disse:«Perché non fate uscire Mafalda con De La Flor?» Ma era troppo per le dimensioni che aveva la casa editrice all’epoca. La casa editrice è stata fondata nel 1966 ed è il risultato del golpe di Onganía. L’avvocatura non mi piaceva del tutto, mi ci guadagnavo da vivere malvolentieri e mi sono iscritto a un corso post lauream alla facoltà di sociologia della UBA, che aveva aperto da poco. Era un corso con dieci materie e io ne ero affascinato, ma ci fu il golpe e l’intervento della polizia in università, quella che si ricorda come «la notte dei lunghi bastoni», e rimasi senza prospettive perché i professori con cui studiavo se andarono. Il mio socio era anche un grande amico e, vedendomi molto depresso, mi propose di aprire una libreria, vista la mia passione per i libri. Il capitale che riuscimmo a racimolare era trecento dollari, centocinquanta prestati da mio padre e centocinquanta prestati dal suo. Erano entrambi medici. La cifra non bastava per affittare un locale. Cercammo a Caballito, a Flores… ma non trovammo nulla. A quel punto, parlando con Álvarez, che era un amico e per cui avevo svolto parecchi lavori gratis, traduzioni, editing e altro; ci disse:«Perché non usate questo capitale per acquisire diritti, io metto il copyright e fondiamo una nuova casa editrice?» Aveva già creato diverse realtà parallele come Galerna e Carlos Pérez editor, di cui era socio. Be’ così è nata De La Flor.

E Quino dove lo avete conosciuto?
Era un amico, l’ho conosciuto alla libreria che Jorge Álvarez aveva con altri partner. Andavo lì per il cine club Núcleo. Ero socio, come molti miei compagni di facoltà, e ci incontravamo religiosamente ogni lunedì al Cine Dilecto, che ora non esiste più, e anche Jorge – che lavorava in una libreria giuridica chiamata Depalma – era socio di questo club. Ai colleghi di facoltà vendeva i libri a prezzo scontato. A un certo punto Jorge ha deciso di fondare la sua casa editrice, con un capitale esiguo.

E un’etichetta discografica, giusto?
Sì, ma questo è accaduto molto tempo dopo, fu la fine della casa editrice, il suo fallimento. Jorge divenne il magnaccia delle velleità letterarie dei suoi amici e tutti noi adoravamo lavorare gratis per una casa editrice, che per di più era molto indipendente, molto progressista, con un progetto grafico molto bello e che pubblicava un gran numero di esordi. Nonostante, in una fase successiva, abbia fatto uscire una discreta dose di schifezze, perlopiù economiche, bisogna ricordare che è stato l’editore dei primi libri di Ricardo Piglia, di Germán García, di Vicente Battista, di Liliana Heker… Tutta la letteratura argentina degli anni Settanta ha avuto inizio nella casa editrice di Álvarez. Molto tempo dopo creò un marchio per realizzare poster, che andò piuttosto bene, poi iniziò a produrre dischi, con l’etichetta Mandioca, che lanciò Manal e Moris. Subiva il capitalismo selvaggio della discografia e cominciò a prendere soldi dalla casa editrice per sopperire alle perdite dell’etichetta discografica, e così iniziò il tracollo. Smise di pagare gli autori, che sono il capitale della casa editrice, il capitale di una casa editrice non sono i libri in magazzino.

Daniel DivinskyFu allora che Quino le propose il suo progetto?
Certo, ma un conto era pubblicare l’opera poetica di Tennessee Williams, stamparne duemila copie da vendere in tre anni, e un altro era Quino.

Duemila copie di un volume di poesia?
Duemila copie di un volume di poesia. E di narrativa tremila. In quel momento la tiratura minima era tremila copie. Quando vedo tirature da ottocento volumi mi chiedo come facciamo questi editori a sopravvivere. All’epoca la composizione tipografica era a piombo, il tipografo conservava le lastre per un tempo limitato e ti imputava un costo per conservarle, nel caso si decidesse di fare una ristampa, altrimenti le fondeva. Il costo fisso era così alto che il preventivo della tipografia equivaleva a tremila copie e mille aggiuntive. A volte di un libro di poesia se ne stampavano duemila. E si vendevano, cara. Non voglio fare l’anziano nostalgico, ma si vendevano. È evidente che le cifre sono cambiate. Sono cambiate radicalmente: primo, perché è aumentata l’offerta, e secondo perché sono aumentate le modalità disponibili.

E quali sono stati i primi libri?
Due antologie; una curata col mio socio e con la consulenza di Horacio Achával, un vecchio editore che lavorava al Centro Editor de América Latina, un tipo molto saggio. Si chiamava (il titolo lo decise David Viñas) Buenos Aires, de la fundación a la angustia. Erano testi ambientati in differenti epoche storiche della città, dal censimento del 1904, che teneva il conto della quantità di cretini che c’erano, fino a un racconto di Cortázar. A Viñas chiedemmo di scrivere anche un racconto, pagandolo la tariffa media dell’epoca: cento pesos. Ne scrisse uno dal titolo «Buenos Aires, primera capital socialista de América Latina». Era assurdo, con la folla in marcia verso l’obelisco che cantava canzoni di Tejada Gómez… è stato l’unico testo umoristico che ha scritto in vita sua.

Lo avete ristampato?
No. Ci sono voluti cinque anni per terminare le scorte, è stato un disastro. Quando dovevamo decidere la tiratura pensavamo che con nomi di quel calibro – Cortázar, e anche Walsh ci aveva dato un racconto – se ne vendesse una quantità esagerata, e ne stampammo diecimila copie. Il ragionamento sarebbe stato giusto per una casa editrice riconosciuta, con una buona distribuzione, presente in libreria, ma non per una appena nata. Ne vendemmo circa tremila, ma ne avanzavano settemila. Le abbiamo vendute fino a qualche anno fa alla Fiera del libro, a un peso l’una.

E dove le avete tenute per tutto questo tempo?
In diversi magazzini. Il magazzino itinerante della casa editrice ha avuto molte destinazioni. C’era una scuola elementare dove lavorava una mia zia a cui avanzava posto in una stanza, e soprattutto il magazzino di una fabbrica che produceva freni ad Avellaneda… I libri non si svendono mai, questo era uno dei principi che aveva la casa editrice, e spero che lo mantenga, non svendere mai i libri. Al massimo venderli a prezzo scontato in fiera, ma mai venderne uno stock a un grossista. Una delle rare occasioni in cui lo abbiamo fatto per poco non siamo stati arrestati, avevamo pubblicato il romanzo di un brasiliano intitolato Orilla de los recuerdos. Me lo aveva consigliato Bernardo Kordon, era un romanzo molto realista, ma molto ingenuo, su un giovane e la sua iniziazione sessuale con l’insegnante di piano. Vendette poco e arrivò un grossista che comprò tutte le copie rimanenti, le mise in vendita nei chioschi con una fascetta con scritto «Un gioiello della letteratura erotica», che, all’epoca della polizia morale, era come metterci insegna luminosa sopra. In Florida sequestrarono tutte le copie e la causa finì in un tribunale correzionale. Mi processarono per pubblicazioni oscene, ma mi capitò un giudice che era anche il proprietario una galleria d’arte. Testimoniai e presentai il ritaglio di una recensione del quotidiano La Prensa dove si diceva che il libro era un po’ forte ma che era letterariamente brillante, e con questa argomentazione il giudice sentenziò che era evidente si trattasse di un’opera letteraria e non rientrava nei casi classificati osceni dal Codice penale.

Daniel DivinskyOltre a Orilla de los recuerdos, e a Cinco dedos, quali libri hanno avuto problemi di censura?
Be’, Cinco dedos è sicuramente quello che mi ha creato maggiori problemi! Erano semplicemente cinque dita di una mano verde che inseguivano un’altra mano rossa e incontravano separatamente ogni dito e lo maltrattavano, lo insultavano, lo perseguitavano, finché le cinque dita della mano rossa scoprivano che unite formavano un bel pugno, si difendevano e così terminava il libro. La moglie di un colonnello della guarnigione di Neunquén lo comprò per i suoi figli, ma siccome il pugno era rosso, ed era un chiaro simbolo di socialismo, quando il marito lo vide in casa le disse:«Cosa compri a questi bambini!» e lo portò ai suoi superiori, che lo mandarono alla SIDE (Secretaría de Inteligencia del Estado) e poi venne proclamato il decreto di censura del libro. E io, che come un imbecille mi ero già schierato contro la censura di un romanzo molti anni prima, feci ricorso, ma poi ci fu il decreto del Potere esecutivo e ci arrestarono.

Questo quando è accaduto?
La casa editrice è stata fondata nel 1967 e questo è accaduto nel 1977.

Cosa facevi in carcere? Potevi leggere?
Sì, ho letto moltissimo. Sono stato arrestato insieme a Kuki Miler, che in quel momento era mia moglie e la mia socia, e ho trascorso la detenzione in una cella della Coordinación Federal a calle Moreno. Era una cella abbastanza grande, c’era un bagno e ci era stato permesso di portare prodotti per la pulizia e pulirla. I nostri familiari ci portavano il pranzo, nel periodo che abbiamo trascorso lì ci avevano portato uno scaldavivande o qualcosa del genere. Era stato un luogo di tortura e detenzione, ma lo avevano ripulito, e in quel periodo c’erano già prigionieri «legali». Giocavamo a carte con gli anziani, e sì, leggevo moltissimo, i miei genitori, i miei amici o i miei soci mi portavano i libri. Preparavamo il caffè, facevamo colazione, e la sera arrivava chi aveva il permesso di uscire durante il giorno, generalmente ragazze. Qualche volta la mia ex moglie gli offriva il caffè e una di loro che le ha chiesto:«Perché siete qui?» Erano passati più di due mesi, siamo stati rilasciati solo perché arrestarono alcuni scioperanti della compagnia telefonica, il primo sindacato a organizzare una protesta contro la dittatura. Mi misero nel braccio dei prigionieri politici e alla fine uno degli ufficiali mi chiamò e mi disse:«Guardi, ha due possibilità: rimanere qui, dove non sarà piacevole e dovrà dividere i suoi biscottini e tutto il resto; oppure finire in isolamento. Ci saranno guardie che le lasceranno la porta aperta e guardie che la chiuderanno dentro, ma è più tranquillo». Scelsi la seconda opzione, la cella d’isolamento. Lì era imprigionato anche un ex giudice, i carcerati lo avrebbero ucciso se fosse stato portato al Devoto, e mi passava del cibo dalla finestrella.

Tutto questo lo hai appuntato sui tuoi diari, hai testimonianze scritte di quel periodo?
Ho ore e ore di registrazioni con Silvina Friera, sbobinate e corrette per scriverci un memoir. Comincerò a lavorarci da marzo.

Come è stato ottenuto il vostro rilascio, e l’esilio in Venezuela?
Ci fu una dura protesta degli editori stranieri, perché quelli argentini avevano ragioni sufficienti per non farlo. Anche fra gli scrittori presenti alla Fiera del libro del 1977 circolò una petizione molto moderata che domandava chiarimenti sulla nostra situazione, e su quella di altri, ma nessuno si arrischiò a firmarla. Cominciarono a firmarla solo quando lo fecero Silvina Ocampo e Bioy Casares. Alla fine, intervenne un imprenditore francese che doveva firmare un accordo con la Giunta militare per riprendere i Mondiali del ’78. Ero diventato molto amico di una ragazza francese, figlia di un editore, che aveva raccontato al padre – un’eminenza nella società francese – il problema. Fu lui a organizzare il piano con quest’uomo della televisione francese, in passato editore, che doveva venire a Buenos Aires e firmare l’accordo per i Mondiali solo se fossimo stati rilasciati. È stato qualcuno all’Ambasciata francese a notare cosa stesse accadendo, e gli risposero che non avevano ragioni sufficienti per tenerci ancora rinchiusi e ci avrebbero rilasciato. Il tipo ripartì portando con sé l’accordo e quando lo chiamarono dall’Ambasciata per avvisarlo che eravamo stati liberati, lo rispedì firmato.

Torno indietro: quando eri un avvocato chi erano i tuoi clienti?
Le tre P del giovane avvocato: puttane, parenti e poveri.

Ma non ti è mai piaciuto, vero?
No, mi sono immatricolato a Giurisprudenza il giorno che volevo iscrivermi a Ingegneria, poi ho guardato il piano di studi e mi sono detto: «Che ci faccio qui!» La verità è che volevo studiare Lettere ma mio padre mi diceva: «Lettere non ti darà da mangiare! Noi non siamo ricchi». Quindi ho scelto per esclusione, Giurisprudenza.

Quando hai cominciato a leggere?
A sei anni frequentavo la prima elementare e ho contratto la nefrite, una malattia che prevede riposo obbligatorio. Avevo delle zie che facevano le maestre, mi hanno insegnato a leggere in quei giorni.

Ti ricordi quali sono stati i primi libri?
Certo, Upa, i libri di Constancio Vigil, Juancito en Diverlandia… E poi ce n’era un altro che si intitolava Cómo divertirse en un día de lluvia.

Sei entrato a Legge a soli quindici anni, è possibile?
Purtroppo sì.

Com’è possibile?
Perché era usanza fare gli esami da privatisti. Alle elementari feci l’ultimo anno da privatista. E cominciai le superiori, feci il primo e il secondo anno e molti amici a cui ero affezionato diedero il terzo da privatisiti e io mi ritrovai solo, e mi mancavano, così anche io feci il quarto da privatista e ci ritrovammo al quinto. In pratica ho fatto due anni da privatista. In quel momento era abbastanza frequente. È un’idiozia, ma era abbastanza frequente. In facoltà ero un ragazzino. Presi la laurea magistrale a vent’anni, un’assurdità. In quel momento l’età media dei laureandi in Giurisprudenza era ventidue anni, perciò potevo esercitare il mandato ma non la procura. Doveva firmare tutto un altro avvocato amico.

Ricordi il giorno che hai lasciato la professione?
Sì, benissimo. È un giorno che ho ben impresso nella mente. Nel 1973 alcuni zii erano proprietari di un negozio nel quartiere Once. Un locale grande, erano tre fratelli, e decisero di metterlo in affitto, e mi toccò preparare il contratto di locazione. Stavo stendendo il contratto attento a non sbagliarmi, e un giorno, tornando allo studio, (la casa editrice esisteva già) sentì un’improvvisa debolezza, sintomo di uno svenimento. E mi dissi:«Sì, vai, devo morire proprio ora che sto pensando di lasciare la professione?» Decisi di smettere quel giorno stesso. Avevamo già iniziato a pubblicare Mafalda, quindi la casa editrice aveva delle entrate, e durante quella settimana informai mia moglie, a cui sembrava una buona idea perché era stanca di sopportare la mia depressione della domenica sera se il lunedì dovevo andare in tribunale. Informai il mio socio, era d’accordo. E sì, questo è accaduto nel maggio del 1973. Il 25 maggio eravamo in piazza, a gridare se van, se van y nunca volverán, e il 28 maggio io, Quino e sua moglie Alicia partimmo per l’Isola di Pasqua, Tahiti, Honolulu e le Hawai. Tornammo a luglio, due o tre giorni dopo la caduta di Cámpora.

Un’altra attività a cui ti sei dedicato, e a cui continui a dedicarti, è il giornalismo. Quando hai iniziato?
In un certo senso ho iniziato all’università, perché pubblicavano una rivista chiamata Lecciones y ensayos e ne affidavano la direzione agli studenti più meritevoli; per un periodo fui incaricato io di dirigerla. Assunsi la carica quando morì Macedonio Fernández, anche lui avvocato, e il primissimo articolo che scrissi fu il suo necrologio.

Anche Fernández odiava la sua professione, giusto?
Totalmente.

Hai raccontato del viaggio con Quino, a cui sei molto affezionato, hai uno stretto legame con molti autori che ha pubblicato…
Con Quino, con Fontanarrosa… Sì.

Quale tipo di relazione editore-scrittore credi sia più produttiva?
Non ce n’è una sola, ogni relazione è diversa. Mio padre faceva il medico, una volta in un laboratorio gli regalarono una serie di incisioni corredate da foto, una diceva Quando la malattia affligge, il medico è Dio, quando il paziente migliora, il medico è un angelo, quando presenta la parcella, il medico è il diavolo. Be’, è un po’ la stessa relazione che c’è fra l’editore e un’aspirante scrittore che ti presenta un originale, un inedito, quando lo pubblichi e quando non riesci a venderlo, per esempio.

C’è una componente aleatoria nella fortuna di un libro, come si gestisce?
Senza dubbio. Anche per i grandi gruppi che fanno ricerche di mercato. Il segreto è pubblicare una serie di titoli validi ma che sono più sicuri, per quanto possano esserlo, e con questi ripagare gli altri. Mi spiego meglio: Mafalda, Fontanarrosa e ovviamente Nik hanno permesso di realizzare un gran numero di libri di grande valore che non hanno venduto bene nel breve periodo, ma che poi si sono ripresi. Grapefruit, di Yoko Ono, che ora ripubblica il MALBA (Museo de Arte Latinoamericano de Buenos Aires) in occasione della mostra, non ha fatto neppure mezza copia quando lo pubblicammo.

Fra i libri che sono rimasti più tempo in giacenza, in deposito, e hanno avuto un successo tardivo, o nessun successo, quali sono i tuoi preferiti?
Uno è El traductor, di Salvador Benesdra, che è stato ripubblicato da Eterna Cadencia. Me lo aveva consigliato Elvio Gandolfo. I libri di Berger, che ho sempre adorato, non furono né un successo né un disastro… Conductores suicidas, di Alejo Garcia Valdearena. E sicuramente me ne sto dimenticando altri.

Come scegli i libri? Perché suppongo che continui a pensare da editore…
Ora quando un libro mi piace lo consiglio a qualche collega. Ma solo perché mi piace, non per altro. Apprezzo l’originalità, divertirmi se è spiritoso, e più di ogni altra cosa il linguaggio; non è imprescindibile che mi debba raccontare una storia. Di poesia prima ne leggevo molta, ora molto poca.

Cosa pensi del panorama editoriale argentino?
Be’, si sono consolidate tutte le realtà comparse prima e dopo la crisi del 2002, perché non sono «bonsai», come ha detto all’epoca uno spagnolo; non sono piccolette e decorative e destinate a non crescere, come sembrava. Molte sono cresciute notevolmente, e il vantaggio è che la domanda è così polimorfa da permettere una diversità interessante. Ogni giorno mi imbatto in una nuova casa editrice!

Una caratteristica particolare della De La Flor, che esiste da molti anni…
Ne fa cinquanta quest’anno!

…è che non ha mai cambiato proprietari. In questo momento c’è un fenomeno di agglomerazione, di acquisizione da parte dei grandi marchi delle realtà più piccole, cosa ne pensi?
A noi è capitato negli anni Novanta: abbiamo avuto due proposte di acquisizione, ma non ci interessavano. Il punto non era la virtù, o il voler rimanere vergini, semplicemente non ci interessavano. Dal momento che autori come Quino e Fontanarrosa rimanevano leali alla casa editrice, che non era molto grande ma che pagava regolarmente, non ce n’era bisogno. Non ci sono stati problemi finanziari nemmeno nell’anno peggiore, il 2002, non se ne andò nessuno. Non se ne andò nessuno nemmeno quando finimmo in prigione e la casa editrice era operativa mezza giornata, per tutta la durata della nostra reclusione continuò a funzionare.

E gli autori, oltre a pagarli, li avete seguiti, vero? Un autore può scrivere un libro forte e un libro debole, come ci si comporta in questi casi?
Non proprio, anzi uno degli errori che abbiamo commesso è stato non avere una politica autoriale. Di molti narratori abbiamo pubblicato il primo o il secondo libro e non è successo niente, poi non abbiamo continuato a pubblicarli. E così abbiamo pubblicato, ad esempio, il primo romanzo di Pablo de Santis, il secondo di Caparrós e il primo de Guebel, e non i successivi; scrittori che poi hanno fatto carriera. Non c’era una politica autoriale come la può avere Herralde ad Anagrama, purtroppo.

Ti sei pentito di averli lasciati andare?
Eh, mi sarebbe piaciuto continuare a seguirli. Credo che all’epoca vinse la prudenza, nel senso che la casa editrice deve mantenere un certo equilibrio fra entrate e uscite. Ma abbiamo evitato di fare troppe scommesse. Sì, con i fumetti, ma quella era allora la nostra nicchia di mercato.

Siete stati la prima casa editrice a pubblicare questo tipo di libri, o sbaglio?
Sì, poi l’hanno fatto in molti.

Come avete individuato questa nicchia? Il primo libro è stato quello di Quino?
No, no. Il primo libro è stato quello di Fontanarrosa. Ma fondamentalmente successe perché, anche se al liceo ero un ottimo studente, venni selezionato per disegno, e frequentai un’accademia d’arte, l’Academia Atenas, per imparare il carboncino. Annaspai, ma ce la feci. Per questo provo una grande ammirazione per gli illustratori, fin da quando ero ragazzo.

Perché secondo te i fumetti e i graphic novel vendono tanto?
Penso che abbia a che vedere con il culto dell’immagine. Si leggono più facilmente, più rapidamente.

Stavo guardando la tua libreria, che editori ti piacciono?
Anagrama, principalmente. Salamandra. Del Zorzal, Cuenco de Plata. Eterna Cadencia. Interzona.

Presumo che tu abbia accumulato una quantità di libri infinita… li scarti? Fai pulizia?
No… scarto i doppioni. Quando ho dovuto separarmi da parte della mia biblioteca, che è rimasta nella mia vecchia casa e non ho mai recuperato, mi sono sentito menomato.

C’è qualche libro che ti manca particolarmente?
Soprattutto quelli autografati, prime edizioni.

E fare l’editor?
No. Per niente. Ho già dato. Fine. Comunque leggo gli inediti per il concorso con la penna in mano e quando ci sono errori molto gravi li correggo, come se stessi lavorando su un testo da pubblicare.

Hai vissuto l’epoca in cui il libro si vendeva a prezzi popolari, ora il prezzo è aumentato…
Perché le tirature sono più basse, è ovvio che il libro diventa più caro se le tirature sono più basse.

L’avvento del libro digitale, ti ha mai preoccupato?
No. So che esiste, e non mi sembra male, ma avrà un destino meno promettente di quanto poteva sembrare all’inizio. Come i CD-ROM, nel 2000 al Congresso degli editori qualcuno disse: «Perché continuate a fare libri se ora abbiamo i CD-ROM?» E il CD-ROM non è durato che un sospiro.

Perché secondo te il libro sopravvive?
Qualcosa avrà pur fatto.

 

© Valeria Tentoni, 2017. Tutti i diritti riservati.