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Cacciatore di parole

Juan Villoro Octavio Paz, SUR

Concludiamo la serie di approfondimenti dedicati a Octavio Paz nel centenario dalla nascita con quest’intervento dello scrittore messicano Juan Villoro, che ringraziamo. L’articolo è uscito su El País il 22 marzo scorso.

“Octavio Paz: l’intellettuale totale e il chiarimento del linguaggio”
di Juan Villoro

Traduzione di Giulia Zavagna

Borges fu capace di creare l’impressione di aver letto tutti i libri e visitato tutte le biblioteche. La sua erudizione sembrava così assoluta che, nel suo caso, l’oblio era una forma di vicinanza e di spontaneità. Poco importa sapere se le sue allusioni si basavano su conoscenze reali. La sua destrezza letteraria ci fece sentire che era così. La cosa singolare è che quell’intricato universo dipendeva da certezze e passioni quotidiane. Nel suo ultimo racconto, «La memoria di Shakespeare», il protagonista eredita i ricordi del tumultuoso autore inglese e scopre, per sua grande sorpresa, che sono comuni, pari a quelli di tutti gli altri uomini. Già Beatriz Sarlo segnalò che il Borges metafisico, tanto discusso, si sostiene nel Borges dei sobborghi, meno apprezzato.

Qualcosa di simile succede con Octavio Paz. La ricchezza del suo pensiero dà l’impressione che si sia occupato solo di tematiche complesse, fondamentali, altamente sofisticate. L’inventario dei suoi interessi include le lotte sociali del xx secolo, i presocratici, l’arte tantrica, Suor Juana e il Siglo de Oro, Marcel Duchamp, il mito mesoamericano, lo strutturalismo, le avanguardie, il Partito Rivoluzionario Internazionale, l’erotismo, le droghe, gli haiku e l’espressionismo astratto. In libri come Blanco e Versante est la sua poesia acquisisce un’elevata tenore intellettuale: versi che sono idee. Secondo Alejandro Rossi, fu «un innamorato della modernità». Non rifiutò la sperimentazione né il dialogo con altre discipline. Enciclopedico e torrenziale, sembrava dedicarsi all’eccesso di costruire la civilizzazione di un solo uomo.

È facile percepire l’originalità di Borges nell’approcciare la letteratura fantastica come un ramo della filosofia. Più complicato risulta avvertire in quell’approccio l’eco delle sue incursioni nei sobborghi. L’immaginazione è come la memoria di Shakespeare: il suo lontano fulgore dipende da una scintilla che passa inavvertita perché è troppo vicina e che sorge dalle asperità quotidiane. La galassia di interessi paziani deriva da un unico stimolo: il linguaggio, che ascoltò con fervore critico.

Da bambino ascoltò suo nonno, l’editore e politico liberale Ireneo Paz, e si avvicinò ai rumori della piazza di Mixcoac, dove si mescolavano i fedeli diretti in chiesa, i venditori ambulanti e i fautori della Rivoluzione. Durante la guerra civile spagnola fu testimone di una scaramuccia che diventò ai suoi occhi una lezione di alterità: perfino il nemico ha voce umana. Non è casuale che si interessasse di antropologia, dai Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss a Gli insegnamenti di don Juan, di Carlos Castaneda.

Cacciatore di parole, ammirò la libertà del surrealismo, ma, come Buñuel nei Figli della violenza, volle restituirlo a una realtà controllata dall’inconscio.

Il suo principale strumento fu il linguaggio di tutti i giorni. Non è casuale che alcuni dei suoi titoli provengano da proverbi o frasi fatte: Las peras del olmo, Libertà sulla parola, Aquila o sole? (la versione messicana di «testa o croce?»). Il suo maggior successo da questo punto di vista fu trasformare un termine da elettricisti in un’opzione intellettuale: Corrente alternata.

Nel 1943 scrisse eloquenti articoli sul linguaggio popolare messicano. Si occupò in quel caso del vacilón, un modo di scherzare molto messicano: «Il vacilón è una specie di punta aguzza che sgonfia palloncini pubblici e privati. È un’avvertenza contro vanterie e sbruffonate, contro atteggiamenti eccessivi o patetici». Dedicò un altro testo al ninguneo – esercizio vernacolo che consiste nel trasformare gli altri in ombre – e anticipò alcune delle riflessioni che nel Labirinto della solitudine avrebbe dedicato alla chingada: «I messicani, invece dare alla propria madre della prostituta, la rimpiazzano con qualcos’altro: il nulla».

Un articolo di cronaca nera attirò la sua attenzione: il suicida Juan Camacho era morto esclamando «che veleno saporito!». Questo lo portò a una riflessione sui piaceri della morte, nello stesso modo in cui l’usanza di vestir pulgas[1] lo portò a considerare che solo un paese con vulcani immensi poteva ammirare tanto le miniature.

Spesso, rinnovò il suo linguaggio con formule della tradizione popolare, celebrando le «fantasie e deliri verbali dei messicani». Non è casuale che scrisse nel prologo a Nueva picardía mexicana, di Armando Jiménez: «Qui sì che il linguaggio è in movimento, le parole sono in continua rotazione, il senso e il suono danno vita a insoliti giochi, la lingua è in perpetua metamorfosi».

Alcuni dei suoi migliori testi rappresentano un gioco di alternanza tra il colto e il popolare. Nella poesia «Las palabras», scrive: «Dales la vuelta, / cógelas del rabo (chillen, putas), / azótalas, / dales azúcar en la boca a las rejegas […] Házlas, poeta / haz que se traguen todas sus palabras».

La stessa idea prende vita in altri testi: «Esta vez te vacío la panza, te tuerzo, te retuerzo, te volteo y volticabejeo, te arranco el pito, te hundo el esternón, Brocabroncabrón. Doña Campamocha se come en escamocho el miembro mocho de don Campamocho». Affronto, riso, caos: poesia di Octavio Paz.

La sua vasta opera fu, tra le altre cose, un chiarimento del linguaggio. La profondità e varietà delle sue idee fecero sì che a volte fosse percepito come un autore d’élite, di esclusivo interesse per un circolo di selezionati specialisti, uno speculatore alieno al flusso della vita. Niente di più falso. Solo una persona aperta ai misteri della semplicità avrebbe potuto scrivere questo ritratto di Miguel Hernández: «Lo conobbi mentre cantava canzoni popolari spagnole, nel 1937. Aveva una voce da basso, un po’ grezza, un po’ da animale innocente: sapeva di campagna, di eco grave che si ripete nelle valli, di pietra che cade in un precipizio».

Paz seppe ascoltare la caduta delle pietre, le voci slegate, la burrasca del quotidiano. Nel suo discorso di accettazione del Premio Nobel fece riferimento al vigore del mondo indigeno: «Ci parla nel linguaggio cifrato dei miti, delle leggende, delle forme di convivenza, delle arti popolari, dei costumi. Essere uno scrittore messicano significa ascoltare ciò che ci dice quel presente – quella presenza. Ascoltarla, parlarla, decifrarla: dirla».

Il suo principale gesto poetico fu quello di intrappolare l’istante come un bagliore carico di un altro tempo. Viviamo con facilità nel ricordo del passato o nell’anticipazione del futuro. Dov’è il presente? Octavio Paz cercò proprio quello schivo momento. Nel suo anniversario, la lingua compie cent’anni di presente.


[1] Letteralmente «vestire le pulci»: reale usanza messicana che prevedeve di vestire gli insetti disseccati con abiti minuscoli, fatti a mano, per creare piccole scene, spesso di coppia. [n.d.t.]

 

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