Un uomo coerente con la sua leggenda

Raul Schenardi Autori, Juan Carlos Onetti, Recensioni, SUR

Introduciamo un altro prossimo autore SUR, Juan Carlos Onetti, attraverso la recensione al suo La vita breve pubblicata da Stefano Gallerani su Alias.

di Stefano Gallerani

Un uomo coerente con la sua leggenda. Così Hector Bianciotti ritraeva, nel 1987, Juan Carlos Onetti: «un solitario tanto poco incline a parlare di sé quanto indifferente alle discussioni suscitate dai suoi libri». Non stupisce, perciò, che sette anni prima, in occasione del conferimento del premio Cervantes – la massima onorificenza per uno scrittore di lingua spagnola –, al banchetto di festeggiamento mancasse un solo invitato: il celebrato; ovvero proprio lui, lo scrittore nato nel 1909 a Montevideo – come i “francesi” Laforgue, Lautréamont e Supervielle – e morto ottantacinquenne a Madrid, dove si era trasferito nel 1975, dopo aver conosciuto le galere uruguayane per aver sostenuto un racconto considerato sedizioso dal governo militare del nemico giurato dei Tupamaros, il colorado Juan Maria Bordaberry (proprio quest’anno condannato a trent’anni di carcere per il golpe con cui aveva sciolto il parlamento, bandito i partiti di sinistra e soppresso le libertà civili). Ma se tralasciamo il tentativo fallito di unirsi ai repubblicani durante la Guerra Civile spagnola, la storia politica di Onetti comincia in Argentina e coincide in parte con il suo vero esordio letterario, quel Per questa notte che annunciava la vittoria di Perón e celebrava in termini assoluti «la storia dell’uomo perseguitato, incalzato, la storia dell’accanimento del forte contro il debole. Una storia che cominciò prima ancora del martirio di Gesù, che continua, che continuerà. Questo romanzo fu scritto – proseguiva Onetti nel prologo all’edizione italiana del libro, da Feltrinelli nel ’74 – per la necessità, soddisfatta in modo meschino e non compromettente, di partecipare a dolori, angosce ed eroismi altrui. È perciò un cinico tentativo di liberazione». E sempre in Argentina prende avvio anche La vita breve, il romanzo più noto dell’autore uruguayano, che oggi Einaudi ripropone nella stessa versione di Enrico Cicogna che Feltrinelli licenziò dapprima nel 1970 e poi nel 1982 – (“Letture”, pp. 361, € 22,00) – accompagnata da uno scritto del Nobel Vargas Llosa. In Argentina ma non solo, perché ne La vida breve fa la sua comparsa, per la prima volta nella narrativa onettiana, la città di Santa María, che sarà per lui come e di più che la Comala del messicano Juan Rulfo o la Macondo del colombiano Garcia Márquez.

Il “come” non sfugge a Vargas Llosa, che riconosce in Santa María, allo stesso modo di queste e sulla falsariga del modello originario, ovvero l’impronunciabile contea di Yoknapatawpha in Faulkner, la trasfigurazione immaginaria di un’idea umana e sociale: «un mondo letterario proprio» che fa dello scrittore un moderno demiurgo. Il “di più” è solo – o soprattutto – Angelo Morino a sottolinearlo. Nella nota che accompagnava la raccolta di racconti Triste come lei (sempre per Einaudi, 1981), poi confluita, leggermente rivista, tra i  saggi Cose d’America (Sellerio, 1995), l’autore di Rosso taranta analizza la specificità della scrittura e dell’architettura de La vita breve, la sua peculiare originalità. Ragionando per rami, nel romanzo si dipartono almeno tre percorsi: il primo ha come protagonista il prototipo della narrativa onettiana, un personaggio grigio, un fallito represso e tutto compreso nella sua psicologia insoddisfatta. Di professione pubblicitario, Juan María Brausen – questo il suo nome – non trova altro modo per esorcizzare i propri fantasmi professionali e coniugali che salvarsi nelle pieghe di una sceneggiatura abortita. Il secondo piano si muove, dunque, sull’asse classico della finzione, della creazione letteraria di un universo parallelo e alternativo a quello reale. Questo universo si chiama, appunto, Santa María, dove l’alter ego di Brausen, Díaz Grey, finisce per trovarsi implicato, inseguendo le fantasie meridiane che popolano il suo gabinetto di medico condotto, in una trama oscura persino al suo ideatore. Le voci si confondono, le atmosfere si rarefanno viepiù, ma la ricorrenza dei nomi permetterebbe ancora di tenere distinto il pianeta vissuto da quello ideato non fosse che, presto, un terzo piano taglia, obliquo, quelli che lo precedono, rovesciandone prospettiva e campo. Di nuovo compare un “doppio” di Brausen – che a sua volta non si fatica a riconoscere come positivo del negativo Onetti il quale, ricorda Hortensia Campanella, curatrice delle sue Obras completas, per due anni, dal ’48 al ’50, ogni venerdì «si rinchiudeva nella sua stanza e ci rimaneva fino al lunedì, dedicandosi esclusivamente a scrivere il libro»; di nuovo ci troviamo di fronte a una controfigura dello scrittore, ma stavolta la scena non è quella che prende vita sulla pagina ma la stessa che dà l’avvio alla storia, un torrido settembre del ’40 a Buenos Aires. Sempre più isolato nei suoi pensieri, approfittando dell’assenza della moglie Gertrudis, Brausen irrompe nella vita della vicina di casa, la  prostituta Queca, sotto le mentite spoglie di Arce, diametralmente l’opposto del mediocre impiegato che è Juan María. Come per Cervantes o Flaubert, realtà e finzione sconfinano l’una nell’altra, ma una verità di grado superiore, quella ormai assurta a unica dimensione possibile, e perciò reale, svela, al di là della forma – un periodare complesso e viscerale – e della costruzione – brevi capitoli evocati per suggestioni e atmosfere – il senso di un titolo e di un’intera esistenza: la vita breve non è solo quella di una canzone che Brausen ascolta in un locale con il collega Stein, ma il senso di una contraddizione insanabile: «Nel frattempo noi siamo qui. La vita non è finita, ci sono delle possibilità di dimenticanza, possiamo riconoscere l’odore dell’aria nelle mattine, possiamo passare in rivista la giornata, addormentarci ignorando i precedenti di ogni ricordo e sorridere quando ci svegliamo, separati da poco dalla felicità dell’assurdo». Con La vita breve Onetti si spinge oltre Borges e Camus superando l’enunciazione con la pratica, ad un’altezza che oggi fa impallidire i distillatori di confezioni meta-romanzesche o auto-finzionali (dall’ultimo Easton Ellis al corrivo Houellebecq). Santa María tornerà nei suoi romanzi e racconti successivi consegnandoci, in uno scambio quasi metafisico, una nuova immagine del tiepido Brausen, dapprima padre fondatore della città, infine vera e propria divinità, a certificare la natura mitopoietica dell’attività letteraria. Come per Malcolm Lowry, dal momento che la sua voce si affina, insieme agli strumenti che brevetta, Juan Carlos Onetti sembra risalire nel tempo fino ad instaurarsi in un iperuranio a-storico e a-geografico che prende il nome, di volta in volta, di un nuovo romanzo, di un nuovo e sempre uguale mondo: Per una tomba senza nome (1959), Il cantiere (1961) o Raccattacadaveri (1969). Scegliere il capolavoro diventa un esercizio ozioso, almeno fino a quando, nel 1979, con Dejemos ablar al viento, una distruzione – come il “giudizio universale” di Via Keplero in Gadda o l’esplosione finale de La coscienza di Zeno, di Svevo – non lascia emergere la struttura inconscia dell’intera opera onettiana. «Dinanzi all’incendio conclusivo, nel divampare di Santa María – scrive Morino – condannata a scomparire è forse possibile intuire che cosa ha spinto Onetti a creare – attraverso Brausen – una città di vite brevi quanto dolenti. Forse, Santa María è stata creata solo perché fosse possibile distruggere il mondo della realtà quotidiana. Almeno nei romanzi, è possibile far emergere un ribelle desideroso di porre fine alle ingiustizie dell’ordine di Dio».

 

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