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Fuori dal gioco e il caso Padilla

redazione Poesia, SUR

Pubblichiamo oggi alcune poesie del cubano Heberto Padilla (1932-2000) precedute da una breve introduzione di Gordiano Lupi, che ringraziamo, sul cui sito è possibile leggere l’intera raccolta da cui sono tratte, «Fuera del juego», del 1968.

di Gordiano Lupi

Fuori dal gioco è un libro che mi sembra così lontano e irreale, pare scritto in un’altra lingua, in un altro mondo, ma è il mio segno distintivo, la mia cifra artistica, quasi il mio onore. Non è un libro, è un simbolo di misteriosa lealtà fuori dal tempo, una serie di liriche che mi commuove rivedere dopo tanti anni. Sono contento che possano venire lette dai cubani di un’altra generazione”, scrive Heberto Padilla nel 1998, due anni prima di morire. Fuori dal gioco vince il Premio UNEAC, Julian Del Casal, 1968. I giurati sono: J.M. Cohen, César Calvo, José Lezama Lima, José Z. Tallet e Manuel Díaz Martinez. La motivazione prende in considerazione le qualità formali e il valore espressivo delle liriche che manifestano una raggiunta maturità poetica. I giurati affermano che il libro ha valore anche per la sua natura di opera critica, polemica, non apologetica, pure se vincolata alle idee rivoluzionarie. Il libro presenta uno sguardo profondo sui problemi del mondo contemporaneo (il Viet Nam, la paura di un’esplosione nucleare, i problemi dell’uomo nel cammino della storia…). Padilla – secondo i giurati – è a fianco della Rivoluzione, veste gli abiti essenziali del poeta e del rivoluzionario, come un anticonformista che vuole andare oltre la realtà contemporanea. Non è facile dire quanto questa motivazione sia reale e quanto diplomatica, forse viene pensata così per premiare un’opera critica. Lezama Lima, scrittore non molto vicino a Fidel Castro, presiede la giuria e c’è da credere che abbia fatto il possibile per premiare un lavoro controcorrente.

Heberto Padilla fa appena in tempo a licenziare un’edizione commemorativa di Fuera del juego nel 1998 (Edicion Universales, Miami), perché muore due anni dopo per arresto cardiaco in un hotel dell’Alabama. Nel libro antepone una sentita introduzione dove racconta di aver cominciato a comporre la raccolta a Mosca e di averla terminata all’Avana. Padilla afferma che non ha mai pensato di scrivere un libro né a favore né contro la Rivoluzione, semplicemente non era compito suo fare politica e occuparsi di problemi sociali. Nel 1968, quando Fuera del juego ottiene il Premio Nazionale di Letteratura dell’UNEAC, la burocrazia del Consiglio Nazionale dell’Unione degli Scrittori contesta il riconoscimento, trasformando il poeta nella pietra dello scandalo, fino a provocarne l’arresto con l’accusa di scrivere letteratura controrivoluzionaria. Nel 1971 cominciano i problemi tra la Rivoluzione Cubana e gli intellettuali di tutto il mondo, che si ribellano contro l’ingiusta detenzione di Padilla, prima in carcere e poi nella sua casa dove viene tenuto sotto sorveglianza, emarginato dalla vita culturale. Jean-Paul Sartre, Simon de Beauvoir, Julio Cortázar, Mario Vargas Llosa, Octavio Paz, Susan Sontag, Juan Goytisolo, Federico Fellini, Marguerite Duras, Alberto Moravia e altri 72 scrittori e artisti condannano i metodi totalitari di Castro e non tornano più a visitare l’isola. Nel 1998, il ministro della cultura Abel Prieto critica, in un’intervista rilasciata a Cuba Internacional, il processo conosciuto come caso Padilla, affermando che il poeta si era preso gioco della Sicurezza di Stato e che un fatto come quello non si sarebbe più ripetuto a Cuba.

Riportiamo le parole di Padilla in risposta alle menzogne di Abel Prieto: “Non si trattò di una burla, ma di un’astuta messa in scena durante la quale sono stato costretto a ripetere a memoria un testo preventivamente redatto in prigione dagli stessi ufficiali della Sicurezza. Tutto questo ha un nome: autocritica. Il procedimento è stato ideato da Lenin per recuperare i rivoluzionari nelle file del partito comunista e perfezionato da Stalin come strumento per distruggere moralmente chi esprimeva posizioni critiche. Ho accettato di recitare l’autocritica per ottenere la libertà e per poter lasciare Cuba, che ormai era diventata una prigione”.

Il caso Padilla nasce da una critica che il poeta scrive su Pasion de Urbino, romanzo di Lisandro Otero, giudicata poco rivoluzionaria perché rivolta a uno scrittore – funzionario e non allineata con il giudizio della redazione de El Caimán Barbudo. Padilla si limita a dire che Pasion de Urbino è un romanzo che porta indietro di trentacinque anni la letteratura cubana e non può reggere il confronto con Vista del amanecer en el trópico (in Europa noto come Tre tristi tigri) di Guillermo Cabrera Infante. La redazione della rivista dedica una lunga risposta alle affermazioni di Padilla, definendole controrivoluzionarie e non il linea con il pensiero dominante.

La redazione discute le opinioni del poeta con un eccesso di retorica, enumerando i successi rivoluzionari, cose come alfabetizzazione e sanità che nessuno nega. Padilla replica: “La pratica democratica è esigenza quotidiana del socialismo. Non ho compiuto un atto di coraggio criticando un romanzo. Il coraggio è ben altra cosa. Sono stati coraggiosi i guerriglieri sulla Sierra e chi ha assaltato la caserma Moncada… Io ho esercitato soltanto un diritto che credevo di avere…”. Padilla non è un dissidente, ma un rivoluzionario che vuole continuare a pensare con la propria testa, crede di aver fatto una rivoluzione per guadagnare la libertà e pensa che sia ancora possibile criticare il sistema per migliorarlo. Parla di Guillermo Cabrera Infante, si domanda perché è stato destituito dai compiti governativi e per quale motivo non gli è consentito prendere un aereo per rientrare a Cuba.

“Ho sempre ammirato il rivoluzionario che non accetta umiliazioni da nessuno e meno che mai in nome di una Rivoluzione che rifiuta certi procedimenti. Il vero rivoluzionario non è il più docile e il più obbediente, ma il più degno e il più disciplinato. La posta in gioco è la società che stiamo costruendo e nella quale dovremo vivere”, afferma. Heberto Padilla concorda con la tesi di Solzhenitzyn: “Una letteratura che non traduce la società in cui si realizza, che non denuncia problemi, paure, pericoli morali e sociali, è una letteratura inutile, di mera facciata”.

Padilla viene contestato duramente da Guillermo Cabrera Infante, che lo accusa di scrivere per ottenere fama all’estero e per soddisfare la sua vanità, perché a Cuba tutti conoscono le menzogne controrivoluzionarie. Per Leopoldo Ávila è tutto molto semplice: “Padilla difende Caino (Cabrera Infante) e per questo non merita rispetto. Si schiera contro la Rivoluzione perché non ha più incarichi che lo portano a fare viaggi all’estero, spendere dollari e a fare la bella vita”. Padilla sarebbe soltanto un poeta di terz’ordine che per guadagnare fama scredita la Rivoluzione, parla di polizia che minaccia, libertà che non esiste e un governo che non ammette contraddittorio.

La dichiarazione dell’UNEAC sembra in sintonia, quando afferma che la Rivoluzione Cubana rispetta la libertà di espressione, non si propone di eliminare la critica e non pretende che gli intellettuali siano asserviti al potere. Fidel Castro non ha ancora pronunciato il famoso discorso rivolto agli intellettuali: “Niente sarà concesso fuori dalla Rivoluzione!”, ma lo farà presto. I tempi cambiano e il caso Padilla si trasforma nella prima battuta di arresto della Rivoluzione, che subisce critiche da parte di intellettuali latinoamericani ed europei.

Heberto Padilla è arrestato, insieme alla moglie Belkis Cuza Malé, il 20 marzo 1971, viene rinchiuso in una cella di due metri, dove secondo la sua testimonianza (confermata da Reinaldo Arenas che ha subito simili trattamenti) viene malmenato, ma anche torturato con bagni freddi e caldi. Il proposito di Fidel Castro è quello di provocare una ritrattazione, screditarlo davanti al pubblico e nei confronti dei giovani scrittori cubani che lo ammirano. Per trentasette giorni Padilla è torturato psicologicamente e materialmente, fino al momento in cui non accetta di firmare la ritrattazione. Il poeta resta in galera fino al 27 aprile e in quello stesso giorno pronuncia davanti all’UNEAC la famosa autocritica concordata con i carcerieri.

L’autocritica di Padilla è scritta con linguaggio da burocrate, per niente letterario e molto stalinista. Basta leggere alcune pagine per capire che il suo discorso non è sincero, perché il poeta mette in discussione tutte le sue precedenti opinioni, persino il valore letterario di Tre tristi tigri e la pochezza narrativa dell’opera di Lisandro Otero. Padilla non ha alternativa che recitare un’autocritica se vuol tornare libero. “Quando a un uomo mettono davanti quattro mitragliatori e lo minacciano di tagliargli le mani se non ritratta, di solito acconsente, anche perché le sue mani sono necessarie per continuare a scrivere”, scrive. Reinaldo Arenas paragona la ritrattazione di Padilla al processo subito da Galileo Galilei e a quello del protagonista di 1984 di George Orwell, quando alla fine del romanzo, dopo essere stato sottomesso alle più terribili torture, dichiara di amare il Grande Fratello.

Padilla viene scarcerato, ma continua a vivere a Cuba come un fantasma fino al 1980, cancellato dalla vita pubblica e intellettuale, costretto a scrivere di nascosto senza essere pubblicato, praticamente oscurato e messo in condizione di non nuocere. Nel 1980 viene accolta la sua richiesta di espatrio negli Stati Uniti, dopo numerose sollecitazioni da parte di intellettuali europei. È ormai un uomo finito. Negli Stati Uniti pubblica Nel mio giardino pascolano gli eroi e il diario delle sofferenze quotidiane intitolato La mala memoria, ma la sua opera fondamentale resta Fuori dal gioco, simbolo di un poeta che si ribella al potere.

di Heberto Padilla

EN TIEMPOS DIFÍCILES

A aquel hombre le pidieron su tiempo
para que lo juntara al tiempo de la Historia.
Le pidieron las manos,
porque para una época dificil
nada hay mejor que un par de buenas manos.
Le pidieron los ojos
que alguna vez tuvieron lágrimas
para que contemplara el lado claro
(especialmente el lado claro de la vida)
porque para el horror basta un ojo de asombro.
Le pidieron sus labios
resecos y cuarteados para afirmar,
para erigir, con cada afirmación, un sueño
(el-alto-sueño);
le pidieron las piernas,
duras y nudosas,
(sus viejas piernas andariegas)
porque en tiempos dificiles
¿algo hay mejor que un par de piernas
para la construccion o la trinchera?
Le pidieron el bosque que lo nutrió de niño,
con su árbol obediente.
Le pidieron el pecho, el corazón, los hombros.
Le dijeron
que eso era estrictamente necesario.
Le explicaron después
que toda esta donación resultaría inútil
sin entregar la lengua,
porque en tiempos difíciles
nada es tan útil para atajar el odio o la mentira.
Y finalmente le rogaron
que, por favor, echase a andar,
porque en tiempos difíciles
esta es, sin duda, la prueba decisiva.

IN TEMPI DIFFICILI

A quell’uomo gli chiesero il suo tempo
perché lo unisse al tempo della storia.
Gli chiesero le mani,
perché per un’epoca difficile
niente è meglio che un paio di buone mani.
Gli chiesero gli occhi
che qualche volta versarono lacrime
perché non contemplasse il lato chiaro
(specialmente il lato chiaro della vita)
perché per l’orrore basta un occhio stupito.
Gli chiesero le sue labbra
risecchite e macellate per affermare,
per erigere, con ogni affermazione, un sogno
(l’alto sogno):
gli chiesero le gambe,
dure e nodose,
(le sue vecchie gambe vagabonde)
perché in tempi difficili
cosa c’è di meglio che un paio di gambe
per la costruzione o la trincea?
Gli chiesero il bosco che lo nutrì da bambino,
con il suo albero obbediente.
Gli chiesero il petto, il cuore, le spalle.
Gli dissero
che questo era strettamente necessario.
Gli spiegarono dopo
che tutta questa donazione sarebbe stata inutile
senza consegnare la lingua,
perché in tempi difficili
niente è così utile per fermare l’odio e la menzogna.
E finalmente lo pregarono
che, per favore, si mettesse a camminare,
perché in tempi difficili,
questa è, senza dubbio, la prova decisiva.

EL DISCURSO DEL MÉTODO

Si después que termina el bombardeo,
andando sobre la hierba que puede crecer lo mismo
entre las ruinas
que en el sombrero de tu Obispo,
eres capaz lo imaginar que no estás viendo
lo que se va a plantar irremediablemente delante
de tus ojos,
o que no estás oyendo
lo que tendrás que oír durante mucho tiempo todavía;
o (lo que es peor)
piensas que será suficiente la astucia o el buen juicio
para evitar que un día, al entrar en tu casa,
sólo encuentres un sillón destruido, con un montón
de libros rotos,
yo le aconsejo que corras enseguida,
que busques un pasaporte,
alguna contraseña,
un hijo enclenque, cualquier cosa
que puedan justificarte ante una policía por el
momento torpe
(porque ahora está formada
de campesinos y peones)
y que te largues de una vez y para siempre.
Huye por la escalera del jardín
(que no te vea nadie).
No cojas nada.
No servirán de nada
ni un abrigo, ni un guante, ni un apellido,
ni un lingote de oro, ni un título borroso.
No pierdas tiempo
enterrando joyas en las paredes
(las van a descubrir de cualquier modo).
No te pongas a guardar escrituras en los sótanos
(las localizarán después los milicianos).
Ten desconfianza de la mejor criada.
No le entregues las llaves al chofer, no le confíes
la perra al jardinero.
No te ilusiones con las noticias de onda corta.
Párate ante el espejo más alto de la sala,
tranquilamente,
y contempla tu vida,
y contémplate ahora como eres
porque ésta será la última vez.
Ya están quitando las barricadas de los parques.
Ya los asaltadores del poder están subiendo a la tribuna.
Ya el perro, el jardinero, el chofer, la criada
están allí aplaudiendo.

IL DISCORSO DEL METODO

Se dopo terminato il bombardamento,
camminando sull’erba che può crescere lo stesso
tra le rovine
come nel cappello del tuo Obispo
sei capace di immaginare che non stai vedendo
quello che si va a piantare definitivamente davanti
ai tuoi occhi,
o che non stai udendo
quello che dovrai ascoltare ancora per molto tempo
o (quel che è peggio)
pensi che sarà sufficiente l’astuzia e il buon giudizio
per evitare che un giorno, entrando nella tua casa,
troverai solo una poltrona distrutta, con un mucchio
di libri strappati,
io ti consiglio di correre immediatamente,
di cercare un passaporto
qualche contrassegno
un figlio malaticcio, qualunque cosa
che possa giustificarti con la polizia per il
momento inopportuno
(perché ora è composta
da contadini e lavoratori alla giornata)
e che tu prenda il largo definitivamente e per sempre.
Scappa per la scala del giardino
(che non ti veda nessuno).
Non prendere niente.
Non ti servirà niente
né un cappotto, né un guanto, né un cognome,
né un lingotto d’oro, né un titolo confuso.
Non perdere tempo
nascondendo gioielli nelle pareti
(li scopriranno in qualche modo).
Non ti mettere a riporre scritture nelle cantine
(le localizzeranno dopo i miliziani).
Diffida della miglior servitù.
Non consegnare le chiavi all’autista, non affidare
la cagna al giardiniere.
Non ti illudere con le notizie in onda corta.
Mettiti davanti allo specchio più alto della sala,
tranquillamente
e contempla la tua vita
e contemplati ora come sei
perché questa sarà l’ultima volta.
Adesso stanno togliendo le barricate dai parchi.
Adesso gli assaltatori del potere stanno già salendo alla tribuna.
Adesso il cane, il giardiniere, l’autista, la servitù
sono lì che applaudono.

ORACIÓN PARA EL FIN DE SIGLO

Nosotros que hemos mirado siempre con ironía e indulgencia
los objetos abigarrados del fin de siglo: las construcciones
y las criaturas
trabadas en oscuras levitas.
Nosotros para quienes el fin de siglo fue a lo sumo
un grabado y una oración francesa.
Nosotros que creíamos que al final de cien años sólo había
un pájaro negro que levantaba la cofia de una abuela.
Nosotros que hemos visto el derrumbe de los parlamentos
y el culo remendado del liberalismo.
Nosotros que aprendimos a desconfiar de los mitos ilustres
y a quienes nos parece absolutamente imposible
(inhabitable)
una sala de candelabros,
una cortina
y una silla Luis XV.
Nosotros, hijos y nietos ya de terroristas melancólicos
y de científicos supersticiosos,
que sabemos que en el día de hoy está el error
que alguien habrá de condenar mañana.
Nosotros, que estamos viviendo los últimos años
de este siglo,
deambulamos, incapaces de improvisar un movimiento
que no haya sido concertado;
gesticulamos en un espacio más restringido
que el de las líneas de un grabado;
nos ponemos las oscuras levitas
como si fuéramos a asistir a un parlamento,
mientras los candelabros saltan por la cornisa
y los pájaros negros
rompen la cofia de esta muchacha de voz ronca.

ORAZIONE PER LA FINE DEL SECOLO

Noi che abbiamo guardato sempre con ironia e indulgenza
gli oggetti vistosi di fine secolo: le costruzioni
e le creature
incastrate in oscure giacchette.
Per noi che il fine secolo fu al massimo
un’incisione e un’orazione francese.
Noi che abbiamo creduto che al termine di cento anni restasse solo
un uccello nero che alzava la cuffia di una nonna.
Noi che abbiamo visto il crollo dei parlamenti
e il culo rammendato del liberalismo.
Noi che abbiamo imparato a non fidarci dei miti illustri
e che ci sembra assolutamente impossibile
(inabitabile)
una sala di candelabri,
una tenda
e una sedia Luigi XV.
Noi, figli e nipoti sia di terroristi malinconici
che di scienziati superstiziosi,
sappiamo che nel giorno attuale c’è l’errore
che qualcuno condannerà domani.
Noi, che stiamo vivendo gli ultimi anni
di questo secolo
vaghiamo, incapaci di improvvisare un movimento
che non sia stato organizzato;
gesticoliamo in uno spazio più ristretto
delle linee di un’incisione;
noi mettiamo le giacchette oscure
come se ci trovassimo a frequentare un parlamento,
mentre i candelabri saltano verso le cornici
e gli uccelli neri
rompono la cuffia di questa ragazza dalla voce roca.

LOS POETAS CUBANOS YA NO SUEÑAN

Los poetas cubanos ya no sueñan
(ni siquiera en la noche).
Van a cerrar la puerta para escribir a solas
cuando cruje, de pronto, la madera;
el viento los empuja al garete;
unas manos los cogen por los hombros,
los voltean,
los ponen frente a frente a otras caras
(hundidas en pantanos, ardiendo en el napalm)
y el mundo encima de sus bocas fluye
y está obligado el ojo a ver, a ver, a ver.

I POETI CUBANI NON SOGNANO PIÚ

I poeti cubani non sognano più
(neppure di notte)
Vanno a chiudere la porta per scrivere in solitudine
quando scricchiola, all’improvviso, il legno:
il vento li spinge alla deriva;
alcune mani li prendono per le spalle,
li rovesciano,
li mettono di fronte ad altre facce
(affondate nei pantani, bruciando nel napalm)
e il mondo sopra le loro bocche scorre
e l’occhio è obbligato a vedere, a vedere, a vedere.

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