Muerte sin fin: la poesia di José Gorostiza

redazione Autori, Poesia, SUR

Presentiamo due poesie del messicano José Gorostiza (1901-1973) ringraziando Francesco Fava, curatore e traduttore della raccolta Muerte sin fin / Morte senza fine, uscita in Messico nel 1939 e in Italia l’anno scorso in edizione bilingue per la casa editrice Le Lettere, con una prefazione di Martha Canfield e un’ampia introduzione dello stesso Francesco Fava.

Il poeta messicano José Gorostiza è stato uno dei principali rappresentanti della generazione poetica dei Contemporáneos, gruppo di autori riuniti a cavallo tra anni ’20 e ’30 del XX secolo intorno alla omonima rivista, animati da un’intenzione comune di rinnovamento e sprovincializzazione delle lettere messicane. L’apertura verso temi e autori della cultura letteraria europea di quegli anni, l’estrema cura nel lavorio formale, la volontà di superare gli argini stretti del nazionalismo post-rivoluzionario sono alcuni dei tratti comuni ad autori quali Villaurrutia, Cuesta, Torres Bodet, Pellicer.
In Gorostiza, diplomatico di carriera oltre che poeta, a questi temi si aggiungono un profondo interesse metafisico, una riflessione reiterata sulla morte e sulla conoscenza, una vastità di riferimenti culturali che spaziano da Valéry al pensiero esoterico, dall’Antico Testamento alla grande tradizione del Barocco ispanico. José Gorostiza esordisce nel 1925 con Canciones para cantar en las barcas, raccolta di brevi poesie di delicato lirismo, di purezza melodiosa. Nel 1939, dopo lunghi anni di gestazione, approda invece alla pubblicazione del poemetto che costituisce la summa della sua ricerca poetica: Muerte sin fin. Poema in dieci canti, riflessione non soltanto sulla morte ma anche, e soprattutto, sulle possibilità e i limiti della conoscenza e del linguaggio umani, Muerte sin fin si impone come una tra le opere maggiori, e tra le più alte sfide intellettuali, della poesia ispano-americana del XX secolo.
Incentrato su un’immagine ricorrente – quella, semplicissima, di un bicchiere pieno d’acqua – il poema di Gorostiza riflette a partire dal binomio “vaso” / “agua” sulle tante dicotomie che fondano il nostro pensiero e la nostra visione del mondo: forma / sostanza; Dio / uomo; morte /vita; finito /infinito. Un poema dall’impianto filosofico, ma non astratto, la cui forza iconica sta piuttosto nella straordinaria capacità di creare immagini, spesso sconcertanti ma di assoluta immediatezza, nelle quali si fondono sinesteticamente metafora, similitudine e paradosso.
Si propongono qui i Canti I e IV, nella traduzione di Francesco Fava. Il poema è stato recentemente pubblicato, per la prima volta, in edizione italiana.

I

Lleno de mí, sitiado en mi epidermis
por un dios insaible que me ahoga,
mentido acaso
por su radiante atmósfera de luces
que oculta mi conciencia derramada,
mis alas rotas en esquirlas de aire,
mi torpe andar a tientas por el lodo;
lleno de mí – ahito – m descubro
en la imagen atónita del agua,
que tan sólo es un tumbo inmarcescible,
un desplome de ángeles caídos
a la delicia intacta de su peso,
que nada tiene
sino la cara en blanco
hundida a medias, ya, como una risa agónica,
en las tenues holandas de la nube
y en los funestos cánticos del mar
– más resabio de sal o albor de cumulo
que sola prisa de acosada espuma.
No obstante – oh paradoja – constreñida
por el rigor del vaso que la aclara,
el agua toma forma.
En él se asienta, ahonda y edifica,
cumple una edad amarga de silencios
y un reposo gentil de muerte niña,
sonriente, que desflora
un más allá de pajaros
en desbandada.
En la red de cristal que la estrangula,
alli, cono en el agua de un espejo,
se reconoce;
atada allí, gota con gota,
marchito el tropo de espuma en la garganta
qué desnudez de agua tan intensa,
qué agua tan agua,
esta en su orbe tornasol soñando,
cantando ya una sed de hielo justo!
Mas que vaso – también – más providente
éste que así se hinche
como una estrella en grano,
que asi, en heroica promisión, se enciende
como un seno habitado por la dicha,
y rinde así, puntual,
una rotunda flor
de transparencia al agua,
un ojo proyectil que cobra alturas
y una ventana a gritos luminosos
sobre esa libertad enardecida
que se agobia de cándidas prisiones!

I

Pieno di me, assediato nella pelle
da uno sfuggente dio che mi soffoca,
forse ingannato
dal suo raggiante effondere di luci
che cela questa mia coscienza sparsa,
le mie ali spezzate in schegge d’aria,
il mio maldestro incedere nel fango;
pieno di me – stracolmo – mi riscopro
nell’immagine attonita dell’acqua,
che è solo una cascata immarcescibile,
un precipizio di angeli caduti
alla delizia intatta del suo peso,
che non ha nulla
se non il volto in bianco,
mezzo affondato, come un riso in agonia,
tra le tenui lenzuola della nube
e nei funesti cantici del mare
– retrogusto di sale o albore in cumuli
più che semplice fretta d’incalzante spuma.
E tuttavia – oh paradosso – prigioniera
del rigore acclarante del bicchiere,
prende una forma l’acqua.
In lui si adagia, affonda e costruisce,
compie un’amara era di silenzi
e il riposo gentile
di una morte bambina, sorridente,
che un aldilà d’uccelli
deflora, stormo allo sbaraglio.
Nella rete di vetro che la strangola,
è lì, come nell’acqua di uno specchio,
che si riconosce;
legata lì, goccia con goccia,
tropo di spuma vizzo nella gola,
che nudità di acqua così intensa!,
che acqua così acqua,
sta nel suo orbe iridescente e sogna,
canta oramai una sete
di ghiaccio giusto!
Ma che bicchiere – anche – provvidente
questo che ora si gonfia
come una stella in boccio,
che ora, in eroica promessa, si accende
come un seno abitato dalla gioia,
e restituisce, puntuale, un rotondo
fiore di trasparenza all’acqua,
un occhio che proiettile raggiunge alture
e una finestra d’urla luminose
su quell’ardente libertà
insofferente a candide prigioni.

IV

Oh inteligencia, soledad en llamas,
que todo lo concibe sin crearlo!
Finge el calor del lodo,
su emoción de substancia adolorida,
el iracundo amor que lo embellece
y lo encumbra mas alla de las alas
a donde sólo el ritmo
de los luceros llora,
mas no le infunde el soplo que lo pone en pie
y permanece recreándose en si misma,
unica en El, inmaculada, sola en El,
reticencia indecible,
amoroso temor de la materia,
angélico egoísmo que se escapa
como un grito de jubilo sobre la muerte
– oh inteligencia, páramo de espejos!
helada emanación de rosas pétreas
en la cumbre de un tiempo paralítico;
pulso sellado;
como una red de arterias temblorosas,
hermético sistema de eslabones
que apenas se apresura o se retarda
segun la intensidad de su deleite;
abstinencia angustiosa
que presume el dolor y no lo crea,
que escucha ya en la estepa de sus tímpanos
retumbar el gemido del lenguaje
y no lo emite;
que nada más absorbe las esencias
y se mantiene así, rencor sañudo,
una, exquisita, con su dios estéril,
sin alzar entre ambos
la sorda pesadumbre de la carne,
sin admitir en su unidad perfecta
el escarnio brutal de esa discordia
que nutren vida y muerte inconciliables,
siguiéndose una a otra
como el día y la noche,
Una y otra acampadas en la célula
como en un tardo tiempo de crépusculo,
ay, una nada más, estéril, agria,
con El, conmigo, con nosotros tres;
como el vaso y el agua, sólo una
que reconcentra su silencio blanco
en la orilla letal de la palabra
y en la inminencia misma de la sangre.
ALELUYA, ALELUYA!

IV

Oh intelligenza, solitudine infiammata,
che tutto concepisce e nulla crea!
Finge un calore come fango,
un’emozione di sostanza addolorata,
un iracondo amore che lo adorna
e lo elèva più in alto delle ali
là dove solo il ritmo
degli astri piange,
ma non gli infonde il soffio che lo tiene in piedi
e insiste a ricrearsi in sé soltanto,
unica in Lui, immacolata, sola in Lui,
reticenza ineffabile,
amoroso timore di materia,
angelico egoismo che si dà alla fuga
come un grido di giubilo sopra la morte
– oh intelligenza, altipiano di specchi!,
gelida emanazione di petrose rose
sulla vetta di un tempo paralitico;
palpito sigillato;
come una rete di tremanti arterie,
ermetico sistema di catene
che a malapena si affretta o si attarda
secondo quant’è intenso il suo diletto;
astinenza angosciosa
che presume il dolore e non lo crea,
che ascolta nella steppa dei suoi timpani
il rimbombo gemente del linguaggio
e non lo emette;
che assorbe, e nulla più, le essenze
e si conserva, rancore furente,
squisita, unica, col suo dio sterile,
senza innalzare tra sé e lui
il sordo peso della carne, senza ammettere
nella sua unità perfetta
lo scherno greve di quella discordia
che vita e morte nutrono inconciliabili,
l’una e l’altra inseguendosi
come il giorno e la notte,
l’una e l’altra accampate nella cellula
come in un tardo tempo di crepuscolo,
ahi, in un tutt’uno, sterile, inasprito,
con me, con Lui, con noi tre;
come il bicchiere e l’acqua, in un tutt’uno
che condensa quel suo silenzio bianco
sulla riva letale
della parola e nell’imminenza del sangue.
ALLELUYA, ALLELUYA!

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