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«Un romanzo sulle dipendenze», una conversazione con Alan Pauls

Guido Carelli Lynch Alan Pauls, Interviste, SUR

Pubblichiamo oggi un’intervista ad Alan Pauls rilasciata in occasione dell’uscita di Storia del denaro, ultimo volume della «Trilogia della perdita». Ringraziamo la rivista Ñ e l’autore per la concessione.

di Guido Carelli Lynch
traduzione di Raffaella Accroglianò

Ha appena terminato la «Trilogia della perdita» sugli anni Settanta formata da Storia del pianto, Storia dei capelli e Storia del denaro, l’ultima delle tre nouvelles che ha scritto come se fossero «colpi di zappa controllati». La prima, secondo le parole di Pauls, era una sorta di educazione sentimentale di un adolescente che – in termini generazionali – avrebbe potuto essere lui stesso. La seconda utilizzava i capelli, in apparenza frivoli, come nesso tra personaggi ed epoche. La terza, che è il pretesto per questa intervista, riguarda il denaro. «Volevo scrivere un romanzo porno, nel quale le scene di sesso fossero rimpiazzate da scene che hanno come protagonista il denaro. Avevo l’idea di portarne un poco all’estremo la schiettezza. Mettere australes, pesos argentini, pesos moneta nazionale, patacones, tutto. Mettere in scena questa dimensione incredibilmente storica che ha il denaro in Argentina, dove in quarant’anni si sono successe cinque monete e che per un periodo sono addirittura coesistite», dice Alan Pauls, che è allegro, raffreddato e parla come scrive – sempre con frasi lunghe e piene di subordinate – nel luminoso appartamento del quartiere Palermo, dove vive. I tre romanzi brevi, un formato che sente suo, potrebbero essere ambientati in un altro momento e in un altro luogo, anche se in realtà sono intrinsecamente e inconfondibilmente argentini.

Che rapporto hanno gli argentini con il denaro?

È strano, da una parte c’è una specie di bramosia nel parlare del proprio rapporto col denaro. Dall’altra è incredibile il ruolo che occupa nella società argentina, il suo livello di presenza impudica. Crediamo solamente nel denaro contante. La cultura economica argentina, per lo meno in questo momento, è la cultura dell’immediato, del qui e ora. È la cultura della materia, se si può dire che il denaro è materia, perché in realtà è semplicemente un simbolo. Ma il rapporto tra gli argentini e il denaro è molto pornografico. È una relazione scarsamente simbolica: quello che conta è la banconota. Non c’è paragone tra l’effetto-incantesimo e la soddisfazione che provoca, o l’effetto-incantesimo e la soddisfazione che procurerebbe sapere che ti hanno fatto un bonifico e che in quarantott’ore forse ti vedrai accreditare sul conto una somma dieci volte superiore, capisci? I soldi, avere la grana, il malloppo, in Argentina continua a essere il massimo, in termini di cultura economica, della soddisfazione.

Quando Pauls decise di scrivere Storia del denaro, l’Argentina aveva una sola moneta e praticamente non esisteva inflazione. Adesso che ha finito e parla seduto intorno a un tavolo rotondo dei Papeles de trabajo di Saer (che tanto gli piace), e dei libri che spiccano in una delle due librerie di casa: Onetti, Juan L. Ortiz; i diari di Ricardo Piglia; Marcel Duchamos. The afternoon Interviews e Mrs. Dalloway di Virginia Woolf; un dólar blue [espressione che indica i dollari comprati al mercato nero; ndt] vale nove pesos e la differenza con il cambio ufficiale è del sessantacinque per cento. Ma i traumi finanziari del paese non sono nuovi, e neanche la tendenza argentina a inventare eufemismi e sinonimi per parlare sempre della stessa cosa: i soldi. Del denaro che non basta, per esempio, perché paradossalmente ce n’è troppo in circolazione. E quindi nascono nuove parole o si danno significati nuovi a parole già esistenti per indicare il contante, la grana, forse perché, come dice il narratore del libro, permane «l’illusione che, nel passaggio dal regno dei numeri a quello delle parole, qualcosa di quel caos in espansione che è l’universo del denaro possa placarsi, rientrare nei ranghi e tornare in qualche modo sotto controllo, almeno sotto il controllo del linguaggio».

Per scrivere non si è ispirato a modelli letterari. Neanche ad Arlt, il più famoso e il più ovvio. Ha pensato alla relazione tra il denaro e l’arte contemporanea. Gli interessava comprendere perché un’opera di Jeff Koons vale 70 milioni di dollari. E anche perché i sequestri con i quali i gruppi armati finanziavano le loro operazioni avevano un tariffario spropositato. Perché 60 milioni di dollari per i fratelli Born? In Storia del denaro, nel mezzo e al margine della relazione – sempre mediata dal denaro – del protagonista con sua madre e suo padre, appaiono riflessioni esplicite su questa logica arbitraria.

«In questa arbitrarietà c’è un enigma, e credo che oggi il denaro continui a essere una realtà straordinariamente enigmatica. È qualcosa di totalmente quotidiano, senza il quale nulla potrebbe funzionare, qualcosa che storicamente ha adottato una quantità di forme diverse incredibili e ciò nonostante continua a essere, in un certo senso, una specie di buco nero, di punto cieco. Molte delle domande che ci si fa in relazione al denaro sono le domande che si fa un bambino quando comincia a capire cos’è quella carta che circola fra gli adulti. Come funziona, perché in cambio di questo ti danno quello, da dove viene la carta e chi le da il valore che dicono che ha. C’è qualcosa di profondamente enigmatico che, invece di risolversi, diviene più profondo. Il romanzo è sul contante, sul perché la cultura economica argentina è la cultura del contante, del corpo, della carne monetaria. La smaterializzazione del denaro, tipica delle civiltà progredite, non ha risolto l’enigma del denaro, anzi, lo moltiplica», dice Pauls

Attraverso lo sguardo di un ragazzo sul denaro, o gli occhi di un adulto in Storia del pianto che ricorda «l’idiota che è stato e che ormai può solo intenerirlo», Pauls scrive sempre sul trascorrere del tempo e riflette sulla perdita. Nel Passato è evidente sin dal titolo. In Wasabi, il protagonista soffre di trance involontarie nelle quali il corpo e la mente si paralizzano per sette minuti e creano illusioni, la fascinazione di un’interruzione del tempo e del suo corso fatale, come quello del denaro, della vita.

La trilogia racconta gli anni Settanta…

L’idea era di alternare epoche differenti, e poi portarle all’estremo. Di modo tale che, al principio di una frase, il personaggio avesse quattro anni e al terminarla poteva averne trenta, e nel mezzo era passato per i quindici o i sessanta. L’idea non era di limitarmi agli anni Settanta, non ho mai avuto l’idea di rievocarli, odio i romanzi di rievocazione. Il tipo di suggestione che funziona nei romanzi va e viene, rimbalza tra varie epoche. Gli anni Settanta hanno la funzione di una specie di esplosione primordiale, scatenano fantasmi, scene e ossessioni che si ripetono in ogni epoca.

Perché proprio gli anni Settanta?

Si comincia negli anni Settanta e si continua fino al giorno d’oggi. Ho sempre avuto voglia di scrivere di quest’epoca ma mi sono messo a scrivere solo quando ho avuto la prova che non era il passato argentino ma il presente. Questo succedeva sette anni fa. Quando si parla degli anni Settanta, non si sa bene se ci si sta riferendo a un’epoca storica, e quindi storicamente coagulata, oggetto della storiografia e della riflessione, o se stiamo parlando di un’epoca che ancora non è accaduta e che, comunque sia, ha rimandi fantasmagorici che la convertono in qualcosa di più importante del semplice passato.

Credi sia accaduto anche con altri periodi storici?

Sì. Basta pensare al biennio 2001-2002. Per questo era un po’ strano vedere alla fiera di Francoforte del 2010 – quando l’Argentina era il paese ospite – che l’Argentina nei discorsi ufficiali era associata esclusivamente alla dittatura militare. Per lo meno richiamava l’attenzione, come se nel nostro passato ci fosse stata solo la dittatura, e non esperienze ugualmente drammatiche come la crisi del 2001-2002. Per me gli anni Settanta non sono importanti solo per l’aspetto storico e consensuale del tema, ma anche in termini di vita vissuta, soprattutto della mia vita di scrittore perché sono gli anni in cui tutto si costruisce. Io avevo undici anni nel 1970 e ventuno nel 1980, sono i dieci anni in cui mi sono formato, e m’interessava analizzare con quali idee idee, con quale immaginario, con quali avvenimenti e con quali bassezze una persona cresce.

Per alcune persone il denaro, un po’ come il sesso, sembra sempre sporco…

Sì. Il denaro è più immediato, hai le banconote, i soldi e paghi per ciò che devi avere. Non aspetti nulla, nulla è differito, non c’è tempo. La cosa geniale del contante, ciò che lo rende irresistibile, è che dà una soddisfazione immediata, che non è mischiata con il tempo, con la sospensione. É questo che lo associo alla pornografia: nel pornosi va al sodo, al punto.

Che rapporto hai con il denaro?

Un po’ psicotico, come la maggior parte della gente. Con l’aggravante che sono uno scrittore e scrivo per mestiere, e la relazione tra denaro e letteratura è demenziale. Non quanto quella che c’è tra arte contemporanea e denaro, ma abbastanza insensata. Non si capisce mai perché ti pagano quanto ti pagano. Se fossi uno scrittore che vende 500 mila copie di ogni libro, sicuramente avrei un rapporto più vero col denaro. Ci sarebbe un collegamento diretto tra l’anticipo che mi pagano e il numero di copie che vendo. Nel mio caso e in quello dell’ottanta per cento degli scrittori, non si può prevedere. Mi è sempre piaciuto il carattere lussuoso di questo rapporto, l’idea che i soldi che ricevo per scrivere non siano proporzionati a ciò che scrivo ma che siano invece un plusvalore, una specie di eccesso, di regalo che arriva. E non arriva solo una volta, ma può arrivare ogni anno, e quei soldi sono quasi miracolosi, magici. Mi è sempre sembrato che il denaro fosse, e dovesse essere, un lusso in letteratura. Appena uno si mette a scrivere un libro (perfino se commissionato), quel calcolo diventa completamente improprio, inadeguato, perché scrivere diventa ciò che è, un’esperienza in totale perdita. Specialmente per me, che non sono una macchina da scrivere né uno «scrittore professionista» con un’agenda dettata fitta di scadenze e consegne. Sono piuttosto una specie di piccolo artigiano che deve cambiare in continuazione velocità, ritmo. Il rapporto denaro-letteratura è sempre un mistero. Oscillo sempre tra sentirmi la persona più ricca della terra e la persona più povera ma probabilmente è proprio in questo oscillare che sta la mia vera relazione con i soldi.

Hanno criticato il ruolo che dai alle donne nel Passato. Anche la madre di Storia del denaro potrebbe suscitare non poche critiche.

Si tratta fondamentalmente di relazioni di dipendenza, questo è un romanzo sulle dipendenze. Potrei quasi rimpiazzare le scene di soldi con scene di droga. Tutti i personaggi sono dipendenti dal denaro. Come dice l’epigrafe di Franziska zu Reventlow al romanzo, «Le assicuro che appena arriverà il denaro tornerò ad essere assolutamente normale»; è come la frase di un tossico: «se mi dai l’eroina questa volta poi la smetto». Mi hanno sempre interessato le dipendenze, non solo in rapporto con il suo oggetto più letterale, le droghe, ma in tutti i sensi: la dipendenza amorosa, quella dal denaro. Mi interessa quella strana lucidità che hanno le persone con delle dipendenze quando ne parlano. Chiaramente quella lucidità non è mai sufficiente per salvarli, ma non c’è nulla di più illuminante di qualcuno che parla delle sue ossessioni, è come se ne sapesse tutto. È anche il tema dei tre libri: come si reagisce quando si perde qualcosa? È una questione argentina: che cazzo fare con ciò che si è perso? Che fare con il mito dell’Argentina, che era un paese straordinario, ricco, geniale, intelligente, europeo? Che fare di tutto ciò? Molta di questa mitologia è andata in pezzi nel 2001 e nel 2002, ma credo che quando perdi qualcosa ne soffri sulla tua pelle.

Pauls smise di insegnare Letteratura alla UBA quando si rese conto che si sarebbe dovuto dedicare alla carriera accademica. Si sentiva scrittore e pensò che se avesse optato per la facoltà in calle Puán sarebbe dovuto entrare in una specie di ascensore, di tubo, e «fare e ambire a certe cose». Si rese conto che non aveva la stoffa per farlo. Lo racconta lui stesso e dice: «Mollai anche perché quel periodo tra l’83 e l’89, il periodo in cui insegnai, fu geniale e totalmente sperimentale per la UBA. Bisognava reinventare le cattedre, il modo d’insegnare, durante quei sei anni nessuno sapeva bene cosa stava insegnando, si insegnava ciò che non si conosceva».

Poco tempo fa ha tenuto lezioni a Princeton, la stessa prestigiosa università americana dove insegnava Ricardo Piglia e dove si laureò il suo amato Scott Fitzgerald. Un corso era su Roberto Bolaño. Tenne anche un seminario post lauream sulla vita pubblica dello scrittore, la sua teatralità, il modo in cui si parla in pubblico, nei congressi, nelle tavole rotonde o quando va in televisione.

Ti consideri uno scrittore consapevole?

No, non sono del tutto consapevole di ogni intervento che faccio. Però credo di esserlo e che in generale gli scrittori lo siano sempre di più. Credo che sia un male dell’epoca, la vita pubblica non è solamente un palco scenico ma anche un mezzo per intervenire, una parte di ciò di cui uno scrittore dispone. L’idea dello scrittore che dice: «Uh, devo partecipare a una tavola rotonda, che dico, che faccio, che mi metto», è un falso mito, antico. È come immaginarsi lo scrittore solo davanti alla pagina bianca: un mito romantico che non esiste più. E gli scrittori completamente terrorizzati dalle apparizioni pubbliche ne sono consapevoli tanto quanto chi, al contrario, amministra e gestisce con professionismo la sua immagine pubblica. Mi sembra che la consapevolezza sia un mezzo, un supporto su cui bisogna fare affidamento.

Però hai anche detto che è «un male dell’epoca»…

Sì, nel senso che se mi metto a riflettere se gli scrittori siano necessari o meno per l’esistenza della letteratura, penso di no. Ho la stessa idea che avevo a sette anni, quando credevo che gli scrittori erano per definizione morti. Se c’erano i libri era perché dovevano esserci gli scrittori. Il libro era un sostituto dello scrittore, ciò che aveva lasciato al mondo prima di sparire. Mi sembrava perfettamente coerente, e lo penso ancora. Mi sembra che l’inflazione della figura dello scrittore nella cultura contemporanea abbia a che vedere con la necessità disperata di convertire la letteratura in una qualche forma di spettacolo per continuare a darle spazio. Quindi, se gli scrittori sono ubriaconi, se si drogano, sposano le proprie figlie o sono esploratori, gli dai un plus, un plusvalore che permette ai giornalisti di dire: «Bene, diamogli mezza pagina a questo libro». In questo senso dico che è un male dell’epoca.

La letteratura argentina contemporanea non funziona, a volte, come un club di amici che non litiga né fa polemica per paura del giudizio degli altri?

Magari fosse un club di amici, perché se lo fosse, ci sarebbero molti club di amici e potrebbero litigare tra loro. Io credo che ci sia una certa coscienza corporativa, uno spirito comune, una legione; come gli attori, persone che difendono l’esistenza della loro professione e hanno sempre paura di ciò che minaccia di farli sparire dalla faccia della terra. Ma, ciò detto, io vedo Fernando Vallejo in pubblico e mi sembra un grande scrittore, come quando leggo i suoi libri. E non vorrei che Vallejo un giorno decidesse che da quel momento sarà soltanto i suoi libri. Perché ha una presenza scenica, da performer, artistica, notevole. È chiaro che ammazzerei migliaia di scrittori che appaiono in tribuna e non hanno di meglio da fare che balbettare stupidità o raccontare i loro viaggi. Mi pare che sia un terreno sul quale si può essere geniali o imbecilli, come quando si scrive. La vita pubblica, le apparizioni, la dimensione fenomenica dello scrittore possono essere una cosa straordinaria o desolante, deprimente e noiosa, non so. Ciò che è evidente, è che ormai non si può ignorare questo aspetto.

© Guido Carelli Lynch, 2013. Tutti i diritti riservati.

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